Salvifici doloris  - Giovanni Paolo II -

 

 

I. INTRODUZIONE

Venerati fratelli e diletti figli.

1. "Completo nella mia carne - dice l’apostolo Paolo spiegando il valore salvifico della sofferenza - quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa".

Queste parole sembrano trovarsi al termine del lungo cammino che si snoda attraverso la sofferenza inserita nella storia dell’uomo e illuminata dalla parola di Dio. Esse hanno quasi il valore di una definitiva scoperta, che viene accompagnata dalla gioia; per questo l’Apostolo scrive: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi" (Col 1,24). La gioia proviene dalla scoperta del senso della sofferenza, e una tale scoperta, anche se vi partecipa in modo personalissimo Paolo di Tarso che scrive queste parole, è al tempo stesso valida per gli altri. L’Apostolo comunica la propria scoperta e ne gioisce a motivo di tutti coloro che essa può aiutare - così come aiutò lui - a penetrare il senso salvifico della sofferenza.

2. Il tema della sofferenza - proprio sotto l’aspetto di questo senso salvifico - sembra essere profondamente inserito nel contesto dell’anno della redenzione come giubileo straordinario della Chiesa; e anche questa circostanza si dimostra direttamente in favore dell’attenzione da dedicare ad esso proprio durante questo periodo. Indipendentemente da questo fatto, è un tema universale che accompagna l’uomo ad ogni grado della longitudine e della latitudine geografica: esso, in un certo senso, coesiste con lui nel mondo, e perciò esige di essere costantemente ripreso. Anche se Paolo nella lettera ai Romani ha scritto che "tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto" (Rm 8,22), anche se all’uomo sono note e vicine le sofferenze proprie del mondo degli animali, tuttavia ciò che esprimiamo con la parola "sofferenza" sembra essere particolarmente essenziale alla natura dell’uomo. Ciò è tanto profondo quanto l’uomo, appunto perché manifesta a suo modo quella profondità che è propria dell’uomo, e a suo modo la supera. La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell’uomo: essa è uno di quei punti, nei quali l’uomo viene in un certo senso "destinato" a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso.

3. Se il tema della sofferenza esige di essere affrontato in modo particolare nel contesto dell’anno della redenzione, ciò avviene prima di tutto perché la redenzione si è compiuta mediante la croce di Cristo, ossia mediante la sua sofferenza. E al tempo stesso nell’anno della redenzione ripensiamo alla verità espressa nell’enciclica "Redemptor Hominis": in Cristo "ogni uomo diventa la via della Chiesa". Si può dire che l’uomo diventa in modo speciale la via della Chiesa, quando nella sua vita entra la sofferenza. Ciò avviene - come è noto - in diversi momenti della vita, si realizza in modi differenti, assume diverse dimensioni; tuttavia, nell’una o nell’altra forma, la sofferenza sembra essere, ed è, quasi inseparabile dall’esistenza terrena dell’uomo.

Dato dunque che l’uomo, attraverso la sua vita terrena, cammina in un modo o nell’altro sulla via della sofferenza, la Chiesa in ogni tempo - e forse specialmente nell’anno della redenzione - dovrebbe incontrarsi con l’uomo proprio su questa via. La Chiesa, che nasce dal mistero della redenzione nella croce di Cristo, è tenuta a cercare l’incontro con l’uomo in modo particolare sulla via della sua sofferenza. In un tale incontro l’uomo "diventa la via della Chiesa", ed è, questa, una delle vie più importanti.

4. Da qui deriva anche la presente riflessione, proprio nell’anno della redenzione: la riflessione sulla sofferenza. La sofferenza umana desta compassione, desta anche rispetto, e a suo modo intimidisce. In essa, infatti, è contenuta la grandezza di uno specifico mistero. Questo particolare rispetto per ogni umana sofferenza deve esser posto all’inizio di quanto verrà espresso qui successivamente dal più profondo bisogno del cuore, e anche dal profondo imperativo della fede. Intorno al tema della sofferenza questi due motivi sembrano avvicinarsi particolarmente tra loro e unirsi: il bisogno del cuore ci ordina di vincere il timore, e l’imperativo della fede formulato, per esempio, nelle parole di san Paolo, riportate all’inizio - fornisce il contenuto, nel nome e in forza del quale osiamo toccare ciò che sembra in ogni uomo tanto intangibile: poiché l’uomo, nella sua sofferenza, rimane un mistero intangibile.

 

II. IL MONDO DELL’UMANA SOFFERENZA

5. Anche se nella sua dimensione soggettiva, come fatto personale, racchiuso nel concreto e irripetibile interno dell’uomo, la sofferenza sembra quasi ineffabile e incomunicabile, al tempo stesso, nella sua realtà oggettiva, forse non c’è nient’altro quanto essa che esiga di essere trattato, meditato, concepito nella forma di un esplicito problema; intorno al quale si pongano interrogativi di fondo e si cerchino le risposte. Come si vede, non si tratta qui solo di dare una descrizione della sofferenza. Vi sono altri criteri, che vanno oltre la sfera della descrizione, e che dobbiamo introdurre, quando vogliamo penetrare il mondo dell’umana sofferenza.

Si sa che la medicina, come scienza e insieme come arte del curare, scopre sul vasto terreno delle sofferenze dell’uomo il settore più conosciuto, quello identificato con maggior precisione e, relativamente, più controbilanciato dai metodi del "reagire" (cioè della terapia). Tuttavia, questo è solo un settore. Il terreno della sofferenza umana è molto più vasto, molto più vario e pluridimensionale. L’uomo soffre in modi diversi, non sempre contemplati dalla medicina, neanche nelle sue più avanzate specializzazioni. La sofferenza è qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più complesso e insieme ancor più profondamente radicato nell’umanità stessa. Una certa idea di questo problema ci viene dalla distinzione tra sofferenza fisica e sofferenza morale. Questa distinzione prende come fondamento la duplice dimensione dell’essere umano, e indica l’elemento corporale e spirituale come l’immediato o diretto soggetto della sofferenza. Per quanto si possano, fino ad un certo grado, usare come sinonimi le parole "sofferenza" e "dolore", la sofferenza fisica si verifica quando in qualsiasi modo "duole il corpo", mentre la sofferenza morale è "dolore dell’anima". Si tratta, infatti, del dolore di natura spirituale, e non solo della dimensione "psichica" del dolore che accompagna sia la sofferenza morale, sia quella fisica. La vastità e la multiformità della sofferenza morale non sono certamente minori di quella fisica; al tempo stesso, però, essa sembra quasi meno identificata e meno raggiungibile dalla terapia.

6. La sacra scrittura è un grande libro sulla sofferenza. Riportiamo dai libri dell’Antico Testamento solo alcuni esempi di situazioni, che recano i segni della sofferenza e, prima di tutto, di quella morale: il pericolo di morte, la morte dei propri figli e, specialmente, la morte del figlio primogenito e unico, e poi anche: la mancanza di prole, la nostalgia per la patria, la persecuzione e l’ostilità dell’ambiente, lo scherno e la derisione per il sofferente, la solitudine e l’abbandono; e ancora: i rimorsi di coscienza, la difficoltà di capire perché i cattivi prosperano e i giusti soffrono, l’infedeltà e l’ingratitudine da parte degli amici e dei vicini; infine: le sventure della propria nazione.

L’Antico Testamento, trattando l’uomo come un "insieme" psicofisico, unisce spesso le sofferenze "morali" col dolore di determinate parti dell’organismo: delle ossa, dei reni, del fegato, dei visceri, del cuore. Non si può, infatti, negare che le sofferenze morali abbiano anche una loro componente "fisica", o somatica, e che spesso si riflettano sullo stato dell’intero organismo.

7. Come si vede dagli esempi riportati, nella sacra scrittura troviamo un vasto elenco di situazioni variamente dolorose per l’uomo. Quest’elenco diversificato certamente non esaurisce tutto ciò che in tema di sofferenza ha già detto e costantemente ripete il libro della storia dell’uomo (questo è piuttosto un "libro non scritto"), e ancor più il libro della storia dell’umanità, letto attraverso la storia di ogni uomo.

Si può dire che l’uomo soffre, allorquando sperimenta un qualsiasi male. Nel vocabolario dell’Antico Testamento il rapporto tra sofferenza e male si pone in evidenza come identità. Quel vocabolario, infatti, non possedeva una parola specifica per indicare la "sofferenza"; perciò definiva come "male" tutto ciò che era sofferenza. Solamente la lingua greca e, insieme con essa, il Nuovo Testamento (e le versioni greche dall’Antico) si servono del verbo "pascho" = "sono affetto da..., provo una sensazione, soffro"; e grazie ad esso la sofferenza non è più direttamente identificabile col male (oggettivo), ma esprime una situazione nella quale l’uomo prova il male e, provandolo, diventa soggetto di sofferenza. Questa invero ha, a un tempo, carattere attivo e passivo (da "patior"). Perfino quando l’uomo si provoca da solo una sofferenza, quando è l’autore di essa, questa sofferenza rimane qualcosa di passivo nella sua essenza metafisica.

Ciò, tuttavia, non vuol dire che la sofferenza in senso psicologico non sia contrassegnata da una specifica "attività". Questa è, infatti, quella molteplice e soggettivamente differenziata "attività" di dolore, di tristezza, di delusione, di abbattimento o, addirittura, di disperazione, a seconda dell’intensità della sofferenza, della sua profondità e, indirettamente, a seconda di tutta la struttura del soggetto sofferente e della sua specifica sensibilità. Al centro di ciò che costituisce la forma psicologica della sofferenza si trova sempre un’esperienza del male, a causa del quale l’uomo soffre.

Così dunque la realtà della sofferenza provoca l’interrogativo sull’essenza del male: che cosa è il male? Quest’interrogativo sembra, in un certo senso, inseparabile dal tema della sofferenza. La risposta cristiana ad esso è diversa da quella che viene data da alcune tradizioni culturali e religiose, le quali ritengono che l’esistenza sia un male, dal quale bisogna liberarsi. Il cristianesimo proclama l’essenziale bene dell’esistenza e il bene di ciò che esiste, professa la bontà del Creatore e proclama il bene delle creature. L’uomo soffre a causa del male, che è una certa mancanza, limitazione o distorsione del bene. Si potrebbe dire che l’uomo soffre a motivo di un bene al quale egli non partecipa, dal quale viene, in un certo senso, tagliato fuori, o del quale egli stesso si è privato. Soffre in particolare quando "dovrebbe" aver parte - nell’ordine normale delle cose - a questo bene, e non l’ha. Così dunque nel concetto cristiano la realtà della sofferenza si spiega per mezzo del male, che è sempre, in qualche modo, in riferimento a un bene.

8. La sofferenza umana costituisce in se stessa quasi uno specifico "mondo" che esiste insieme all’uomo, che appare in lui e passa, e a volte non passa, ma in lui si consolida e approfondisce. Questo mondo della sofferenza, diviso in molti, in numerosissimi soggetti, esiste quasi nella dispersione. Ogni uomo, mediante la sua personale sofferenza, costituisce non solo una piccola parte di quel "mondo", ma al tempo stesso quel "mondo" è in lui come un’entità finita e irripetibile. Di pari passo con ciò va, tuttavia, la dimensione interumana e sociale. Il mondo della sofferenza possiede quasi una sua propria compattezza. Gli uomini sofferenti si rendono simili tra loro mediante l’analogia della situazione, la prova del destino, oppure mediante il bisogno di comprensione e di premura, e forse soprattutto mediante il persistente interrogativo circa il senso di essa. Benché dunque il mondo della sofferenza esista nella dispersione, al tempo stesso contiene in sé una singolare sfida alla comunione e alla solidarietà. Cercheremo anche di seguire un tale appello nella presente riflessione.

Pensando al mondo della sofferenza nel suo significato personale e insieme collettivo, non si può, infine, non notare il fatto che un tal mondo, in alcuni periodi di tempo e in alcuni spazi dell’esistenza umana, quasi si addensa in modo particolare. Ciò accade, per esempio, nei casi di calamità naturali, di epidemie, di catastrofi e di cataclismi, di diversi flagelli sociali: si pensi, ad esempio, a quello di un cattivo raccolto e legato ad esso - oppure a diverse altre cause - al flagello della fame. Si pensi, infine, alla guerra. Parlo di essa in modo speciale. Parlo delle ultime due guerre mondiali, delle quali la seconda ha portato con sé una messe molto più grande di morte e un cumulo più pesante di umane sofferenze. A sua volta, la seconda metà del nostro secolo - quasi in proporzione agli errori e alle trasgressioni della nostra civiltà contemporanea - porta in sé una minaccia così orribile di guerra nucleare, che non possiamo pensare a questo periodo se non in termini di un accumulo incomparabile di sofferenze, fino alla possibile autodistruzione dell’umanità. In questo modo quel mondo di sofferenza, che in definitiva ha il suo soggetto in ciascun uomo, sembra trasformarsi nella nostra epoca - forse più che in qualsiasi altro momento - in una particolare "sofferenza del mondo": del mondo che come non mai è trasformato dal progresso per opera dell’uomo e, in pari tempo, come non mai è in pericolo a causa degli errori e delle colpe dell’uomo.

 

III. ALLA RICERCA DELLA RISPOSTA ALL’INTERROGATIVO SUL SENSO DELLA SOFFERENZA

9. All’interno di ogni singola sofferenza provata dall’uomo e, parimenti, alla base dell’intero mondo delle sofferenze appare inevitabilmente l’interrogativo: perché? È un interrogativo circa la causa, la ragione, e insieme un interrogativo circa lo scopo (perché?) e, in definitiva, circa il senso. Esso non solo accompagna l’umana sofferenza, ma sembra addirittura determinarne il contenuto umano, ciò per cui la sofferenza è propriamente sofferenza umana.

Ovviamente il dolore, specie quello fisico, è ampiamente diffuso nel mondo degli animali. Però solo l’uomo, soffrendo, sa di soffrire e se ne chiede il perché; e soffre in modo umanamente ancor più profondo, se non trova soddisfacente risposta. Questa è una domanda difficile, così come lo è un’altra, molto affine, cioè quella intorno al male. Perché il male? Perché il male nel mondo? Quando poniamo l’interrogativo in questo modo, facciamo sempre, almeno in una certa misura, una domanda anche sulla sofferenza.

L’uno e l’altro interrogativo sono difficili, quando l’uomo li pone all’uomo, gli uomini agli uomini, come anche quando l’uomo li pone a Dio. L’uomo, infatti, non pone questo interrogativo al mondo, benché molte volte la sofferenza gli provenga da esso, ma lo pone a Dio come al Creatore e al Signore del mondo. Ed è ben noto come sul terreno di questo interrogativo si arrivi non solo a molteplici frustrazioni e conflitti nei rapporti dell’uomo con Dio, ma capiti anche che si giunga alla negazione stessa di Dio. Se, infatti, l’esistenza del mondo apre quasi lo sguardo dell’anima umana all’esistenza di Dio, alla sua sapienza, potenza e magnificenza, allora il male e la sofferenza sembrano offuscare quest’immagine, a volte in modo radicale, tanto più nella quotidiana drammaticità di tante sofferenze senza colpa e di tante colpe senza adeguata pena. Perciò, questa circostanza - forse ancor più di qualunque altra - indica quanto sia importante l’interrogativo sul senso della sofferenza, e con quale acutezza occorre trattare sia l’interrogativo stesso, sia ogni possibile risposta da darvi.

10. L’uomo può rivolgere un tale interrogativo a Dio con tutta la commozione del suo cuore e con la mente piena di stupore e di inquietudine; e Dio aspetta la domanda e l’ascolta, come vediamo nella rivelazione dell’Antico Testamento. Nel libro di Giobbe l’interrogativo ha trovato la sua espressione più viva.

È nota la storia di questo uomo giusto, il quale senza nessuna colpa da parte sua viene provato da innumerevoli sofferenze. Egli perde i beni, i figli e le figlie, e infine viene egli stesso colpito da una grave malattia. In quest’orribile situazione si presentano nella sua casa i tre vecchi conoscenti, i quali - ognuno con diverse parole - cercano di convincerlo che, poiché è stato colpito da una così molteplice e terribile sofferenza, egli deve aver commesso una qualche colpa grave. La sofferenza - essi dicono - colpisce infatti sempre l’uomo come pena per un reato; viene mandata da Dio assolutamente giusto e trova la propria motivazione nell’ordine della giustizia. Si direbbe che i vecchi amici di Giobbe vogliano non solo convincerlo della giustezza morale del male, ma in un certo senso tentino di difendere davanti a se stessi il senso morale della sofferenza. Questa, ai loro occhi, può avere esclusivamente un senso come pena per il peccato, esclusivamente dunque sul terreno della giustizia di Dio, che ripaga col bene il bene e col male il male.

Il punto di riferimento è in questo caso la dottrina espressa in altri scritti dell’Antico Testamento che ci mostrano la sofferenza come pena inflitta da Dio per i peccati degli uomini. Il Dio della Rivelazione è legislatore e giudice in una tale misura, quale nessuna autorità temporale può avere. Il Dio della rivelazione, infatti, è prima di tutto il Creatore, dal quale, insieme con l’esistenza, proviene il bene essenziale della creazione. Pertanto, anche la consapevole e libera violazione di questo bene da parte dell’uomo è non solo una trasgressione della legge, ma al tempo stesso un’offesa al Creatore, che è il primo Legislatore. Tale trasgressione ha carattere di peccato, secondo il significato esatto, cioè biblico e teologico, di questa parola. Al male morale del peccato corrisponde la punizione, che garantisce l’ordine morale nello stesso senso trascendente, nel quale quest’ordine è stabilito dalla volontà del Creatore e supremo Legislatore. Di qui deriva anche una delle fondamentali verità della fede religiosa, basata del pari sulla Rivelazione: che cioè Dio è giudice giusto, il quale premia il bene e punisce il male: "Tu, Signore, sei giusto in tutto ciò che hai fatto; tutte le tue opere sono vere, rette le tue vie e giusti tutti i tuoi giudizi. Giusto è stato il tuo giudizio per quanto hai fatto ricadere su di noi... Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri peccati".

Nell’opinione espressa dagli amici di Giobbe, si manifesta una convinzione che si trova anche nella coscienza morale dell’umanità: l’ordine morale oggettivo richiede una pena per la trasgressione, per il peccato e per il reato. La sofferenza appare, da questo punto di vista, come un "male giustificato". La convinzione di coloro che spiegano la sofferenza come punizione del peccato trova il suo sostegno nell’ordine della giustizia, e ciò corrisponde all’opinione espressa da un amico di Giobbe: "Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie" (Gb 4,8).

11. Giobbe, tuttavia, contesta la verità del principio, che identifica la sofferenza con la punizione del peccato. E lo fa in base alla propria opinione. Infatti, egli è consapevole di non aver meritato una tale punizione, anzi espone il bene che ha fatto nella sua vita. Alla fine Dio stesso rimprovera gli amici di Giobbe per le loro accuse e riconosce che Giobbe non è colpevole. La sua è la sofferenza di un innocente; deve essere accettata come un mistero, che l’uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza.

Il libro di Giobbe non intacca le basi dell’ordine morale trascendente, fondato sulla giustizia, quali sono proposte dalla Rivelazione, nell’antica e nella nuova alleanza. Al tempo stesso, però, il libro dimostra con tutta fermezza che i principi di quest’ordine non si possono applicare in modo esclusivo e superficiale. Se è vero che la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa e abbia carattere di punizione. La figura del giusto Giobbe ne è una prova speciale nell’Antico Testamento. La Rivelazione, parola di Dio stesso, pone con tutta franchezza il problema della sofferenza dell’uomo innocente: la sofferenza senza colpa. Giobbe non è stato punito, non vi erano le basi per infliggergli una pena, anche se è stato sottoposto a una durissima prova. Dall’introduzione del libro risulta che Dio permise questa prova per provocazione di Satana. Questi, infatti, aveva contestato davanti al Signore la giustizia di Giobbe: "Forse che Giobbe teme Dio per nulla?... Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani, e il suo bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti benedirà in faccia" (Gb 1,9-11). E se il Signore acconsente a provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per dimostrarne la giustizia. La sofferenza ha carattere di prova.

Il libro di Giobbe non è l’ultima parola della Rivelazione su questo tema. In un certo modo esso è un annuncio della passione di Cristo. Ma, già da solo, è un argomento sufficiente, perché la risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza non sia collegata senza riserve con l’ordine morale, basato sulla sola giustizia. Se una tale risposta ha una sua fondamentale e trascendente ragione e validità, al tempo stesso essa si dimostra non solo insoddisfacente in casi analoghi alla sofferenza del giusto Giobbe, ma anzi sembra addirittura appiattire e impoverire il concetto di giustizia, che incontriamo nella Rivelazione.

12. Il libro di Giobbe pone in modo acuto il "perché" della sofferenza, mostra pure che essa colpisce l’innocente, ma non dà ancora la soluzione al problema. Già nell’Antico Testamento notiamo un orientamento che tende a superare il concetto, secondo cui la sofferenza ha senso unicamente come punizione del peccato, in quanto si sottolinea nello stesso tempo il valore educativo della pena-sofferenza. Così dunque, nelle sofferenze inflitte da Dio al popolo eletto è racchiuso un invito della sua misericordia, la quale corregge per condurre alla conversione: "Questi castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro popolo".

Così si afferma la dimensione personale della pena. Secondo tale dimensione, la pena ha senso non soltanto perché serve a ripagare lo stesso male oggettivo della trasgressione con un altro male, ma prima di tutto perché essa crea la possibilità di ricostruire il bene nello stesso soggetto sofferente. Questo è un aspetto estremamente importante della sofferenza. Esso è profondamente radicato nell’intera Rivelazione dell’antica e, soprattutto, della nuova alleanza. La sofferenza deve servire alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto, che può riconoscere la misericordia divina in questa chiamata alla penitenza. La penitenza ha come scopo di superare il male, che sotto diverse forme è latente nell’uomo, e di consolidare il bene sia in lui stesso, sia nei rapporti con gli altri e, soprattutto, con Dio.

13. Ma per poter percepire la vera risposta al "perché" della sofferenza, dobbiamo volgere il nostro sguardo verso la Rivelazione dell’amore divino, fonte ultima del senso di tutto ciò che esiste. L’amore è anche la fonte più ricca del senso della sofferenza, che rimane sempre un mistero: siamo consapevoli dell’insufficienza e inadeguatezza delle nostre spiegazioni. Cristo ci fa entrare nel mistero e ci fa scoprire il "perché" della sofferenza, in quanto siamo capaci di comprendere la sublimità dell’amore divino.

Per ritrovare il senso profondo della sofferenza, seguendo la parola rivelata di Dio, bisogna aprirsi largamente verso il soggetto umano nella sua molteplice potenzialità. Bisogna, soprattutto, accogliere la luce della Rivelazione non soltanto in quanto essa esprime l’ordine trascendente della giustizia, ma in quanto illumina quest’ordine con l’amore, quale sorgente definitiva di tutto ciò che esiste. L’amore è anche la sorgente più piena della risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza. Questa risposta è stata data da Dio all’uomo nella croce di Gesù Cristo.

 

IV. GESÙ CRISTO: LA SOFFERENZA VINTA DALL’AMORE

14. "Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). Queste parole, pronunciate da Cristo nel colloquio con Nicodemo, ci introducono nel centro stesso dell’azione salvifica di Dio. Esse esprimono anche l’essenza stessa della soteriologia cristiana, cioè della teologia della salvezza. Salvezza significa liberazione dal male, e per ciò stesso rimane in stretto rapporto col problema della sofferenza. Secondo le parole rivolte a Nicodemo, Dio dà il suo Figlio al "mondo" per liberare l’uomo dal male, che porta in sé la definitiva e assoluta prospettiva della sofferenza. Contemporaneamente, la stessa parola "dà" ("ha dato") indica che questa liberazione deve essere compiuta dal Figlio unigenito mediante la sua propria sofferenza. E in ciò si manifesta l’amore, l’amore infinito sia di quel Figlio unigenito, sia del Padre, il quale "dà" per questo il suo Figlio. Questo è l’amore per l’uomo, l’amore per il "mondo": è l’amore salvifico.

Ci troviamo qui - occorre rendersene conto chiaramente nella nostra comune riflessione su questo problema - in una dimensione completamente nuova del nostro tema. È dimensione diversa da quella che determinava e, in un certo senso, chiudeva la ricerca del significato della sofferenza entro i limiti della giustizia. Questa è la dimensione della redenzione, alla quale nell’Antico Testamento già sembrano preludere, almeno secondo il testo della Volgata, le parole del giusto Giobbe: "Io so infatti che il mio Redentore vive, e che nell’ultimo giorno... vedrò il mio Dio..." (Gb 19,25-26). Mentre finora la nostra considerazione si è concentrata prima di tutto e, in un certo senso, esclusivamente sulla sofferenza nella sua molteplice forma temporale (come anche le sofferenze del giusto Giobbe), invece le parole, ora riportate dal colloquio di Gesù con Nicodemo, riguardano la sofferenza nel suo senso fondamentale e definitivo. Dio dà il suo Figlio unigenito, affinché l’uomo "non muoia", e il significato di questo "non muoia" viene precisato accuratamente dalle parole successive: "ma abbia la vita eterna".

L’uomo "muore", quando perde "la vita eterna". Il contrario della salvezza non è, quindi, la sola sofferenza temporale, una qualsiasi sofferenza, ma la sofferenza definitiva: la perdita della vita eterna, l’essere respinti da Dio, la dannazione. Il Figlio unigenito è stato dato all’umanità per proteggere l’uomo, prima di tutto, contro questo male definitivo e contro la sofferenza definitiva. Nella sua missione salvifica egli deve, dunque, toccare il male alle sue stesse radici trascendentali, dalle quali esso si sviluppa nella storia dell’uomo. Tali radici trascendentali del male sono fissate nel peccato e nella morte: esse, infatti, si trovano alla base della perdita della vita eterna. La missione del Figlio unigenito consiste nel vincere il peccato e la morte. Egli vince il peccato con la sua obbedienza fino alla morte, e vince la morte con la sua risurrezione.

15. Quando si dice che Cristo con la sua missione tocca il male alle sue stesse radici, noi abbiamo in mente non solo il male e la sofferenza definitiva, escatologica (perché l’uomo "non muoia, ma abbia la vita eterna"), ma anche - almeno indirettamente - il male e la sofferenza nella loro dimensione temporale e storica. Il male, infatti, rimane legato al peccato e alla morte. E anche se con grande cautela si deve giudicare la sofferenza dell’uomo come conseguenza di peccati concreti (ciò indica proprio l’esempio del giusto Giobbe), tuttavia essa non può essere distaccata dal peccato delle origini, da ciò che in san Giovanni è chiamato "il peccato del mondo" (Gv 1,29), dallo sfondo peccaminoso delle azioni personali e dei processi sociali nella storia dell’uomo. Se non è lecito applicare qui il criterio ristretto della diretta dipendenza (come facevano i tre amici di Giobbe), tuttavia non si può neanche rinunciare al criterio che, alla base delle umane sofferenze, vi è un multiforme coinvolgimento nel peccato.

Similmente avviene quando si tratta della morte. Molte volte essa è persino attesa come una liberazione dalle sofferenze di questa vita. Al tempo stesso, non è possibile lasciarsi sfuggire che essa costituisce quasi una definitiva sintesi della loro opera distruttiva sia nell’organismo corporeo che nella psiche. Ma, prima di tutto, la morte comporta la dissociazione dell’intera personalità psicofisica dell’uomo. L’anima sopravvive e sussiste separata dal corpo, mentre il corpo viene sottoposto a una graduale decomposizione secondo le parole del Signore Dio, pronunciate dopo il peccato commesso dall’uomo agli inizi della sua storia terrena: "Tu sei polvere e in polvere ritornerai" (Gen 3,19). Anche se dunque la morte non è una sofferenza nel senso temporale della parola, anche se in un certo modo si trova al di là di tutte le sofferenze, contemporaneamente il male, che l’essere umano sperimenta in essa, ha un carattere definitivo e totalizzante. Con la sua opera salvifica il Figlio unigenito libera l’uomo dal peccato e dalla morte. Prima di tutto egli cancella dalla storia dell’uomo il dominio del peccato, che si è radicato sotto l’influsso dello spirito maligno, iniziando dal peccato originale, e dà poi all’uomo la possibilità di vivere nella grazia santificante. Sulla scia della vittoria sul peccato egli toglie anche il dominio della morte, dando, con la sua risurrezione, l’avvio alla futura risurrezione dei corpi. L’una e l’altra sono condizione essenziale della "vita eterna", cioè della definitiva felicità dell’uomo in unione con Dio; ciò vuol dire, per i salvati, che nella prospettiva escatologica la sofferenza è totalmente cancellata.

In conseguenza dell’opera salvifica di Cristo l’uomo esiste sulla terra con la speranza della vita e della santità eterne. E anche se la vittoria sul peccato e sulla morte, riportata da Cristo con la sua croce e risurrezione, non abolisce le sofferenze temporali dalla vita umana, né libera dalla sofferenza l’intera dimensione storica dell’esistenza umana, tuttavia su tutta questa dimensione e su ogni sofferenza essa getta una luce nuova, che è la luce della salvezza. È questa la luce del Vangelo, cioè della buona novella. Al centro di questa luce si trova la verità enunciata nel colloquio con Nicodemo: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito". Questa verità cambia dalle sue fondamenta il quadro della storia dell’uomo e della sua situazione terrena: nonostante il peccato che si è radicato in questa storia e come eredità originale e come "peccato del mondo" e come somma dei peccati personali, Dio Padre ha amato il Figlio unigenito, cioè lo ama in modo durevole; nel tempo poi, proprio per quest’amore che supera tutto, egli "dà" questo Figlio, affinché tocchi le radici stesse del male umano e così si avvicini in modo salvifico all’intero mondo della sofferenza, di cui l’uomo è partecipe.

16. Nella sua attività messianica in mezzo a Israele Cristo si è avvicinato incessantemente al mondo dell’umana sofferenza. "Passò facendo del bene" (At 10,38) e questo suo operare riguardava, prima di tutto, i sofferenti e coloro che attendevano aiuto. Egli guariva gli ammalati, consolava gli afflitti, nutriva gli affamati, liberava gli uomini dalla sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio e da diverse minorazioni fisiche, tre volte restituì ai morti la vita. Era sensibile a ogni umana sofferenza, sia a quella del corpo che a quella dell’anima. E al tempo stesso ammaestrava, ponendo al centro del suo insegnamento le otto beatitudini, che sono indirizzate agli uomini provati da svariate sofferenze nella vita temporale. Essi sono "i poveri in spirito" e "gli afflitti", e "quelli che hanno fame e sete della giustizia" e "i perseguitati per causa della giustizia", quando li insultano, li perseguitano e, mentendo, dicono ogni sorta di male contro di loro per causa di Cristo... Così secondo Matteo; Luca menziona esplicitamente coloro "che ora hanno fame".

Ad ogni modo Cristo si è avvicinato soprattutto al mondo dell’umana sofferenza per il fatto di aver assunto egli stesso questa sofferenza su di sé. Durante la sua attività pubblica provò non solo la fatica, la mancanza di una casa, l’incomprensione persino da parte dei più vicini, ma, più di ogni cosa, venne sempre più ermeticamente circondato da un cerchio di ostilità e divennero sempre più chiari i preparativi per toglierlo di mezzo dai viventi. Cristo è consapevole di ciò, e molte volte parla ai suoi discepoli delle sofferenze e della morte che lo attendono: "Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà" (Mc 10,33-34). Cristo va incontro alla sua passione e morte con tutta la consapevolezza della missione che ha da compiere proprio in questo modo. Proprio per mezzo di questa sua sofferenza egli deve far sì "che l’uomo non muoia, ma abbia la vita eterna". Proprio per mezzo della sua croce deve toccare le radici del male, piantate nella storia dell’uomo e nelle anime umane. Proprio per mezzo della sua croce deve compiere l’opera della salvezza. Quest’opera, nel disegno dell’eterno Amore, ha un carattere redentivo.

E perciò Cristo rimprovera severamente Pietro, quando vuole fargli abbandonare i pensieri sulla sofferenza e sulla morte di croce. E quando, durante la cattura nel Getsemani, lo stesso Pietro tenta di difenderlo con la spada, Cristo gli dice: "Rimetti la spada nel fodero... Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?". E inoltre dice: "Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?" (Gv 18,11). Questa risposta - come altre che ritornano in diversi punti del Vangelo - mostra quanto profondamente Cristo fosse penetrato dal pensiero che già aveva espresso nel colloquio con Nicodemo: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). Cristo s’incammina verso la propria sofferenza, consapevole della sua forza salvifica, va obbediente al Padre, ma prima di tutto è unito al Padre in quest’amore, col quale egli ha amato il mondo e l’uomo nel mondo. E per questo san Paolo scriverà di Cristo: "Mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20).

17. Le Scritture dovevano adempiersi. Erano molti i testi messianici dell’Antico Testamento che preludevano alle sofferenze del futuro Unto di Dio. Tra tutti particolarmente toccante è quello che di solito è chiamato il quarto carme del Servo di Jahve, contenuto nel libro di Isaia. Il profeta, che giustamente viene chiamato "il quinto evangelista", presenta in questo carme l’immagine delle sofferenze del Servo con un realismo così acuto quasi le vedesse con i propri occhi: con gli occhi del corpo e dello spirito. La passione di Cristo diventa, alla luce dei versetti di Isaia, quasi ancora più espressiva e toccante che non nelle descrizioni degli stessi evangelisti. Ecco, si presenta davanti a noi il vero uomo dei dolori: "Non ha apparenza né bellezza / per attirare i nostri sguardi... / Disprezzato e reietto dagli uomini, / uomo dei dolori che ben conosce il patire, / come uno davanti al quale ci si copre la faccia, / era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. / Eppure, egli si è caricato delle nostre sofferenze, / si è addossato i nostri dolori, / e noi lo giudicavamo castigato, / percosso da Dio e umiliato. / Egli è stato trafitto per i nostri delitti, / schiacciato per le nostre iniquità. / Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; / per le sue piaghe noi siamo stati guariti. / Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, / ognuno di noi seguiva la sua strada; / il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti" (Is 53,2-6).

Il carme del Servo sofferente contiene una descrizione nella quale si possono, in un certo senso, identificare i momenti della passione di Cristo in vari loro particolari: l’arresto, l’umiliazione, gli schiaffi, gli sputi, il vilipendio della dignità stessa del prigioniero, l’ingiusto giudizio, e poi la flagellazione, la coronazione di spine e lo scherno, il cammino con la croce, la crocifissione, l’agonia.

Più ancora di questa descrizione della passione ci colpisce nelle parole del profeta la profondità del sacrificio di Cristo. Ecco, egli, benché innocente, si addossa le sofferenze di tutti gli uomini, perché si addossa i peccati di tutti. "Il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di tutti": tutto il peccato dell’uomo nella sua estensione e profondità diventa la vera causa della sofferenza del Redentore. Se la sofferenza "viene misurata" col male sofferto, allora le parole del profeta ci permettono di comprendere la misura di questo male e di questa sofferenza, di cui Cristo si è caricato. Si può dire che questa è sofferenza "sostitutiva"; soprattutto, però, essa è "redentiva". L’uomo dei dolori di quella profezia è veramente quell’"agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo" (Gv 1,29). Nella sua sofferenza i peccati vengono cancellati proprio perché egli solo come Figlio unigenito poté prenderli su di sé, assumerli con quell’amore verso il Padre che supera il male di ogni peccato; in un certo senso annienta questo male nello spazio spirituale dei rapporti tra Dio e l’umanità, e riempie questo spazio col bene.

Tocchiamo qui la dualità di natura di un unico soggetto personale della sofferenza redentiva. Colui, che con la sua passione e morte sulla croce opera la redenzione, è il Figlio unigenito che Dio "ha dato". E nello stesso tempo questo Figlio consostanziale al Padre soffre come uomo. La sua sofferenza ha dimensioni umane, ha anche - uniche nella storia dell’umanità - una profondità e intensità che, pur essendo umane, possono essere anche incomparabili profondità e intensità di sofferenza, in quanto l’uomo che soffre è in persona lo stesso Figlio unigenito: "Dio da Dio". Dunque, soltanto lui - il Figlio unigenito - è capace di abbracciare la misura del male contenuta nel peccato dell’uomo: in ogni peccato e nel peccato "totale", secondo le dimensioni dell’esistenza storica dell’umanità sulla terra.

18. Si può dire che le suddette considerazioni ci conducono ormai direttamente al Getsemani e sul Golgota, dove si è adempiuto il carme del Servo sofferente, contenuto nel libro d’Isaia. Ancora prima di andarvi, leggiamo i successivi versetti del carme, che danno un’anticipazione profetica della passione del Getsemani e del Golgota. Il Servo sofferente - e questo a sua volta è essenziale per un’analisi della passione di Cristo - si addossa quelle sofferenze, di cui si è detto, in modo del tutto volontario: / "Maltrattato, si lasciò umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al macello, / come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, / e non aprì la sua bocca. / Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; / chi si affligge per la sua sorte? / Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, / per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte. / Gli si diede la sepoltura con gli empi, / con il ricco fu il suo tumulo, / sebbene non avesse commesso violenza, / né vi fosse inganno nella sua bocca" (Is 53,7-9).

Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente. Accoglie con la sua sofferenza quell’interrogativo, che - posto molte volte dagli uomini - è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal libro di Giobbe. Cristo, tuttavia, non solo porta con sé la stessa domanda (e ciò in modo ancor più radicale, poiché egli non è solo un uomo come Giobbe, ma è l’unigenito Figlio di Dio), ma porta anche il massimo della possibile risposta a questo interrogativo. La risposta emerge, si può dire, dalla stessa materia, di cui è costituita la domanda. Cristo dà la risposta all’interrogativo sulla sofferenza e sul senso della sofferenza non soltanto col suo insegnamento, cioè con la buona novella, ma prima di tutto con la propria sofferenza, che con un tale insegnamento della buona novella è integrata in modo organico e indissolubile. E questa è l’ultima, sintetica parola di questo insegnamento: "la parola della croce", come dirà un giorno san Paolo.

Questa "parola della croce" riempie di una realtà definitiva l’immagine dell’antica profezia. Molti luoghi, molti discorsi durante l’insegnamento pubblico di Cristo testimoniano come egli accetti sin dall’inizio questa sofferenza, che è la volontà del Padre per la salvezza del mondo. Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la preghiera nel Getsemani. Le parole: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!" (Mt 26,39), e in seguito: "Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà" (Mt 26,42), hanno una multiforme eloquenza. Esse provano la verità di quell’amore, che il Figlio unigenito dà al Padre nella sua obbedienza. Al tempo stesso, attestano la verità della sua sofferenza. Le parole della preghiera di Cristo al Getsemani provano la verità dell’amore mediante la verità della sofferenza. Le parole di Cristo confermano con tutta semplicità questa umana verità della sofferenza, fino in fondo: la sofferenza è un subire il male, davanti al quale l’uomo rabbrividisce. Egli dice: "passi da me", proprio così, come dice Cristo nel Getsemani.

Le sue parole attestano insieme quest’unica e incomparabile profondità e intensità della sofferenza che poté sperimentare solamente l’Uomo che è il Figlio unigenito. Esse attestano quella profondità e intensità, che le parole profetiche sopra riportate aiutano, a loro modo, a capire: non certo fino in fondo (per questo si dovrebbe penetrare il mistero divino-umano del Soggetto), ma almeno a percepire quella differenza (e somiglianza insieme) che si verifica tra ogni possibile sofferenza dell’uomo e quella del Dio-Uomo. Il Getsemani è il luogo, nel quale appunto questa sofferenza, in tutta la verità, espressa dal profeta, si è rivelata quasi definitivamente davanti agli occhi dell’anima di Cristo.

Dopo le parole nel Getsemani vengono le parole pronunciate sul Golgota, che testimoniano questa profondità - unica nella storia del mondo - del male della sofferenza che si prova. Quando Cristo dice: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" le sue parole non sono solo espressione di quell’abbandono che più volte si faceva sentire nell’Antico Testamento, specialmente nei salmi e, in particolare, in quel salmo 21(22), dal quale provengono le parole citate. Si può dire che queste parole sull’abbandono nascono sul piano dell’inseparabile unione del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre "fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti" (Is 53,6) e sulla traccia di ciò che dirà san Paolo: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (2Cor 5,21). Insieme con questo orribile peso, misurando "l’intero" male di voltare le spalle a Dio, contenuto nel peccato, Cristo, mediante la divina profondità dell’unione filiale col Padre, percepisce in modo umanamente inesprimibile questa sofferenza che è il distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con Dio. Ma proprio mediante tale sofferenza egli compie la redenzione, e può dire spirando: "Tutto è compiuto" (Gv 19,30).

Si può anche dire che si è adempiuta la Scrittura, che sono state definitivamente attuate nella realtà le parole di detto carme del Servo sofferente: "Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori" (Is 53,10). L’umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all’amore, a quell’amore del quale Cristo parlava a Nicodemo, a quell’amore che crea il bene ricavandolo anche dal male, ricavandolo per mezzo della sofferenza, così come il bene supremo della redenzione del mondo è stato tratto dalla croce di Cristo, e costantemente prende da essa il suo avvio. La croce di Cristo è diventata una sorgente, dalla quale sgorgano fiumi d’acqua viva. In essa dobbiamo anche riproporre l’interrogativo sul senso della sofferenza, e leggervi sino alla fine la risposta a questo interrogativo.

 

V. PARTECIPI ALLE SOFFERENZE DI CRISTO

19. Il medesimo carme del Servo sofferente nel libro di Isaia ci conduce, attraverso i versetti successivi, proprio nella direzione di questo interrogativo e di questa risposta: "Quando offrirà se stesso in espiazione, / vedrà una discendenza, vivrà a lungo, / si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. / Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce / e si sazierà della sua conoscenza, / il giusto mio servo giustificherà molti, / egli si addosserà la loro iniquità. / Perciò io gli darò in premio le moltitudini, / dei potenti egli farà bottino, / perché ha consegnato se stesso alla morte / ed è stato annoverato fra gli empi / mentre egli portava il peccato di molti / e intercedeva per i peccatori" (Is 53,10-12).

Si può dire che insieme con la passione di Cristo ogni sofferenza umana si è trovata in una nuova situazione. Ed è come se Giobbe l’avesse presentita, quando diceva: "Io so infatti che il mio Redentore vive..." (Gb 19,25), e come se avesse indirizzato verso di essa la propria sofferenza, la quale senza la redenzione non avrebbe potuto rivelargli la pienezza del suo significato. Nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. Cristo - senza nessuna colpa propria - si è addossato "il male totale del peccato". L’esperienza di questo male determinò l’incomparabile misura della sofferenza di Cristo, che diventò il prezzo della redenzione. Di questo parla il carme del Servo sofferente di Isaia. A loro tempo, di questo parleranno i testimoni della nuova alleanza, stipulata nel sangue di Cristo. Ecco le parole dell’apostolo Pietro dalla sua prima lettera: "Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma col sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia" (1Pt 1,18-19). E l’apostolo Paolo nella lettera ai Galati dirà: "Ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso" (Gal 1,4), e nella prima lettera ai Corinzi: "Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!" (1Cor 6,20).

Con queste e altre simili parole i testimoni della nuova alleanza parlano della grandezza della redenzione, che si è compiuta mediante la sofferenza di Cristo. Il Redentore ha sofferto al posto dell’uomo e per l’uomo. Ogni uomo ha una sua partecipazione alla redenzione. Ognuno è anche chiamato a partecipare a quella sofferenza, mediante la quale si è compiuta la redenzione. È chiamato a partecipare a quella sofferenza, per mezzo della quale ogni umana sofferenza è stata anche redenta. Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo.

20. I testi del Nuovo Testamento esprimono in molti punti questo concetto. Nella seconda lettera ai Corinzi l’Apostolo scrive: "Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dappertutto nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre, infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale... convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù" (2Cor 4,8-11.14).

San Paolo parla delle diverse sofferenze e, in particolare, di quelle di cui diventavano partecipi i primi cristiani "a causa di Gesù". Queste sofferenze permettono ai destinatari di quella lettera di partecipare all’opera della redenzione, compiuta mediante le sofferenze e la morte del Redentore. L’eloquenza della croce e della morte viene tuttavia completata con l’eloquenza della risurrezione. L’uomo trova nella risurrezione una luce completamente nuova, che lo aiuta a farsi strada attraverso il fitto buio delle umiliazioni, dei dubbi, della disperazione e della persecuzione. Perciò, l’Apostolo scriverà anche nella seconda lettera ai Corinzi: "Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione" (2Cor 1,5). Altrove egli si rivolge ai suoi destinatari con parole d’incoraggiamento: "Il Signore diriga i vostri cuori nell’amore di Dio e nella pazienza di Cristo" (2Ts 3,5). E nella lettera ai Romani scrive: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale" (Rm 12,1).

La partecipazione stessa alla sofferenza di Cristo trova, in queste espressioni apostoliche, quasi una duplice dimensione. Se un uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo, ciò avviene perché Cristo ha aperto la sua sofferenza all’uomo, perché egli stesso nella sua sofferenza redentiva è divenuto, in un certo senso, partecipe di tutte le sofferenze umane. L’uomo, scoprendo mediante la fede la sofferenza redentrice di Cristo, insieme scopre in essa le proprie sofferenze, le ritrova, mediante la fede, arricchite di un nuovo contenuto e di un nuovo significato.

Questa scoperta dettò a san Paolo parole particolarmente forti nella lettera ai Galati: "Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita, che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,19-20). La fede permette all’autore di queste parole di conoscere quell’amore, che condusse Cristo sulla croce. E se amò così, soffrendo e morendo, allora con questa sua sofferenza e morte egli vive in colui che amò così, egli vive nell’uomo: in Paolo. E vivendo in lui - man mano che Paolo, consapevole di ciò mediante la fede, risponde con l’amore al suo amore - Cristo diventa anche in modo particolare unito all’uomo, a Paolo, mediante la croce. Quest’unione ha dettato a Paolo, nella stessa lettera ai Galati, ancora altre parole, non meno forti: "Quanto a me invece, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso come io per il mondo" (Gal 6,14).

21. La croce di Cristo getta in modo tanto penetrante la luce salvifica sulla vita dell’uomo e, in particolare, sulla sua sofferenza, perché mediante la fede lo raggiunge insieme con la risurrezione: il mistero della passione è racchiuso nel mistero pasquale. I testimoni della passione di Cristo sono contemporaneamente testimoni della sua risurrezione. Scrive Paolo: "Perché io possa conoscere lui , la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti" (Fil 3,10-11). Veramente, l’Apostolo prima sperimentò "la potenza della risurrezione" di Cristo sulla via di Damasco, e solo in seguito, in questa luce pasquale, giunse a quella "partecipazione alle sue sofferenze", della quale parla, ad esempio, nella lettera ai Galati. La via di Paolo è chiaramente pasquale: la partecipazione alla croce di Cristo avviene attraverso l’esperienza del Risorto, dunque mediante una speciale partecipazione alla risurrezione. Perciò, anche nelle espressioni dell’Apostolo sul tema della sofferenza appare così spesso il motivo della gloria, alla quale la croce di Cristo dà inizio.

I testimoni della croce e della risurrezione erano convinti che "è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio" (At 14,22). E Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, dice così: "Possiamo gloriarci di voi... per la vostra fermezza e per la vostra fede in tutte le persecuzioni e tribolazioni che sopportate. Questo è un segno del giusto giudizio di Dio, che vi proclamerà degni di quel regno di Dio, per il quale ora soffrite" (2Ts 1,4-5). Così dunque la partecipazione alle sofferenze di Cristo è, al tempo stesso, sofferenza per il regno di Dio. Agli occhi del Dio giusto, di fronte al suo giudizio, quanti partecipano alle sofferenze di Cristo diventano degni di questo regno. Mediante le loro sofferenze essi, in un certo senso, restituiscono l’infinito prezzo della passione e della morte di Cristo, che divenne il prezzo della nostra redenzione: a questo prezzo il regno di Dio è stato nuovamente consolidato nella storia dell’uomo, divenendo la prospettiva definitiva della sua esistenza terrena. Cristo ci ha introdotti in questo regno mediante la sua sofferenza. E anche mediante la sofferenza maturano per esso gli uomini avvolti dal mistero della redenzione di Cristo.

22. Alla prospettiva del regno di Dio è unita la speranza di quella gloria, il cui inizio si trova nella croce di Cristo. La risurrezione ha rivelato questa gloria - la gloria escatologica - che nella croce di Cristo era completamente offuscata dall’immensità della sofferenza. Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo sono anche chiamati, mediante le loro proprie sofferenze, a prender parte alla gloria. Paolo esprime questo in diversi punti. Scrive ai Romani: "Siamo... coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura, che dovrà essere rivelata in noi". Nella seconda lettera ai Corinzi leggiamo: "Infatti, il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili" (2Cor 4,17-18). L’apostolo Pietro esprimerà questa verità nelle seguenti parole della sua prima lettera: "Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare" (1Pt 4,13).

Il motivo della sofferenza e della gloria ha la sua caratteristica strettamente evangelica, che si chiarisce mediante il riferimento alla croce e alla risurrezione. La risurrezione è diventata prima di tutto la manifestazione della gloria, che corrisponde all’elevazione di Cristo per mezzo della croce. Se, infatti, la croce è stata agli occhi degli uomini lo spogliamento di Cristo, nello stesso tempo essa è stata agli occhi di Dio la sua elevazione. Sulla croce Cristo ha raggiunto e realizzato in tutta pienezza la sua missione: compiendo la volontà del Padre, realizzò insieme se stesso. Nella debolezza manifestò la sua potenza, e nell’umiliazione tutta la sua grandezza messianica. Non sono forse una prova di questa grandezza tutte le parole pronunciate durante l’agonia sul Golgota e, specialmente, quelle riguardanti gli autori della crocifissione: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno"? (Lc 23,34) A coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo queste parole si impongono con la forza di un supremo esempio. La sofferenza è anche una chiamata a manifestare la grandezza morale dell’uomo, la sua maturità spirituale. Di ciò hanno dato la prova, nelle diverse generazioni, i martiri e i confessori di Cristo, fedeli alle parole: "E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima" (Mt 10,28).

La risurrezione di Cristo ha rivelato "la gloria del secolo futuro" e, contemporaneamente, ha confermato "il vanto della croce": quella gloria che è contenuta nella sofferenza stessa di Cristo, e quale molte volte si è rispecchiata e si rispecchia nella sofferenza dell’uomo, come espressione della sua spirituale grandezza. Bisogna dare testimonianza di questa gloria non solo ai martiri della fede, ma anche a numerosi altri uomini, che a volte, pur senza la fede in Cristo, soffrono e danno la vita per la verità e per una giusta causa. Nelle sofferenze di tutti costoro viene confermata in modo particolare la grande dignità dell’uomo.

23. La sofferenza, infatti, è sempre una prova - a volte una prova alquanto dura -, alla quale viene sottoposta l’umanità. Dalle pagine delle lettere di san Paolo più volte parla a noi quel paradosso evangelico della debolezza e della forza, sperimentato in modo particolare dall’Apostolo stesso e che insieme con lui provano tutti coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo. Egli scrive nella seconda lettera ai Corinzi: "Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo" (2Cor 12,9). Nella seconda lettera a Timoteo leggiamo: "È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto" (2Tm 1,12). E nella lettera ai Filippesi dirà addirittura: "Tutto posso in colui che mi dà la forza" (Fil 4,13).

Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo hanno davanti agli occhi il mistero pasquale della croce e della risurrezione, nel quale Cristo discende, in una prima fase, sino agli ultimi confini della debolezza e dell’impotenza umana: egli, infatti, muore inchiodato sulla croce. Ma se al tempo stesso in questa debolezza si compie la sua elevazione, confermata con la forza della risurrezione, ciò significa che le debolezze di tutte le sofferenze umane possono essere permeate dalla stessa potenza di Dio, quale si è manifestata nella croce di Cristo. In questa concezione soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all’umanità in Cristo. In lui Dio ha confermato di voler agire specialmente per mezzo della sofferenza, che è la debolezza e lo spogliamento dell’uomo, e di voler proprio in questa debolezza e in questo spogliamento manifestare la sua potenza. Con ciò si può anche spiegare la raccomandazione della prima lettera di Pietro: "Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome" (1Pt 4,16).

Nella lettera ai Romani l’apostolo Paolo si pronuncia ancora più ampiamente sul tema di questo "nascere della forza nella debolezza", di questo ritemprarsi spirituale dell’uomo in mezzo alle prove e alle tribolazioni, che è la speciale vocazione di coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo: "Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato" (Rm 5,3-5). Nella sofferenza è come contenuta una particolare chiamata alla virtù, che l’uomo deve esercitare da parte sua. E questa è la virtù della perseveranza nel sopportare ciò che disturba e fa male. L’uomo, così facendo, sprigiona la speranza, che mantiene in lui la convinzione che la sofferenza non prevarrà sopra di lui, non lo priverà della dignità propria dell’uomo unita alla consapevolezza del senso della vita. Ed ecco, questo senso si manifesta insieme con l’opera dell’amore di Dio, che è il dono supremo dello Spirito Santo. Man mano che partecipa a questo amore, l’uomo si ritrova fino in fondo nella sofferenza: ritrova "l’anima", che gli sembrava di aver "perduto" a causa della sofferenza.

24. Tuttavia le esperienze dell’Apostolo, partecipe delle sofferenze di Cristo, vanno ancora oltre. Nella lettera ai Colossesi leggiamo le parole, che costituiscono quasi l’ultima tappa dell’itinerario spirituale in relazione alla sofferenza. San Paolo scrive: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa" (Col 1,24). Ed egli in un’altra lettera interroga i suoi destinatari: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?" (1Cor 6,15).

Nel mistero pasquale Cristo ha dato inizio all’unione con l’uomo nella comunità della Chiesa. Il mistero della Chiesa si esprime in questo: che già all’atto del battesimo, che configura a Cristo, e poi mediante il suo sacrificio - sacramentalmente mediante l’eucaristia - la Chiesa di continuo si edifica spiritualmente come corpo di Cristo. In questo corpo Cristo vuole essere unito con tutti gli uomini, e in modo particolare egli è unito con coloro che soffrono. Le citate parole della lettera ai Colossesi attestano l’eccezionale carattere di questa unione. Ecco, infatti, colui che soffre in unione con Cristo - come in unione con Cristo sopporta le sue "tribolazioni" l’apostolo Paolo - non solo attinge da Cristo quella forza, della quale si è parlato precedentemente, ma anche "completa" con la sua sofferenza "quello che manca ai patimenti di Cristo". In questo quadro evangelico è messa in risalto, in modo particolare, la verità sul carattere creativo della sofferenza. La sofferenza di Cristo ha creato il bene della redenzione del mondo. Questo bene in se stesso è inesauribile e infinito. Nessun uomo può aggiungervi qualcosa. Allo stesso tempo, però, nel mistero della Chiesa come suo corpo, Cristo in un certo senso ha aperto la propria sofferenza redentiva ad ogni sofferenza dell’uomo. In quanto l’uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo - in qualsiasi luogo del mondo e tempo della storia -, in tanto egli completa a suo modo quella sofferenza, mediante la quale Cristo ha operato la redenzione del mondo.

Questo vuol dire, forse, che la redenzione compiuta da Cristo non è completa? No. Questo significa solo che la redenzione, operata in forza dell’amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell’umana sofferenza. In questa dimensione - nella dimensione dell’amore - la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costantemente. Cristo ha operato la redenzione completamente e sino alla fine; al tempo stesso, però, non l’ha chiusa: in questa sofferenza redentiva, mediante la quale si è operata la redenzione del mondo, Cristo si è aperto sin dall’inizio, e costantemente si apre, ad ogni umana sofferenza. Sì, sembra far parte dell’essenza stessa della sofferenza redentiva di Cristo il fatto che essa richieda di essere incessantemente completata.

In questo modo, con una tale apertura ad ogni umana sofferenza, Cristo ha operato con la propria sofferenza la redenzione del mondo. Infatti, al tempo stesso, questa redenzione, anche se compiuta in tutta la pienezza con la sofferenza di Cristo, vive e si sviluppa a suo modo nella storia dell’uomo. Vive e si sviluppa come corpo di Cristo, che è la Chiesa, e in questa dimensione ogni umana sofferenza, in forza dell’unione nell’amore con Cristo, completa la sofferenza di Cristo. La completa così come la Chiesa completa l’opera redentrice di Cristo. Il mistero della Chiesa - di quel corpo che completa in sé anche il corpo crocifisso e risorto di Cristo - indica contemporaneamente quello spazio, nel quale le sofferenze umane completano le sofferenze di Cristo. Solo in questo raggio e in questa dimensione della Chiesa-corpo di Cristo, che continuamente si sviluppa nello spazio e nel tempo, si può pensare e parlare di "ciò che manca" ai patimenti di Cristo. L’Apostolo, del resto, lo mette chiaramente in rilievo, quando scrive del completamento di "quello che manca ai patimenti di Cristo in favore del suo corpo, che è la Chiesa".

Proprio la Chiesa, che attinge incessantemente alle infinite risorse della redenzione, introducendola nella vita dell’umanità, è la dimensione nella quale la sofferenza redentrice di Cristo può essere costantemente completata dalla sofferenza dell’uomo. In ciò vien messa in risalto anche la natura divino-umana della Chiesa. La sofferenza sembra partecipare in un qualche modo alle caratteristiche di questa natura. E perciò essa ha pure un valore speciale davanti alla Chiesa. Essa è un bene, dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione, in tutta la profondità della sua fede nella redenzione. Si inchina, insieme, in tutta la profondità di quella fede, con la quale essa abbraccia in se stessa l’inesprimibile mistero del corpo di Cristo.

 

VI. IL VANGELO DELLA SOFFERENZA

25. I testimoni della croce e della risurrezione di Cristo hanno trasmesso alla Chiesa e all’umanità uno specifico Vangelo della sofferenza. Il Redentore stesso ha scritto questo Vangelo dapprima con la propria sofferenza assunta per amore, affinché l’uomo "non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). Questa sofferenza, insieme con la viva parola del suo insegnamento, è diventata una fonte abbondante per tutti coloro che hanno preso parte alle sofferenze di Gesù nella prima generazione dei suoi discepoli e confessori, e poi in quelle che si sono succedute nel corso dei secoli.

È innanzitutto consolante - come è evangelicamente e storicamente esatto - notare che a fianco di Cristo, in primissima e ben rilevata posizione accanto a lui, c’è sempre la sua Madre santissima, per la testimonianza esemplare che con l’intera sua vita rende a questo particolare Vangelo della sofferenza. In lei le numerose e intense sofferenze si assommarono in una tale connessione e concatenazione, che se furono prova della sua fede incrollabile, furono altresì un contributo alla redenzione di tutti. In realtà, fin dall’arcano colloquio avuto con l’angelo, ella intravide nella sua missione di madre la "destinazione" a condividere in maniera unica e irripetibile la missione stessa del Figlio. E la conferma in proposito le venne assai presto sia dagli eventi che accompagnarono la nascita di Gesù a Betlemme, sia dall’annuncio formale del vecchio Simeone che parlò di una spada tanto acuta da trapassare l’anima, sia dalle ansie e ristrettezze della fuga precipitosa in Egitto, provocata dalla crudele decisione di Erode.

E ancora, dopo le vicende della vita nascosta e pubblica del suo Figlio, da lei indubbiamente condivise con acuta sensibilità, fu sul Calvario che la sofferenza di Maria santissima, accanto a quella di Gesù, raggiunse un vertice già difficilmente immaginabile nella sua altezza dal punto di vista umano, ma certo misterioso e soprannaturalmente fecondo ai fini dell’universale salvezza. Quel suo ascendere al Calvario, quel suo "stare" ai piedi della croce insieme col discepolo prediletto furono una partecipazione del tutto speciale alla morte redentrice del Figlio, come del resto le parole, che poté raccogliere dal suo labbro, furono quasi la solenne consegna di questo tipico Vangelo da annunciare all’intera comunità dei credenti.

Testimone della passione del Figlio con la sua presenza, e di essa partecipe con la sua compassione, Maria santissima offrì un singolare apporto al Vangelo della sofferenza, avverando in anticipo l’espressione paolina riportata all’inizio. In effetti, ella ha titoli specialissimi per poter asserire di "completare nella sua carne - come già nel suo cuore - quello che manca ai patimenti di Cristo".

Nella luce dell’inarrivabile esempio di Cristo, riflesso con singolare evidenza nella vita della Madre sua, il Vangelo della sofferenza, mediante l’esperienza e la parola degli apostoli, diventa fonte inesauribile per le generazioni sempre nuove che si avvicendano nella storia della Chiesa. Il Vangelo della sofferenza significa non solo la presenza della sofferenza nel Vangelo, come uno dei temi della buona novella, ma la rivelazione, altresì, della forza salvifica e del significato salvifico della sofferenza nella missione messianica di Cristo e, in seguito, nella missione e nella vocazione della Chiesa.

Cristo non nascondeva ai propri ascoltatori la necessità della sofferenza. Molto chiaramente diceva: "Se qualcuno vuol venire dietro a me... prenda la sua croce ogni giorno", e ai suoi discepoli poneva esigenze di natura morale, la cui realizzazione è possibile solo a condizione di "rinnegare se stessi" (Lc 9,23). La via che porta al regno dei cieli è "stretta e angusta", e Cristo la contrappone alla via "larga e spaziosa", che peraltro "conduce alla perdizione". Diverse volte Cristo diceva anche che i suoi discepoli e confessori avrebbero incontrato molteplici persecuzioni, ciò che - come si sa - è avvenuto non solo nei primi secoli della vita della Chiesa sotto l’impero romano, ma si è avverato e si avvera in diversi periodi della storia e in differenti luoghi della terra, anche ai nostri tempi.

Ecco alcune frasi di Cristo su questo tema: "Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome. Questo vi darà occasione di rendere testimonianza. Mettetevi bene in mente di non preparare prima la vostra difesa: io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti per causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime" (Lc 21,12-19).

Il Vangelo della sofferenza parla prima in diversi punti della sofferenza "per Cristo", "a causa di Cristo", e ciò fa con le parole stesse di Gesù oppure con le parole dei suoi apostoli. Il Maestro non nasconde ai suoi discepoli e seguaci la prospettiva di una tale sofferenza, anzi la rivela con tutta franchezza, indicando contemporaneamente le forze soprannaturali, che li accompagneranno in mezzo alle persecuzioni e tribolazioni "per il suo nome". Queste saranno insieme quasi una speciale verifica della somiglianza a Cristo e dell’unione con lui. "Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me...; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia... Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi... Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato... Vi ho dette queste cose, perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo!" (Gv 16,21-33).

Questo primo capitolo del Vangelo della sofferenza, che parla delle persecuzioni, cioè delle tribolazioni a motivo di Cristo, contiene in sé una speciale chiamata al coraggio e alla fortezza, sostenuta dall’eloquenza della risurrezione. Cristo ha vinto il mondo definitivamente con la sua risurrezione; tuttavia, grazie al rapporto di essa con la passione e la morte, ha vinto al tempo stesso questo mondo con la sua sofferenza. Sì, la sofferenza è stata in modo singolare inserita in quella vittoria sul mondo, che si è manifestata nella risurrezione. Cristo conserva nel suo corpo risorto i segni delle ferite della croce sulle sue mani, sui piedi e nel costato. Mediante la risurrezione egli manifesta la forza vittoriosa della sofferenza, e vuole infondere la convinzione di questa forza nel cuore di coloro che ha scelto come suoi apostoli e di coloro che continuamente sceglie e invia. L’apostolo Paolo dirà: "Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati".

26. Se il primo grande capitolo del Vangelo della sofferenza viene scritto, lungo le generazioni, da coloro che soffrono persecuzioni per Cristo, di pari passo si svolge lungo la storia un altro grande capitolo di questo Vangelo. Lo scrivono tutti coloro che soffrono insieme con Cristo, unendo le proprie sofferenze umane alla sua sofferenza salvifica. In essi si compie ciò che i primi testimoni della passione e della risurrezione hanno detto e hanno scritto circa la partecipazione alle sofferenze di Cristo. In essi quindi si compie il Vangelo della sofferenza e, al tempo stesso, ognuno di essi continua in un certo modo a scriverlo: lo scrive e lo proclama al mondo, lo annuncia al proprio ambiente e agli uomini contemporanei.

Attraverso i secoli e le generazioni è stato constatato che nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo, una particolare grazia. Ad essa debbono la loro profonda conversione molti santi, come ad esempio san Francesco d’Assisi, sant’Ignazio di Loyola, ecc. Frutto di una tale conversione non è solo il fatto che l’uomo scopre il senso salvifico della sofferenza, ma soprattutto che nella sofferenza diventa un uomo completamente nuovo. Egli trova quasi una nuova misura di tutta la propria vita e della propria vocazione. Questa scoperta è una particolare conferma della grandezza spirituale che nell’uomo supera il corpo in modo del tutto incomparabile. Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l’uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l’interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e normali.

Questa interiore maturità e grandezza spirituale nella sofferenza certamente sono frutto di una particolare conversione e cooperazione con la grazia del Redentore crocifisso. È lui stesso ad agire nel vivo delle umane sofferenze per mezzo del suo Spirito di verità, per mezzo dello Spirito consolatore. È lui a trasformare, in un certo senso, la sostanza stessa della vita spirituale, indicando all’uomo sofferente un posto vicino a sé. È lui - come maestro e guida interiore - a insegnare al fratello e alla sorella sofferenti questo mirabile scambio, posto nel cuore stesso del mistero della redenzione. La sofferenza è, in se stessa, un provocare il male. Ma Cristo ne ha fatto la più solida base del bene definitivo, cioè del bene della salvezza eterna. Con la sua sofferenza sulla croce Cristo ha raggiunto le radici stesse del male, del peccato e della morte. Egli ha vinto l’artefice del male, che è Satana, e la sua permanente ribellione contro il Creatore. Davanti al fratello o alla sorella sofferenti Cristo dischiude e dispiega gradualmente gli orizzonti del regno di Dio: di un mondo convertito al Creatore, di un mondo liberato dal peccato, che si sta edificando sulla potenza salvifica dell’amore. E, lentamente ma efficacemente, Cristo introduce in questo mondo, in questo regno del Padre, l’uomo sofferente, in un certo senso attraverso il cuore stesso della sua sofferenza. La sofferenza, infatti, non può essere trasformata e mutata con una grazia dall’esterno, ma dall’interno. E Cristo mediante la sua propria sofferenza salvifica si trova quanto mai dentro ad ogni sofferenza umana, e può agire dall’interno di essa con la potenza del suo Spirito di verità, del suo Spirito consolatore.

Non basta: il divin Redentore vuole penetrare nell’animo di ogni sofferente attraverso il cuore della sua Madre santissima, primizia e vertice di tutti i redenti. Quasi a continuazione di quella maternità, che per opera dello Spirito Santo gli aveva dato la vita, Cristo morente conferì alla sempre vergine Maria una maternità nuova - spirituale e universale - verso tutti gli uomini, affinché ognuno, nella peregrinazione della fede, gli rimanesse insieme con lei strettamente unito fino alla croce e, con la forza di questa croce, ogni sofferenza rigenerata diventasse, da debolezza dell’uomo, potenza di Dio.

Non sempre, però, un tale processo interiore si svolge in modo uguale. Spesso inizia e si instaura con difficoltà. Già il punto stesso di partenza è diverso: diversa è la disposizione, che l’uomo porta nella sua sofferenza. Si può, tuttavia, premettere che quasi sempre ciascuno entra nella sofferenza con una protesta tipicamente umana e con la domanda del suo "perché". Ciascuno si chiede il senso della sofferenza e cerca una risposta a questa domanda al suo livello umano. Certamente pone più volte questa domanda anche a Dio, come la pone a Cristo. Inoltre, egli non può non notare che colui, al quale pone la sua domanda, soffre lui stesso e vuole rispondergli dalla croce, dal centro della sua propria sofferenza. Tuttavia, a volte c’è bisogno di tempo, persino di un lungo tempo, perché questa risposta cominci ad essere internamente percepibile. Cristo, infatti, non risponde direttamente e non risponde in astratto a questo interrogativo umano circa il senso della sofferenza. L’uomo ode la sua risposta salvifica man mano che egli stesso diventa partecipe delle sofferenze di Cristo.

La risposta che giunge mediante tale partecipazione, lungo la strada dell’incontro interiore col Maestro, è a sua volta qualcosa di più della sola risposta astratta all’interrogativo sul senso della sofferenza. Questa è, infatti, soprattutto una chiamata. È una vocazione. Cristo non spiega in astratto le ragioni della sofferenza, ma prima di tutto dice: "Seguimi!". Vieni! Prendi parte con la tua sofferenza a quest’opera di salvezza del mondo, che si compie per mezzo della mia sofferenza! Per mezzo della mia croce. Man mano che l’uomo prende la sua croce, unendosi spiritualmente alla croce di Cristo, si rivela davanti a lui il senso salvifico della sofferenza. L’uomo non scopre questo senso al suo livello umano, ma al livello della sofferenza di Cristo. Al tempo stesso, però, da questo livello di Cristo, quel senso salvifico della sofferenza scende a livello dell’uomo e diventa, in qualche modo, la sua risposta personale. E allora l’uomo trova nella sua sofferenza la pace interiore e perfino la gioia spirituale.

27. Di tale gioia parla l’Apostolo nella lettera ai Colossesi: "Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi" (Col 1,24). Fonte di gioia diventa il superamento del senso d’inutilità della sofferenza, sensazione che a volte è radicata molto fortemente nell’umana sofferenza. Questa non solo consuma l’uomo dentro se stesso, ma sembra renderlo un peso per gli altri. L’uomo si sente condannato a ricevere aiuto e assistenza dagli altri e, in pari tempo, sembra a se stesso inutile. La scoperta del senso salvifico della sofferenza in unione con Cristo trasforma questa sensazione deprimente. La fede nella partecipazione alle sofferenze di Cristo porta in sé la certezza interiore che l’uomo sofferente "completa quello che manca ai patimenti di Cristo"; che nella dimensione spirituale dell’opera della redenzione serve, come Cristo, alla salvezza dei suoi fratelli e sorelle. Non solo quindi è utile agli altri, ma per di più adempie un servizio insostituibile. Nel corpo di Cristo, che incessantemente cresce dalla croce del Redentore, proprio la sofferenza, permeata dallo spirito del sacrificio di Cristo, è l’insostituibile mediatrice e autrice dei beni, indispensabili per la salvezza del mondo. È essa, più di ogni altra cosa, a fare strada alla grazia che trasforma le anime umane. Essa, più di ogni altra cosa, rende presenti nella storia dell’umanità le forze della redenzione. In quella lotta "cosmica" tra le forze spirituali del bene e del male della quale parla la lettera agli Efesini, le sofferenze umane, unite alla sofferenza redentrice di Cristo, costituiscono un particolare sostegno per le forze del bene, aprendo la strada alla vittoria di queste forze salvifiche.

E perciò la Chiesa vede in tutti i fratelli e sorelle di Cristo sofferenti quasi un soggetto molteplice della sua forza soprannaturale. Quanto spesso proprio ad essi ricorrono i pastori della Chiesa, e proprio presso di essi cercano aiuto e appoggio! Il Vangelo della sofferenza viene scritto incessantemente, e incessantemente parla con le parole di questo strano paradosso: le sorgenti della forza divina sgorgano proprio in mezzo all’umana debolezza. Coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo conservano nelle proprie sofferenze una specialissima particella dell’infinito tesoro della redenzione del mondo, e possono condividere questo tesoro con gli altri. Quanto più l’uomo è minacciato dal peccato, quanto più pesanti sono le strutture del peccato che porta in sé il mondo d’oggi, tanto più grande è l’eloquenza che la sofferenza umana in sé possiede. E tanto più la Chiesa sente il bisogno di ricorrere al valore delle sofferenze umane per la salvezza del mondo.

 

VII. IL BUON SAMARITANO

28. Al Vangelo della sofferenza appartiene anche - e in modo organico - la parabola del buon samaritano. Mediante questa parabola Cristo volle dare risposta alla domanda: "chi è il mio prossimo?" (Lc 10,29). Infatti, fra i tre passanti lungo la via da Gerusalemme a Gerico dove giaceva per terra mezzo morto un uomo rapinato e ferito dai briganti, proprio il samaritano dimostrò di essere davvero il "prossimo" per quell’infelice: "prossimo" significa anche colui che adempì il comandamento dell’amore del prossimo. Altri due uomini percorrevano la stessa strada: uno era sacerdote, e l’altro levita, ma ciascuno "lo vide e passò oltre". Invece il samaritano "lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino... gli fasciò le ferite", poi "lo portò a una locanda e si prese cura di lui" (Lc 10,33-34). E all’atto di partire, affidò sollecitamente la cura dell’uomo all’albergatore, impegnandosi a sostenere le spese occorrenti.

La parabola del buon samaritano appartiene al Vangelo della sofferenza. Essa indica, infatti, quale debba essere il rapporto di ciascuno di noi verso il prossimo sofferente. Non ci è lecito "passare oltre" con indifferenza, ma dobbiamo "fermarci" accanto a lui. Buon samaritano è ogni uomo, che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque essa sia. Quel fermarsi non significa curiosità, ma disponibilità. Questa è come l’aprirsi di una certa interiore disposizione del cuore, che ha anche la sua espressione emotiva. Buon samaritano è ogni uomo sensibile alla sofferenza altrui, l’uomo che "si commuove" per la disgrazia del prossimo. Se Cristo, conoscitore dell’interno dell’uomo, sottolinea questa commozione, vuol dire che essa è importante per tutto il nostro atteggiamento di fronte alla sofferenza altrui. Bisogna dunque coltivare in sé questa sensibilità del cuore, che testimonia la compassione verso un sofferente. A volte questa compassione rimane l’unica o principale espressione del nostro amore e della nostra solidarietà con l’uomo sofferente.

Tuttavia, il buon samaritano della parabola di Cristo non si ferma alla sola commozione e compassione. Queste diventano per lui uno stimolo alle azioni che mirano a portare aiuto all’uomo ferito. Buon samaritano è, dunque, in definitiva colui che porta aiuto nella sofferenza, di qualunque natura essa sia. Aiuto, in quanto possibile, efficace. In esso egli mette il suo cuore, ma non risparmia neanche i mezzi materiali. Si può dire che dà se stesso, il suo proprio "io", aprendo quest’"io" all’altro. Tocchiamo qui uno dei punti chiave di tutta l’antropologia cristiana. L’uomo non può "ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé" ("Gaudium et Spes", 24). Buon samaritano è l’uomo capace appunto di tale dono di sé.

29. Seguendo la parabola evangelica, si potrebbe dire che la sofferenza, presente sotto tante forme diverse nel nostro mondo umano, vi sia presente anche per sprigionare nell’uomo l’amore, proprio quale dono disinteressato del proprio "io" in favore degli altri uomini, degli uomini sofferenti. Il mondo dell’umana sofferenza invoca, per così dire, senza sosta un altro mondo: quello dell’amore umano: e quell’amore disinteressato, che si desta nel suo cuore e nelle sue opere, l’uomo lo deve in un certo senso alla sofferenza. Non può l’uomo "prossimo" passare con indifferenza davanti alla sofferenza altrui in nome della fondamentale solidarietà umana, né tanto meno in nome dell’amore del prossimo. Egli deve "fermarsi", "commuoversi", agendo così come il samaritano della parabola evangelica. La parabola in sé esprime una verità profondamente cristiana, ma universalmente umana. Non senza ragione anche nel linguaggio comune viene chiamata opera "da buon samaritano" ogni attività in favore degli uomini sofferenti e bisognosi di aiuto.

Quest’attività assume, nel corso dei secoli, forme istituzionali organizzate e costituisce un campo di lavoro nelle rispettive professioni. Quanto è "da buon samaritano" la professione del medico, o dell’infermiera, o altra simile! In ragione del contenuto "evangelico", racchiuso in essa, siamo inclini a pensare qui piuttosto a una vocazione, che non semplicemente a una professione. E le istituzioni, che nell’arco delle generazioni, hanno compiuto un servizio "da samaritano", ai nostri tempi si sono ancora maggiormente sviluppate e specializzate. Ciò prova indubbiamente che l’uomo di oggi si ferma con sempre maggiore attenzione e perspicacia accanto alle sofferenze del prossimo, cerca di comprenderle e di prevenirle sempre più esattamente. Egli possiede anche una sempre maggiore capacità e specializzazione in questo settore. Guardando a tutto questo, possiamo dire che la parabola del samaritano del Vangelo è diventata una delle componenti essenziali della cultura morale e della civiltà universalmente umana. E pensando a tutti quegli uomini, che con la loro scienza e la loro capacità rendono molteplici servizi al prossimo sofferente, non possiamo esimerci dal rivolgere al loro indirizzo parole di riconoscimento e di gratitudine.

Queste si estendono a tutti coloro che svolgono il proprio servizio verso il prossimo sofferente in maniera disinteressata, impegnandosi volontariamente nell’aiuto "da buon samaritano", e destinando a tale causa tutto il tempo e le forze che rimangono a loro disposizione al di fuori del lavoro professionale. Una tale spontanea attività "da buon samaritano" o caritativa può essere chiamata attività sociale, può anche essere definita come apostolato, tutte le volte che viene intrapresa per motivi schiettamente evangelici, specialmente se ciò avviene in collegamento con la Chiesa o con un’altra comunità cristiana. La volontaria attività "da buon samaritano" si realizza attraverso ambienti adeguati oppure attraverso organizzazioni create a questo scopo. L’operare in questa forma ha una grande importanza, specialmente se si tratta di assumere compiti più grandi, che esigono la cooperazione e l’uso di mezzi tecnici. Non meno preziosa è anche l’attività individuale, specialmente da parte delle persone, che sono ad essa meglio predisposte riguardo alle varie specie di umana sofferenza, verso le quali l’aiuto non può essere portato che individualmente e personalmente. L’aiuto familiare poi significa sia gli atti d’amore del prossimo, resi alle persone appartenenti alla stessa famiglia, sia l’aiuto reciproco tra le famiglie.

È difficile elencare qui tutti i tipi e i diversi ambiti dell’attività "da samaritano" che esistono nella Chiesa e nella società. Bisogna riconoscere che essi sono molto numerosi, e anche esprimere la gioia perché grazie ad essi i fondamentali valori morali, quali il valore dell’umana solidarietà, il valore dell’amore cristiano del prossimo, formano il quadro della vita sociale e dei rapporti interumani, combattendo su questo fronte le diverse forme dell’odio, della violenza, della crudeltà, del disprezzo per l’uomo, oppure della semplice "insensibilità", cioè dell’indifferenza verso il prossimo e le sue sofferenze.

Enorme è qui il significato degli atteggiamenti opportuni da usare nell’educazione. La famiglia, la scuola, le altre istituzioni educative, anche solo per motivi umanitari, devono lavorare con perseveranza per il risveglio e l’affinamento di quella sensibilità verso il prossimo e la sua sofferenza, di cui è diventata simbolo la figura del samaritano evangelico. La Chiesa ovviamente deve far lo stesso, addentrandosi ancora più profondamente - in quanto possibile - nelle motivazioni che Cristo ha racchiuso nella sua parabola e in tutto il Vangelo. L’eloquenza della parabola del buon samaritano, come anche di tutto il Vangelo, è in particolare questa: l’uomo deve sentirsi come chiamato in prima persona a testimoniare l’amore nella sofferenza. Le istituzioni sono molto importanti e indispensabili; tuttavia, nessuna istituzione può da sola sostituire il cuore umano, la compassione umana, l’amore umano, l’iniziativa umana, quando si tratti di farsi incontro alla sofferenza dell’altro. Questo si riferisce alle sofferenze fisiche, ma vale ancora di più se si tratta delle molteplici sofferenze morali, e quando, prima di tutto, a soffrire è l’anima.

30. La parabola del buon samaritano, che - come si è detto - appartiene al Vangelo della sofferenza, cammina insieme con esso lungo la storia della Chiesa e del cristianesimo, lungo la storia dell’uomo e dell’umanità. Essa testimonia che la rivelazione da parte di Cristo del senso salvifico della sofferenza non si identifica in alcun modo con un atteggiamento di passività. È tutto il contrario. Il Vangelo è la negazione della passività di fronte alla sofferenza. Cristo stesso in questo campo è soprattutto attivo. In questo modo, egli realizza il programma messianico della sua missione, secondo le parole del profeta: "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore" (Lc 4,18-19). Cristo compie in modo sovrabbondante questo programma messianico della sua missione: egli passa "beneficando" (At 10,38), e il bene delle sue opere ha assunto rilievo soprattutto di fronte all’umana sofferenza. La parabola del buon samaritano è in profonda armonia col comportamento di Cristo stesso.

Questa parabola entrerà, infine, per il suo contenuto essenziale, in quelle sconvolgenti parole sul giudizio finale, che Matteo ha annotato nel suo Vangelo: "Venite, benedetti del Padre mio; ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi". Ai giusti che chiedono quando mai abbiano fatto proprio a lui tutto questo, il Figlio dell’uomo risponderà: "In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me". La sentenza opposta toccherà a coloro che si sono comportati diversamente: "Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me" (Mt 25,34-36.40.45).

Si potrebbe certamente allungare l’elenco delle sofferenze che hanno incontrato la sensibilità umana, la compassione, l’aiuto, oppure che non le hanno incontrate. La prima e la seconda parte della dichiarazione di Cristo sul giudizio finale indicano senza ambiguità come siano essenziali, nella prospettiva della vita eterna di ogni uomo, il "fermarsi", come fece il buon samaritano, accanto alla sofferenza del suo prossimo, l’aver "compassione" di essa, e infine il dare aiuto. Nel programma messianico di Cristo, che è insieme il programma del regno di Dio, la sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella "civiltà dell’amore". In questo amore il significato salvifico della sofferenza si realizza fino in fondo e raggiunge la sua dimensione definitiva. Le parole di Cristo sul giudizio finale permettono di comprendere ciò in tutta la semplicità e perspicacia del Vangelo.

Queste parole sull’amore, sugli atti di amore, collegati con l’umana sofferenza, ci permettono ancora una volta di scoprire, alla base di tutte le sofferenze umane, la stessa sofferenza redentrice di Cristo. Cristo dice: "L’avete fatto a me". Egli stesso è colui che in ognuno sperimenta l’amore; egli stesso è colui che riceve aiuto, quando questo viene reso a ogni sofferente senza eccezione. Egli stesso è presente in questo sofferente, poiché la sua sofferenza salvifica è stata aperta una volta per sempre ad ogni sofferenza umana. E tutti coloro che soffrono sono stati chiamati una volta per sempre a diventare partecipi "delle sofferenze di Cristo" (1Pt 4,13). Così come tutti sono stati chiamati a "completare" con la propria sofferenza "quello che manca ai patimenti di Cristo" (Col 1,24). Cristo allo stesso tempo ha insegnato all’uomo a far del bene con la sofferenza e a far del bene a chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza.

 

VIII. CONCLUSIONE

31. Questo è il senso veramente soprannaturale e insieme umano della sofferenza. È soprannaturale, perché si radica nel mistero divino della redenzione del mondo, ed è, altresì, profondamente umano, perché in esso l’uomo ritrova se stesso, la propria umanità, la propria dignità, la propria missione.

La sofferenza certamente appartiene al mistero dell’uomo. Forse essa non è avvolta quanto lui da questo mistero, che è particolarmente impenetrabile. Il concilio Vaticano II ha espresso questa verità che "in realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Infatti... Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione". Se queste parole si riferiscono a tutto ciò che riguarda il mistero dell’uomo, allora certamente si riferiscono in modo particolarissimo all’umana sofferenza. Proprio in questo punto lo "svelare l’uomo all’uomo e fargli nota la sua altissima vocazione" è particolarmente indispensabile. Succede anche - come prova l’esperienza - che ciò sia particolarmente drammatico. Quando però si compie fino in fondo e diventa luce della vita umana, ciò è anche particolarmente beato. "Per Cristo e in Cristo si illumina l’enigma del dolore e della morte" ("Gaudium et Spes", 22).

Chiudiamo le presenti considerazioni sulla sofferenza nell’anno nel quale la Chiesa vive il giubileo straordinario, collegato all’anniversario della redenzione. Il mistero della redenzione del mondo è in modo sorprendente radicato nella sofferenza, e questa, a sua volta, trova in esso il suo supremo e più sicuro punto di riferimento.

Desideriamo vivere quest’anno della redenzione in speciale unione con tutti coloro che soffrono. Occorre, pertanto, che sotto la croce del Calvario idealmente convengano tutti i sofferenti che credono in Cristo e, particolarmente, coloro che soffrono a causa della loro fede in lui crocifisso e risorto, affinché l’offerta delle loro sofferenze affretti il compimento della preghiera dello stesso Salvatore per l’unità di tutti. Là pure convengano gli uomini di buona volontà, perché sulla croce sta il "Redentore dell’uomo", l’Uomo dei dolori, che in sé ha assunto le sofferenze fisiche e morali degli uomini di tutti i tempi, affinché nell’amore possano trovare il senso salvifico del loro dolore e risposte valide a tutti i loro interrogativi.

Insieme con Maria, madre di Cristo, che stava sotto la croce, ci fermiamo accanto a tutte le croci dell’uomo d’oggi. Invochiamo tutti i santi, che durante i secoli furono in special modo partecipi delle sofferenze di Cristo. Chiediamo loro di sostenerci. E chiediamo a voi tutti, che soffrite, di sostenerci. Proprio a voi, che siete deboli, chiediamo che diventiate una sorgente di forza per la Chiesa e per l’umanità. Nel terribile combattimento tra le forze del bene e del male, di cui ci offre spettacolo il nostro mondo contemporaneo, vinca la vostra sofferenza in unione con la croce di Cristo! A tutti, fratelli e sorelle carissimi, invio la mia apostolica benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, nella memoria liturgica della beata Maria vergine di Lourdes, l’11 febbraio dell’anno 1984, sesto di pontificato.