Dichiarazione dei copresidenti
Il documento Il dono dell’autorità è stato presentato il 12 maggio scorso a Londra, presso l’abbazia di Westminster, alla presenza dei due copresidenti dell’ARCIC, l’anglicano Mark Santer, vescovo di Birmingham, e il cattolico Cormac Murphy-O’Connor, vescovo di Arundel e Brighton, che hanno reso alla stampa la seguente dichiarazione.
1. I PRECEDENTI: IL DIALOGO UFFICIALE ANGLICANO-CATTOLICO A LIVELLO INTERNAZIONALE Nel marzo 1966 l’allora arcivescovo di Canterbury, dr. Michael Ramsey, effettuò una visita ufficiale al papa Paolo VI a Roma. Questo evento inaugurò una nuova stagione delle relazioni tra la Comunione anglicana e la Chiesa cattolica, con una nuova insistenza sulla carità cristiana e sinceri sforzi volti a rimuovere le cause del conflitto e a ristabilire l’unità. Essi decisero di istituire un dialogo internazionale ufficiale la cui attività potesse condurre a quell’unità nella verità per la quale Cristo ha pregato. La Commissione internazionale anglicana - cattolica romana (ARCIC) assunse questo compito nel 1970. Si tratta di un dialogo internazionale i cui membri sono degli esperti ufficialmente incaricati di rappresentare la Comunione anglicana e la Chiesa cattolica a livello mondiale. All’ARCIC furono assegnati inizialmente tre temi principali di dialogo: la dottrina dell’eucaristia; il ministero e l’ordinazione; l’autorità nella chiesa. Nel Rapporto finale del 1981 furono pubblicate insieme diverse dichiarazioni di accordo emanate man mano che la Commissione portava avanti il suo lavoro; esse venivano presentate alle due chiese in attesa della valutazione e della recezione. La Comunione anglicana diede la sua risposta ufficiale con una Risoluzione della Conferenza di Lambeth del 1988. La Chiesa cattolica rispose nel 1991. Dopo la pubblicazione del Rapporto finale l’ARCIC ha prodotto dichiarazioni d’accordo su altre importanti materie, su cui avevano fatto richiesta di avviare un dialogo il papa Giovanni Paolo II e l’arcivescovo Robert Runcie in occasione del loro incontro di Canterbury nel 1982. Il dono dell’autorità, che viene pubblicato oggi, è la quarta dichiarazione di questa seconda fase dell’attività dell’ARCIC. Siamo lieti del fatto che questo documento venga diffuso in un luogo che risale a un’epoca precedente alle nostre divisioni. È nostra speranza che questa nuova dichiarazione contribuirà a risanarle. È un documento destinato ai cristiani anglicani e cattolici nei molti paesi del mondo in cui vivono insieme. Pertanto è già stato inviato ai primati anglicani e ai presidenti delle conferenze episcopali cattoliche e sarà presto disponibile tradotto in varie lingue e su Internet.
2. PERCHE' L'ARCIC HA PREPARATO UN'ALTRA DICHIARAZIONE SULL'AUTORITA'? Ancor prima che questo dialogo cominciasse, era ovvio che l’autorità nella chiesa avrebbe richiesto una notevole attenzione. L’autorità, in particolare l’autorità del vescovo di Roma, ha rappresentato un elemento-chiave nella divisione verificatasi all’epoca della Riforma inglese. Per quattro secoli la Comunione anglicana e la Chiesa cattolica hanno sviluppato le loro strutture di autorità in una condizione di reciproca separazione, e gli anglicani hanno vissuto senza il ministero del vescovo di Roma. Il Rapporto finale del 1981 dedicava all’argomento dell’autorità nella chiesa due dichiarazioni di accordo e un «Chiarimento», i quali documentano già il considerevole accordo che è stato riconosciuto da entrambe le chiese:
Perché dunque l’ARCIC adesso torna su questo punto?
3. CHE TIPO DI DICHIARAZIONE E' IL DONO DELL'AUTORITA'? È il frutto di cinque anni di dialogo, di ascolto paziente, di studio e di preghiera. La Commissione ha risposto alle richieste delle rispettive autorità. Tale risposta, con la loro autorizzazione, viene ora pubblicata in forma di dichiarazione concordata dalla Commissione e sottoposta alle nostre chiese per la riflessione e la discussione. La dichiarazione è fondata su tutto il precedente lavoro dell’ARCIC sull’autorità: di qui il suo sottotitolo: Autorità nella chiesa III, che va pertanto letto come segno di continuità con le precedenti dichiarazioni di accordo. È un testo ricco, dalle argomentazioni serrate, in cui ogni frase ha la sua importanza nel condurre alle conclusioni. Pertanto dovrà essere oggetto di attento studio e riflessione presso entrambe le nostre comunioni. È importante comprendere quello che i membri della Commissione hanno tentato di fare: hanno provato a esprimere quanto essi credono che discenda dalla nostra fede comune condivisa; in altre parole, i membri si sono impegnati in un dialogo al meglio di se stessi in quanto rappresentanti delle loro due chiese, non ingaggiando una sorta di negoziato ma tentando di esprimere insieme quello che credono che la fede esiga. Il titolo del nuovo documento offre un’indicazione molto importante. Rettamente compresa, l’autorità nella chiesa è un dono di Dio, che va ricevuto con gratitudine. Per tenere ben presente davanti a noi lo scopo ultimo dell’autorità, viene insistentemente utilizzata un’immagine biblica, presa dalla Seconda lettera di s. Paolo ai Corinzi. L’autorità serve alla chiesa per ricordare il «sì» che Dio ha detto all’umanità in Gesù Cristo e consente ai suoi membri di rispondere con un fedele «Amen», in cammino sulla via di Cristo. Viene poi esposto a grandi linee l’accordo intorno al modo in cui viene esercitata l’autorità ai vari livelli della vita della chiesa, compreso il modo in cui l’intero popolo di Dio porta la Tradizione attraverso lo spazio e il tempo, e il particolare ruolo dei vescovi nel discernere e nell’articolare la fede della chiesa e nell’assicurare che tutte le chiese siano in comunione. Il documento esprime accordo sul fatto che il collegio dei vescovi possa giungere a un giudizio che, fedele alla Scrittura e coerente con la tradizione apostolica, sia esente da errore (cf. n. 42). Questo dovere di conservare la chiesa nella verità è «una delle funzioni essenziali del collegio episcopale» (n. 44). La dichiarazione è fondata sull’accordo intorno al vescovo di Roma raggiunto nel precedente lavoro dell’ARCIC, e offre un accordo intorno al suo specifico ministero all’interno del collegio dei vescovi riguardo al discernimento della verità, che è stato fonte di così tante difficoltà e fraintendimenti. Cerca di rendere chiaro come in determinate circostanze il vescovo di Roma abbia il dovere di discernere e rendere esplicita, nella fedeltà alla Scrittura e alla Tradizione, la fede autentica dell’intera chiesa, che è la fede di tutti i battezzati in comunione. La Commissione crede che si tratti di un dono che va ricevuto da tutte le chiese e che è iscritto nel riconoscimento del primato del vescovo di Roma.
4. E ADESSO CHE COSA ACCADRA'? Lo studio analitico di questa dichiarazione porterà evidentemente a una serie di sollecitazioni per entrambe le nostre chiese, in riferimento a come vi viene esercitata l’autorità. Alcune di queste sollecitazioni sono citate nell’ultima parte del documento. Il compito della Commissione è stato entrare in dialogo su un argomento importante e difficile. Essa crede di essere arrivata a un ulteriore accordo, che offre alle nostre chiese. Tocca alle nostre autorità decidere, a tempo debito, se riconoscono in questa nuova dichiarazione di accordo la nostra fede e come affrontarne le conseguenze.
COMMENTO DI WILLIAM HENN
Il dono dell'autorità cerca di approfondire e di estendere l'accordo su uno dei temi più difficili che il movimento ecumenico si trova ad affrontare. Il documento stesso riconosce esplicitamente questo, e tuttavia non rinuncia ad assumere una posizione coraggiosamente positiva: «C'è un vasto dibattito sulla natura e l'esercizio dell'autorità sia all'interno delle chiese sia nella società più ampia. Gli anglicani e i cattolici vogliono testimoniare, sia alle chiese sia al mondo, che l'autorità rettamente esercitata è un dono di Dio per portare riconciliazione e pace all'umanità».1 Se questo testo non dovesse dare altro frutto che, di tanto in tanto, far venire in mente ai suoi lettori e a coloro ai quali capita di gettare uno sguardo al suo titolo che i concetti di «autorità» e «dono» si armonizzano, allora esso avrebbe già svolto un prezioso servizio per l'unità dei cristiani. Non ci potrà mai essere riconciliazione tra le comunità cristiane divise riguardo al tema dell'autorità se queste comunità non vedranno l'autorità come qualcosa di positivo. Ma a prescindere dal beneficio pratico di favorire una maggiore unità, un approccio positivo all'autorità che la consideri come un dono di Dio è necessario soprattutto perché tale approccio è giusto. Infatti, Dio vuole che la chiesa sia guidata dalla sua amorevole autorità, che è attiva nelle missioni salvifiche del Figlio e dello Spirito Santo. Il vangelo di Matteo si chiude con queste parole ispiratrici e confortanti di Gesù: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che io vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18-20). Questa autorità è condivisa in modo specifico con coloro che, nella successione apostolica, sono ordinati al ministero episcopale e ai quali è affidato il compito di servire l'unità della chiesa nella fede e nella carità. Nell'adempimento di questo ministero, secondo le necessità del momento e delle circostanze, essi hanno il dovere di prendere decisioni su questioni relative alla dottrina e alla vita della chiesa. Queste sono convinzioni che, al tempo della divisione tra la Chiesa d'Inghilterra e la Chiesa cattolica romana, non furono oggetto di discussione tra le due comunità. L'ARCIC II vuole affermarle ancora una volta, e farlo nel contesto di una riflessione ecclesiologica sulla natura e l'esercizio dell'autorità nella chiesa in generale. Questo contesto rende poi possibile un tentativo sereno e prudente di conseguire una comprensione comune di ciò che è stato un motivo di controversia al tempo della rottura tra le due comunità: il ministero primaziale del vescovo di Roma al servizio dell'unità universale.2 Un'altra caratteristica del presente testo è la sua «cattolicità», nel senso pieno e ricco del termine, secondo cui sia gli anglicani sia i cattolici hanno entrambi considerato se stessi «cattolici». Questa qualità è particolarmente evidente nel rifiuto assoluto del documento di lasciarsi impigliare in false espressioni disgiuntive, o di contrapporre aspetti della vita cristiana che in realtà devono essere tenuti insieme in complementarità. Il dono dell'autorità, quindi, rifiuta di contrapporre libertà e obbedienza. Gesù che rivela la verità che fa liberi (Gv 8,31) è lo stesso la cui assunzione piena della volontà del Padre potrà essere giustamente definita «obbedienza vivificante» (cf. n. 10). O, ancora, non ci può essere il problema di scegliere tra la fede del singolo individuo e la fede della chiesa (cf. nn. 11-13). Esse si armonizzano. Analogamente, allo scopo di discernere la volontà di Dio, la chiesa non si trova di fronte all'opzione di consultare o la Scrittura o la Tradizione, ma ambedue. Il presente testo dimostra precisamente che varie simili dicotomie sono false dicotomie. Nessuna adeguata ecclesiologia può essere soddisfatta da un elenco di o/o come questo: o la parola di Dio o l'autorità della chiesa, o il ministero ordinato o i laici, o la chiesa locale o la chiesa universale, o la sinodalità o il primato. Il disaccordo sull'autorità spesso deriva dall'errore di contrapporre due realtà o due valori o due soggetti che semplicemente non dovrebbero essere contrapposti. La peculiarità de Il dono dell'autorità intende continuamente evidenziare questa idea. Il risultato di questa cattolicità teologica è un testo che è molto ricco da un punto di vista ecclesiologico. Non avrò la pretesa di valutare la sua efficacia nel riflettere il patrimonio dottrinale anglicano, ma i cattolici in questo documento troveranno molte risonanze dei temi con cui hanno acquisito familiarità a partire dal concilio Vaticano II e dagli scritti dei papi Paolo VI e Giovanni Paolo II. In realtà, in quelli che sono forse alcuni dei paragrafi più notevoli che siano apparsi nel dialogo ecumenico fino a oggi, c'è uno sforzo di riaffermare alcune delle dottrine essenziali della Pastor aeternus del Vaticano I sul primato e l'infallibilità del papa (nn. 45-48).
I. Edificare sugli accordi precedenti Il testo si compone di quattro parti, la prima delle quali è retrospettiva. Essa guarda al passato e tenta di sintetizzare le convergenze che sono già state raggiunte nei testi precedenti dell'ARCIC sull'autorità (la «Dichiarazione di Venezia» del 1976 e il «Chiarimento» e la «Dichiarazione di Windsor» del 1981). Utilissime alla Commissione di dialogo nel delineare i temi precisi che sarebbero stati esaminati in questo terzo documento sull'autorità sono state le risposte ufficiali ai testi precedenti offerte dalla Comunione anglicana nel 1988 e dalla Chiesa cattolica romana nel 1991. Queste risposte ufficiali hanno aiutato la Commissione a esporre il suo obiettivo preciso, e cioè cercare un accordo ulteriore sulle seguenti questioni: «Il rapporto tra la Scrittura, la Tradizione e l'esercizio dell'autorità di magistero; collegialità, conciliarità e ruolo dei laici nel processo decisionale; il ministero petrino del primato universale in relazione alla Scrittura e alla Tradizione» (n. 3). Il fatto che Il dono dell'autorità tenti di fare progressi proprio riguardo alle questioni che sono state considerate dalle risposte ufficiali come bisognose di un lavoro ulteriore è importante per collocare il suo ruolo nell'accertare il grado di accordo tra anglicani e cattolici riguardo all'autorità. Questo accordo sarà più ampio e profondo di quanto si limita a esprimere il presente testo, proprio perché quest'ultimo, fino a un certo punto, è circoscritto ai problemi non sufficientemente risolti dagli accordi precedenti. Temi come il ministero dell'episkope, del primato regionale, della giurisdizione, dello ius divinum e dei testi petrini del Nuovo Testamento ricevono notevole attenzione nei documenti precedenti, e questo non bisognerebbe dimenticarlo. Si deve, quindi, prendere seriamente il sottotitolo Autorità nella chiesa III.
II. Autorità nella chiesa Questa e la III parte rappresentano quello che è precisamente il nuovo livello di accordo raggiunto da Il dono dell'autorità. La II parte considera l'autorità in riferimento alla chiesa locale e alla chiesa universale (nn. 13-14; 27-28; 30), alla Scrittura e alla Tradizione (nn. 14-23) e all'apostolicità e cattolicità (nn. 16-17; 26-27). L'intero popolo di Dio è il destinatario della parola di Dio, trasmessa nella Scrittura e nella Tradizione (n. 28). All'interno dell'intero popolo, un'attenzione speciale è riservata al rapporto tra il singolo credente e la chiesa locale (nn. 11-13) e al rapporto tra coloro ai quali è affidato il ministero dell'episkope, da un lato, e l'intero popolo dotato del dono del sensus fidei, dall'altro (nn. 24-30). I paragrafi seguenti cercheranno di elaborare alcuni dei rilevanti temi della II parte. Prima di tutto, la considerazione dell'autorità, che ha come la funzione di Leitmotiv del testo, è molto evidente dalla felice scelta di fare del termine ebraico «Amen» una sorta di ritornello, che connota l'atto e l'atteggiamento di fede biblici. «In Gesù Cristo, Figlio di Dio e nato da donna, il "sì" di Dio all'umanità e l’"Amen" dell'umanità a Dio sono diventati una realtà umana concreta. Questo tema del "sì" di Dio e dell’"Amen" dell'umanità in Gesù Cristo è la chiave della trattazione dell'autorità in questa dichiarazione» (n. 8). Di volta in volta i vari temi trattati, come l'atto di fede del singolo credente, la fede della chiesa locale, la recezione della Tradizione e della Scrittura o la cattolicità che unisce le chiese locali nel tempo e nello spazio, sono tutti presentati nel contesto positivo dell'«Amen» detto a Dio in risposta al «sì» di Dio agli esseri umani. Questo filo d'oro si prolunga nelle restanti parti del documento, in modo tale che l'ultima frase del testo riunisce in maniera illuminante tutte le affermazioni che sono state fatte in precedenza, collocandole precisamente entro il quadro della ricerca di una comunione piena: «In tal modo, l'"Amen" che gli anglicani e i cattolici dicono all'unico Signore si avvicina a essere un "Amen" detto insieme dall'unico popolo santo che rende testimonianza della salvezza e dell'amore riconciliante di Dio in un mondo lacerato» (n. 63). In questo modo, la Commissione ha saggiamente deciso di ricordare che lo stesso abituale e indiscusso atto del dire «Amen» è pertinente alla questione dell'autorità nella chiesa. L'esercizio dell'autorità nella chiesa e l'accettazione di questo esercizio devono essere intesi come parte dell'«Amen» della chiesa a Dio. Questo approccio positivo è rafforzato dal fatto che la II parte si apre con diversi paragrafi che sono fortemente biblici e trinitari. Il materiale biblico fa appello alla fede cristiana nella normatività della parola di Dio. La Scrittura sanziona un atteggiamento positivo verso l'autorità. Gesù stesso è il modello dell'accettazione dell'autorità del Padre e dell'obbedienza a essa nella potenza dello Spirito Santo. Il tema trinitario illustra ciò che è stato proposto come un valido principio metodologico da utilizzare nel dialogo ecumenico dal decreto sull'ecumenismo del Vaticano II, Unitatis redintegratio, n. 11, che richiamava l'attenzione sull'ordine o «gerarchia» che esiste tra le verità di fede. Quando la questione dell'autorità ecclesiale è posta nel contesto delle verità centrali della fede, dell'economia del Dio uno e trino di determinare la salvezza del genere umano, esso appare in una luce molto più positiva. Per questo motivo, Il dono dell'autorità si rivelerà più convincente e più credibile non solo per gli anglicani e per i cattolici, ma anche per i membri delle altre comunità. Il rapporto fra Tradizione e Scrittura, interpretazione magisteriale e recezione domina la II parte de Il dono dell'autorità. Il testo assume la Tradizione come suo punto di partenza, facendo esplicitamente riferimento alla famosa dichiarazione della Commissione Fede e costituzione di Montreal del 1963 (nn. 14-18). In questa sezione il lettore ha la possibilità di osservare la qualità eccezionalmente sintetica del testo. Lo Spirito Santo guida il processo della tradizione (pneumatologia) attraverso il ministero della Parola e del sacramento e nella vita comune del popolo di Dio (le tre dimensioni della comunione che corrispondono alla funzione di Cristo profeta, sacerdote e pastore: n. 14; cf. Lumen gentium, nn. 13-14 e Unitatis redintegratio, n. 2). La Tradizione è un «canale dell'amore di Dio», «necessaria all'economia di grazia», un «atto di comunione» che «unisce le chiese locali» l'una con l'altra e «con quelle che le precedettero nell'unica fede apostolica». Quindi il processo della tradizione è un processo di «recezione costante e incessante» in circostanze e tempi diversi. Esso suscita l'«Amen» che unisce la chiesa intera nel rispondere al «sì» di Dio all'umanità (nn. 15-16). Yves Congar ha più volte sottolineato la qualità profondamente sintetica che caratterizzava gli scritti di tanti padri della chiesa. Appare chiaro che anche questo testo gode di una tale forza sintetica. I suoi autori hanno giustamente scelto di impiegare il modo di pensare patristico. La Scrittura è collocata nel contesto della Tradizione. Essa occupa un «posto normativo» perché è «ispirata in maniera specialissima»; è perciò «autoritativa in maniera unica e speciale». La trattazione della Scrittura colpisce per la grande attenzione che pone ai problemi ermeneutici. Il modo in cui è avvenuta la composizione dei libri del Nuovo Testamento nel contesto dei problemi concreti che si trovarono a dover affrontare le comunità locali esistenti nell'epoca apostolica risulta molto congeniale all'approccio storico-critico adottato dalla maggior parte dei biblisti (cf. nn. 20-21). Tuttavia, anche qui si trova equilibrio. L'interpretazione non è semplicemente riservata agli studiosi, ma è piuttosto un'attività ecclesiale. «Il significato del Vangelo di Dio rivelato è compreso pienamente solo all'interno della chiesa» (n. 23). Questo paragrafo del testo non solo afferma la necessità della fede come un prerequisito ermeneutico senza il quale è impossibile un'adeguata interpretazione della Bibbia, ma osserva anche che «la fede della comunità precede la fede del singolo individuo» (n. 23). È del tutto convincente vedere in questa trattazione dell'autorità della Scrittura che l'interpretazione del singolo individuo è presentata come guidata da quella della comunità e contribuisce a essa. Quando il n. 23 afferma che «la chiesa non può essere descritta in termini propri come un insieme di singoli individui credenti, e neppure la sua fede può essere considerata la somma delle fedi possedute da singoli individui», è difficile che un cattolico non si ricordi che frasi simili sono state usate da papa Giovanni Paolo II quando ha parlato del rapporto dei vescovi con il collegio episcopale,3 o dalla Congregazione per la dottrina della fede in riferimento all'unità delle chiese locali all'interno della chiesa universale.4 Inoltre, il contenuto ermeneutico de Il dono dell'autorità è in consonanza con il lavoro compiuto di recente dalla Commissione Fede e costituzione sull'ermeneutica ecumenica. Sarebbe molto interessante vedere in che misura i risultati di queste due commissioni possono essere reciprocamente illuminanti. A volte, le divisioni tra cristiani sono state fondate su una presunta opposizione tra la Scrittura, che deve essere seguita dal momento che è la parola di Dio, e la Tradizione, che è stata accusata di contraddire la Scrittura con l'introduzione di novità. O ancora, qualcuno ha visto un'opposizione tra l'obbedienza alla Scrittura e l'obbedienza a coloro che esercitano l'autorità nella chiesa. Il presente testo contiene diverse «perle», una delle quali risponde in maniera puntuale a queste supposte opposizioni mostrando, in modo molto convincente, l'armonia tra Scrittura, Tradizione, autorità e obbedienza. «La formazione del canone delle Scritture fu parte integrante del processo della tradizione. Il riconoscimento da parte della chiesa di queste Scritture come canoniche, dopo un lungo periodo di discernimento critico, fu nello stesso tempo un atto di obbedienza e di autorità. Fu un atto di obbedienza in quanto la chiesa riconobbe e ricevette il “sì” vivificante di Dio attraverso le Scritture, accogliendole come la norma della fede. Fu un atto di autorità in quanto la chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, ricevette e trasmise questi testi, proclamando che erano ispirati e che non si sarebbero potuti includere altri testi nel canone» (n. 22). I due paragrafi compresi sotto lo specifico sottotitolo «Recezione e ri-recezione» contengono proposte che saranno molto gradite ai cattolici, anche se io immagino che si potrebbe dire la stessa cosa anche per gli anglicani. Prima di tutto, Il dono dell'autorità afferma chiaramente che è l'intera Tradizione apostolica a essere ricevuta dalla chiesa. La risposta ufficiale della Chiesa cattolica romana alla disamina dell'ARCIC I sull'autorità aveva esplicitamente evidenziato come un punto debole l'indicazione che solo le dottrine centrali potrebbero essere oggetto d'insegnamento solennemente proclamato da parte di coloro che esercitano l'autorità nella chiesa.5 Questo sembrò indicare che la chiesa potesse in qualche modo considerarsi al di sopra della rivelazione, proclamando quali sono le dottrine centrali e normative e lasciando alla libertà del singolo credente quelle che non sono ritenute centrali. Questo tema è stato ampiamente discusso negli ultimi trent'anni, specialmente da parte di coloro che hanno tentato di spiegare la compatibilità tra l'insegnamento del Vaticano II riguardo alla «gerarchia delle verità» e l'idea tradizionale che l'autorità di Dio sta al fondamento dell'intera rivelazione, un'idea espressa, solo per fare un esempio, nella Mortalium animos di Pio XI del 1928. Il nostro presente testo rende una testimonianza inequivocabile del fatto che gli anglicani e i cattolici sono convinti che l'«Amen» della chiesa è pronunciato a tutta intera la rivelazione di Dio, e non solo a ciò che può essere identificato come i suoi articoli più fondamentali. Nello stesso tempo, esso illustra felicemente la gerarchia delle verità, come notato sopra, quando collega organicamente le sue diverse affermazioni l'una con l'altra e con le verità fondamentali sulla Trinità come il fondamento ultimo della vita della chiesa e dell'esercizio dell'autorità ecclesiale. Inoltre, la recezione è presentata come un'attività in cui la memoria della chiesa viene rinnovata e persino risanata. Secondo la mia opinione, questo è uno dei temi più profondi e promettenti connessi con il concetto teologico della recezione. Esso si accorda felicemente con l'appello di Gesù alla conversione, la metanoia e la trasformazione della mente e del cuore. In questo senso, il concetto di «ri-recezione» può persino trovare un fondamento veterotestamentario nel richiamo da parte dei profeti a ricordare l'alleanza dimenticata e a riformare in tal senso la propria vita. Questo è decisamente congeniale all'approccio cattolico all'ecumenismo, che ha costantemente evidenziato la conversione come una parte assolutamente necessaria del cammino verso la piena comunione. Papa Giovanni Paolo II ha potuto coniare un'espressione nuova a questo riguardo, parlando del «dialogo della conversione». «La Chiesa cattolica deve entrare in quello che si potrebbe chiamare "dialogo della conversione", nel quale è posto il fondamento interiore del dialogo ecumenico. In tale dialogo, che si compie davanti a Dio, ciascuno deve ricercare i propri torti, confessare le sue colpe, e rimettere se stesso nelle mani di Colui che è l'intercessore presso il Padre, Gesù Cristo. (…) Il "dialogo della conversione" di ogni comunità con il Padre, senza indulgenze per se stessa, è il fondamento di relazioni fraterne che siano una cosa diversa da una cordiale intesa o da una convivialità tutta esteriore. I legami della koinonia fraterna vanno intrecciati davanti a Dio e in Cristo Gesù” (Ut unum sint, n. 82; EV 14/2843). La seconda parte si conclude con sei paragrafi che collegano l'autorità con la cattolicità della chiesa. Vengono evidenziati vari punti importanti. Prima di tutto, la chiesa è intesa come una totalità, che si estende al di là del tempo e dello spazio (cf. n. 26). In questo si potrebbe vedere una chiara opposizione a un'ecclesiologia che considererebbe la chiesa locale come una comunità bastante a se stessa. Lo stesso principio viene affermato, in modo ancor più esplicito, nella trattazione della sinodalità che si trova nella III parte: «La reciproca interdipendenza di tutte le chiese è parte integrante della realtà della chiesa come Dio vuole che sia. Nessuna chiesa locale che partecipa della Tradizione viva può considerarsi autosufficiente» (n. 37). Anche l'eucaristia, il vertice della vita della chiesa locale, rivela il dinamismo inestirpabile che pone la comunità locale in comunione con l'unità cattolica della chiesa intera. «Questa chiesa locale è una comunità eucaristica. Al centro della sua vita c'è la celebrazione della santa eucaristia in cui tutti i credenti ascoltano e ricevono il “sì” che Dio rivolge loro in Cristo. Nel grande rendimento di grazie, quando viene celebrato il memoriale del dono di Dio nell'opera salvifica di Cristo crocifisso e risorto, la comunità è unanime con tutti i cristiani di tutte le chiese che, sin dall'inizio e fino alla fine, pronunciano l’“Amen” dell'umanità a Dio _ l’“Amen” che secondo l'Apocalisse si trova al cuore della grande liturgia celeste (cf. Ap 5,14; 7,12)» (n. 13).6 In secondo luogo, la chiesa «come totalità» è presentata come l'unico soggetto atto a ricevere e a trasmettere la Tradizione vivente. Laici, teologi e ministri ordinati hanno tutti la responsabilità di ricevere e trasmettere la parola di Dio, ciascuno secondo le sue specifiche capacità (n. 28). I cattolici riconosceranno immediatamente l'affinità di questo paragrafo con il n. 12 della Lumen gentium del Vaticano II, che afferma che «il popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo» e che «la totalità dei fedeli» ha ricevuto «l'unzione dello Spirito Santo (cf. 1Gv 2,20 e 27)». In questo contesto, Il dono dell'autorità descrive il sensus fidei come «una capacità attiva di discernimento spirituale, un intuito che è formato dal culto e dalla vita di comunione come membro fedele della chiesa» (n. 29). La discussione del sensus fidei, e della nozione correlativa del sensus fidelium, sembra essere uno dei modi principali in cui l'ARCIC II assolve il compito richiesto dalla risposta ufficiale anglicana all'ARCIC I, che domandava che il dialogo analizzasse ulteriormente «il ruolo dei laici nei processi decisionali all'interno della chiesa».7 Il rapporto tra coloro che esercitano l'episkope, il «ministero della memoria», da un lato, e, dall'altro, l'intero popolo la cui recezione della parola di Dio nella fede può essere riassunta nell'espressione sensus fidelium, è descritto mediante l'analogia di una sinfonia. Poiché lo Spirito Santo è operante nella chiesa, c'è armonia tra episkope e sensus fidelium. Il «ministero esercitato dal vescovo e dalle persone ordinate sotto la cura del vescovo» è vigile e «attento al sensus fidelium, del quale partecipano. (…) In tal modo il sensus fidelium del popolo di Dio e il ministero della memoria coesistono insieme in rapporto reciproco» (n. 30). Queste affermazioni sono vere. Nello stesso tempo, ci si chiede se il testo non avrebbe fatto bene a considerare anche la concretissima possibilità di tensioni all'interno della comunità, riguardo a materie di fede e di ordinamento. Ritornerò su questo problema in una sezione sui possibili miglioramenti che potrebbero rendere ancora più solido l'accordo documentato nel presente testo.
III. L'esercizio dell'autorità nella chiesa Qui va notato l'uso della parola «esercizio». Il dono dell'autorità presenta un commento sullo stile con cui l'autorità deve essere esercitata nella chiesa, facendo specialmente riferimento all'«intenzione e all'esempio» di Gesù e al suo «modo diverso», caratterizzato dal servizio di donazione di sé (cf. nn. 5,9,35,48,49). Il testo non nasconde il fatto che dell'autorità si può abusare, che essa può essere deformata dalla peccaminosità o dalla limitatezza di coloro che la esercitano (nn. 5,25,48). Ciò detto, la III parte non riguarda semplicemente le virtù necessarie per esercitare l'autorità nella chiesa, ma anche lo scopo, i soggetti e le caratteristiche di questo esercizio. In tale sezione si può dire che vi sono cinque temi specifici, ciascuno dei quali necessita di un breve commento: unità per la missione, sinodalità, verità, primato e disciplina.
Unità per la missione Dal semplice punto di vista del numero di paragrafi, la sezione dedicata alla missione e all'unità sta al centro. Si potrebbe affermare che essa è anche il cuore dottrinale dell'accordo. I paragrafi 32 e 33 cercano di fornire la raison d'être dell'autorità nella chiesa. Qual è il suo scopo? Utilmente, la Commissione colloca il suo scopo nel contesto dello scopo della chiesa come tale. La chiesa esiste come uno strumento per continuare la missione di Cristo di portare a compimento il regno di Dio. La natura stessa del Regno è una natura di comunione.8 La missione della chiesa è quella di essere uno strumento di comunione (cf. 1Gv 1,1-3). La mancanza di unità danneggia questa missione; Gesù prega perché i suoi discepoli siano una cosa sola, «perché il mondo creda» (Gv 17,21). Il presente testo esprime felicemente questi punti: «Quando i cristiani non sono d'accordo sul Vangelo stesso, la predicazione di esso è compromessa nella sua potenza. Quando non sono una cosa sola nella fede, non possono essere una cosa sola nella vita, e quindi non possono dimostrare in pienezza di essere fedeli alla volontà di Dio, che è la riconciliazione di tutte le cose al Padre per mezzo di Cristo (cf. Col 1,20). (...) La sfida e la responsabilità che incombono a coloro che hanno autorità nella chiesa è di esercitare il loro ministero così da promuovere l'unità della chiesa intera nella fede e nella vita in un modo che arricchisca _ piuttosto che diminuire _ la legittima diversità delle chiese locali» (n. 33). Da una prospettiva cattolica, questo è molto utile all'inizio di una sezione che tratterà i temi dell'episcopato, della sinodalità e del primato. La Lumen gentium, al n. 23, associa intimamente il ministero dei vescovi e del papa con il ruolo di servire l'unità della chiesa, e questo precisamente nel contesto della missione della chiesa di annunciare il Vangelo al mondo intero.9 Si potrebbe dire che i temi predominanti dell'ecclesiologia cattolica nel periodo successivo al Vaticano II si coagulano tutti intorno ai temi della comunione (unità) e della missione. Anche i sinodi generali più recenti, riguardanti i laici, i ministri ordinati e coloro che si sono votati alla vita consacrata, hanno tutti sviluppato la comprensione di queste vocazioni nei termini dell'ecclesiologia duale della comunione e della missione. Papa Giovanni Paolo II è stato guidato da queste analisi nella stesura delle sue tre esortazioni apostoliche che sono state il frutto di questi sinodi: Christifideles laici, Pastores dabo vobis e Vita consecrata. Ora, ne Il dono dell'autorità, i membri dell'ARCIC II ci hanno offerto due preziosi paragrafi sull'autorità nella chiesa, ed esattamente sulla sua natura come comunione e come missione.
Sinodalità I paragrafi riguardanti la sinodalità (nn. 34-40) cominciano con una splendida descrizione dell'intera chiesa, costituita dalla comunione di tutte le chiese locali, come una comunità che cammina insieme (giocando sulla parola greca synodos) sotto la guida dello Spirito Santo nella fedeltà alla vivente parola di Dio. Seguono poi i paragrafi più forti del documento sui vescovi. Essi hanno bisogno di una certa autorità pastorale per esercitare efficacemente l'episkope in una chiesa locale. Questo significa che essi devono essere capaci di prendere e attuare decisioni per il bene della comunione. I fedeli «hanno il dovere di ricevere e di accettare» queste decisioni. «La giurisdizione dei vescovi è unicamente conseguenza della chiamata che essi hanno ricevuto a guidare le loro chiese (…); non è potere arbitrario dato a una persona sulla libertà degli altri». C'è una complementarità tra il vescovo e la comunità che è simboleggiata ed espressa dal dialogo religioso che avviene tra il presidente e il popolo durante la celebrazione dell'eucaristia. Queste affermazioni, tutte tratte dal n. 36, riescono ad armonizzare una chiara e ferma autorità episcopale con un delicato rispetto per la fede dei singoli credenti che formano la comunità. Questo è il tipo di autorità che certamente si richiama a Gesù stesso, pastore e vescovo delle anime (cf. 1Pt 2,25). La sezione prosegue richiamando alcune delle strutture che rendono possibile l'espressione della sinodalità, evidenziando che «il mantenimento della comunione pretende che a ogni livello vi sia la capacità di prendere quelle decisioni che sono appropriate a quel livello. Quando queste decisioni suscitano problemi gravi per la più ampia comunione delle chiese, la sinodalità deve trovare un'espressione più ampia» (n. 37). Per attuare questa sinodalità i vescovi hanno bisogno di riunirsi insieme. Anche la consultazione dei fedeli sarà un aspetto necessario della loro supervisione episcopale (n. 38). I paragrafi 39-40 offrono un’interessante relazione dei modi diversi in cui gli anglicani e i cattolici esprimono la sinodalità, di particolare interesse per le diverse accentuazioni presenti nelle descrizioni. Il n. 39 esprime la fiducia diffusa nella prassi della sinodalità e della consultazione dei laici nella Comunione anglicana; ma sembra quasi dover «insistere troppo» che i vescovi hanno una responsabilità «distinta e centrale», una «specifica responsabilità» di supervisione. Il n. 40, sulla Chiesa cattolica romana, d'altra parte, prevede un forte esercizio dell'autorità episcopale e primaziale ma sembra quasi dover «insistere troppo» che «la tradizione della sinodalità non è finita» e che i tre concili celebrati dalla Chiesa cattolica romana dopo la Riforma e, specialmente, i molti cambiamenti strutturali attuati dopo il Vaticano II hanno promosso un grado maggiore di sinodalità. Il testo aggiunge: «Completando questa sinodalità collegiale, una crescita nella sinodalità a livello locale sta promuovendo la partecipazione attiva dei laici alla vita e alla missione della chiesa locale» (n. 40). Questo dà l'impressione che la partecipazione dei laici cattolici avvenga solo al livello della chiesa locale e quindi può indebitamente ridurre al minimo la loro partecipazione al livello nazionale, regionale o addirittura universale (ai sinodi generali, per esempio). Queste due diverse accentuazioni compariranno di nuovo in seguito, nella IV parte, quando la Commissione elenca alcuni problemi che stanno di fronte rispettivamente agli anglicani e ai cattolici (nn. 56-57).
Verità La sezione sulla perseveranza nella verità (nn. 41-44) tenta di riunire insieme varie affermazioni che potrebbero sembrare in tensione l'una con l'altra. Essa asserisce con chiarezza che gli anglicani e i cattolici possono entrambi affermare l'indefettibilità e l'infallibilità della chiesa. Proprio come il Vaticano I aveva insegnato che il papa, sotto certe condizioni, è in grado di esercitare «l'infallibilità di cui il divino Redentore ha voluto fosse dotata la sua chiesa» (Denz 3074), così anche l'ARCIC II osserva che la fiducia, fondata nella Bibbia, che i cristiani giustamente hanno riguardo alla proclamazione della verità del Vangelo si fonda sulla fiducia nella promessa di Gesù che lo Spirito Santo non abbandonerà la chiesa nella sua universalità e la guiderà nella verità tutta intera. Questa fiducia è ciò che si intende con la nostra comune convinzione riguardo alla «indefettibilità» della chiesa. Il testo cerca di armonizzare tale fiducia con l'esperienza che lo sviluppo dottrinale, che alla fine può portare a formulazioni nuove della fede, consiste in un prudente e attento processo nel quale vengono verificate tali formulazioni. La «verifica» di cui si parla qui dovrebbe essere intesa in linea con l'Essay on the Development of Doctrine di Newman, che riporta come la chiesa sia giunta a formulazioni nuove, come l'uso del termine homoousious per descrivere il rapporto del Figlio con il Padre. Nel contesto della indefettibilità, Il dono dell'autorità afferma esplicitamente che è esattamente il ruolo del collegio episcopale «discernere e impartire quell'insegnamento che può essere accolto con fiducia perché esprime con sicurezza la verità di Dio». In alcune circostanze i vescovi possono avere «un bisogno urgente di verificare nuove formulazioni di fede» e possono persino, «assistiti dallo Spirito Santo», «giungere insieme a un giudizio che, essendo fedele alla Scrittura e coerente con la Tradizione apostolica, è preservato dall'errore» (n. 42). Una delle questioni cruciali nel presente testo appare precisamente a questo punto, dove l'ARCIC II tenta di armonizzare l'autorità di insegnamento infallibile del collegio dei vescovi con la recezione del suo insegnamento da parte dell'universalità dei credenti. Al n. 43, Il dono dell'autorità affronta una preoccupazione presente in entrambe le risposte ufficiali ai testi dell'ARCIC I sull'autorità. Come già rilevato, la risposta anglicana auspicava un approfondimento ulteriore del ruolo dei laici nel processo decisionale all'interno della chiesa. Il presente testo sembra portare a termine questo compito, specialmente nelle sue riflessioni sul sensus fidelium e sulla recezione, che sono entrambe discusse al n. 43. La risposta cattolica romana ufficiale, d'altra parte, cita diversi passaggi dall'ARCIC I, come: «(…) gli anglicani non accettano il possesso garantito di un tale dono di assistenza divina nel giudizio, necessariamente legato all'ufficio del vescovo di Roma, in forza del quale le sue decisioni formali possono essere ritenute come pienamente sicure prima dell'accettazione da parte dei fedeli».10 Questo testo riguarda l’insegnamento del vescovo di Roma, ma la questione centrale concerne la «recezione», che è precisamente la questione trattata al n. 43, che ora ci interessa. La risposta cattolica riassume come segue la sua preoccupazione riguardo a tale questione: «Inoltre, in Autorità nella chiesa I, Chiarimento, n. 3, viene nettamente affermato che la recezione di una verità definita da parte del popolo di Dio "non crea la verità né legittima la decisione". Tuttavia, come è stato appena notato per quanto riguarda il primato, sembrerebbe che altrove il Rapporto finale consideri "l'accettazione da parte dei fedeli" necessaria affinché una decisione dottrinale del papa o di un concilio ecumenico venga riconosciuta immune da errore (Autorità nella chiesa II, nn. 27 e 31). Per la Chiesa cattolica, la conoscenza certa di una verità definita non è garantita dalla recezione da parte dei fedeli come conforme alla Scrittura e alla Tradizione, ma dalla definizione autorevole stessa da parte degli autentici maestri».11 Come vengono affrontate tali questioni nel presente testo? In primo luogo il testo afferma che l'universalità dei credenti partecipa nei propri peculiari modi all'esercizio dell'autorità di insegnare nella chiesa. Non dice che l'intero corpo dei credenti è il detentore di quest'autorità di insegnare legata al collegio episcopale, che il precedente n. 42 aveva indicato come un'autorità che, in circostanze specifiche, può giungere a un giudizio che è immune da errore. Qual è la natura di questa partecipazione? In essa «è all'opera il sensus fidelium», presumibilmente come una di quelle fonti consultate dai vescovi prima di prendere qualsiasi decisione. I vescovi non solo consultano la parola di Dio come è espressa nella Scrittura e mandata nella Tradizione, ma sono anche attenti al modo in cui questa Parola è stata ricevuta dal popolo, che è guidato dal dono del sensus fidei e la cui comprensione comune della Parola può essere chiamata sensus fidelium. Il dono dell'autorità vuole dire che tale partecipazione da parte dell'intero corpo non è solo antecedente agli insegnamenti ufficiali, ma è anche conseguente. Il testo prosegue: «Dal momento che è in gioco la fedeltà dell'intero popolo di Dio, la recezione dell'insegnamento è parte integrante del processo. Le definizioni dottrinali sono recepite come autoritative in virtù della verità divina che esse proclamano, e anche a motivo dell'ufficio specifico della persona o delle persone che le proclamano all'interno del sensus fidei dell'intero popolo di Dio» (n. 43). Sembrerebbe qui che non è la recezione a costituire la condizione che «garantisce» una definizione autoritativa. Piuttosto, se si dovesse parlare di una «garanzia», l'ARCIC II direbbe che tali definizioni sono «autoritative» «in virtù della verità divina che esse proclamano, e anche a motivo dell'ufficio specifico della persona o delle persone che le proclamano». L'espressione «all'interno del sensus fidei dell'intero popolo di Dio» non sembra fare della recezione la condizione per la possibilità di una definizione dottrinale, ma piuttosto sembra confermare le tesi espresse nei nn. 41 e 42, e anche prima nella Pastor aeternus del Vaticano I, cioè che qualsiasi esercizio dell'autorità di insegnare infallibile può alla fine essere istituito solo come un esercizio di «quell'infallibilità di cui Cristo ha voluto dotare la sua chiesa». Nondimeno, la recezione è «parte integrante» di tali definizioni, perché il preciso scopo di una definizione è esprimere la fede normativa della chiesa, e di conseguenza la fede condivisa da tutti. Se l'insegnamento non fosse recepito, non riuscirebbe a raggiungere questo scopo. Perché l'universalità dei fedeli accetta una definizione dottrinale? «(...) perché (...) riconosce che questo insegnamento esprime la fede apostolica e agisce nell'autorità e nella verità di Cristo, il capo della chiesa. La verità e l'autorità del suo capo è la fonte dell'insegnamento infallibile nel corpo di Cristo. Il “sì” di Dio rivelato in Cristo è il criterio con il quale tale insegnamento autoritativo viene giudicato. Tale insegnamento va accolto con gioia dal popolo di Dio come un dono dello Spirito Santo per custodire la chiesa nella verità di Cristo, il nostro “Amen” a Dio» (n. 43). Da questo testo, sembra chiaro che non è l'accettazione da parte dei singoli individui a servire come fonte di un insegnamento infallibile. Piuttosto, questa fonte è Gesù Cristo, che è il capo della chiesa e che agisce mediante la chiesa. Il dono dell'autorità qui usa i due verbi «giudicare» e «accogliere» in riferimento all'insegnamento infallibile. Può un insegnamento essere a un tempo giudicato e accolto? Questo significa che un singolo credente o che un gruppo di credenti, o che il corpo dei credenti nella loro totalità, per così dire, si ergono a giudici al di sopra delle definizioni solenni promulgate da un concilio ecumenico o da un vescovo di Roma che intende insegnare nel modo descritto dal Vaticano I? Appare chiaro che non è questa l'intenzione del testo. Non è che il credente goda di un'autorità maggiore di quella di Cristo, o di quella che Cristo stesso esercita attraverso il collegio episcopale. Suppongo che la combinazione di questi due verbi, invece, intenda evidenziare, in questo contesto della recezione di un insegnamento ufficiale, la stessa dottrina che papa Giovanni Paolo II ha indicato nel contesto del rapporto tra filosofia e teologia, cioè che non ci può essere conflitto definitivo tra fede e ragione.12 La fede dei credenti coinvolge l'intera persona umana, la cui adesione intellettuale alla dottrina coinvolgerà di conseguenza necessariamente la facoltà di giudizio. Non si possono separare i due verbi del testo «accogliere» e «giudicare» nella recezione di una determinata dottrina, come se si potesse accogliere un insegnamento come un'interpretazione autentica della parola rivelata di Dio anche se ci si trova del tutto incapaci di giudicarla ragionevolmente passibile di essere considerata come tale. In tale caso, la fede sarebbe ridotta a un cieco fideismo, giustamente rigettato sia dalla Fides et ratio che dalla Dei Filius del Vaticano I come indegno della dignità della persona umana creata a immagine di Dio. La sezione sulla verità si chiude con un’iterazione del ruolo e della responsabilità specifici del collegio episcopale, che è «legato nella successione agli apostoli», a mantenere la chiesa nella verità. In questo contesto, Il dono dell'autorità riprende le affermazioni del Vaticano II secondo cui i singoli vescovi insegnano in solidarietà con l'intero collegio episcopale e che l'ufficio di insegnare deve essere fedele alla Scrittura e alla Tradizione, perché «[il magistero] non è superiore alla parola di Dio, ma a essa serve» (n. 14, che cita il Vaticano II, Dei verbum, n. 10).
Primato La sezione dedicata al primato (nn. 45-48) si apre riconoscendo che la sinodalità della chiesa è servita non solo dall'autorità conciliare e collegiale ma anche dall'autorità primaziale. Ambedue le comunità riconoscono il ministero primaziale, a vari livelli della vita ecclesiale. Il n. 46 riconosce esplicitamente il suo debito nei confronti di quello che deve essere considerato uno dei risultati più importanti dell'ARCIC I: il riconoscimento comune non solo della necessità del ministero primaziale al livello universale ma anche del fatto che questo ministero sia esercitato dal vescovo di Roma. Se è vero che le origini della divisione tra queste due comunità stanno «precisamente nel problema del primato papale», come ha indicato il Rapporto di Malta, allora all'ARCIC I si deve riconoscere il merito di aver già compiuto un passo avanti storicamente importante. La risposta ufficiale della Comunione anglicana alla trattazione del primato dell'ARCIC I invitava a esaminare «(…) il fondamento nella Scrittura e nella Tradizione del concetto di un primato universale, unito alla collegialità, in quanto strumento dell'unità, il carattere di tale primato, e a prendere in considerazione l'esperienza di altre chiese cristiane nell'esercizio del primato, della collegialità e della conciliarità».13 Riguardo a quella richiesta finale, il n. 4 de Il dono dell'autorità accenna brevemente che sia gli anglicani sia i cattolici stanno cercando di essere aperti all'esperienza delle altre chiese circa la natura e l'esercizio dell'autorità. Il testo stesso in seguito non si riferisce più esplicitamente alle altre chiese, anche se la sua descrizione della chiesa come il luogo «dove è predicata la parola di Dio e dove sono celebrati i sacramenti» (nn. 17-18) sembra riecheggiare un tema ecclesiologico caro alla Riforma protestante, mentre l'inquadramento del discorso sulla collegialità e sulla conciliarità in termini di «sinodalità» (nn. 34-40; 45) sarà probabilmente congeniale al pensiero ortodosso. Riguardo al fondamento nella Scrittura e nella Tradizione, il presente testo richiama le più ampie riflessioni bibliche di Autorità nella chiesa II, nn. 2-9, e aggiunge un testo e diversi esempi del periodo patristico. L'accenno alle celebrazioni liturgiche anglicane di due vescovi di Roma, Leone e Gregorio, è un'inserzione particolarmente apprezzabile a questo punto. Il rapporto tra il primato e la collegialità è affrontato in consonanza con il collegamento dei due temi nella III parte de Il dono dell'autorità: la sinodalità porta alla discussione della perseveranza nella verità e poi alla trattazione del primato. Infine, il «carattere» del primato, nel senso del suo scopo di servire l'unità, la sua origine nel modello posto da Gesù stesso nella scelta di uno dei dodici, il suo stile collegiale e la sua vulnerabilità per la debolezza del suo detentore, tutti questi temi paiono affrontati ai nn. 46-48. In tal modo si direbbe che il testo abbia affrontato tutti i problemi citati nella risposta ufficiale anglicana. Quali sono state le reazioni cattoliche romane alla trattazione del primato da parte dell'ARCIC I? Le difficoltà dei cattolici riguardano quelle che si potrebbero vedere come le due componenti generali della dottrina del Vaticano I sul papato: primato e infallibilità. Riguardo al primato, la risposta ufficiale ha messo in discussione l'affermazione dell'ARCIC I secondo cui «"una chiesa al di fuori della comunione con la sede romana può, dal punto di vista della Chiesa cattolica romana, non mancare di nulla tolto il fatto di non appartenere alla manifestazione visibile della piena comunione cristiana, che è mantenuta nella Chiesa cattolica romana" (Autorità nella chiesa II, n. 12)». Invece, a una tale chiesa «manca più che la semplice manifestazione visibile di unità».14 L'ARCIC II sembra rispondere a questo quando afferma con chiarezza che «la reciproca interdipendenza di tutte le chiese è parte integrante della realtà della chiesa come Dio vuole che sia» (n. 37), e che «le esigenze della vita ecclesiale richiedono un esercizio specifico dell'episkope al servizio della chiesa intera» (n. 46). Per sua stessa natura, la chiesa locale non è autosufficiente (n. 37). Così è in gioco molto più che la semplice manifestazione visibile dell'unità nella questione della comunione con quel ministero che serve come un punto di riferimento per l'unità della chiesa universale. La risposta cattolica, inoltre, ha trovato l'ARCIC I inadeguato rispetto alla fede cattolica sul fatto che «il primato del vescovo di Roma appartiene alla struttura divina della chiesa» e che «il primato dei successori di Pietro [è] qualcosa che promana dalla positiva volontà di Dio e derivante dalla volontà e dall'istituzione di Gesù Cristo».15 In risposta, l'ARCIC II ripete l'ARCIC I nell'affermare che il «modello di complementarità tra gli aspetti primaziali e conciliari dell'episkope al servizio della koinonia delle chiese deve essere realizzato sul piano universale» (sottolineatura mia). Le «esigenze della vita ecclesiale richiedono un esercizio specifico dell'episkope al servizio della chiesa intera» (sottolineatura mia). Il riferimento al Nuovo Testamento distingue la scelta di Pietro da parte di Gesù Cristo stesso, mentre il testo di s. Agostino parla della «riconosciuta preminenza di Pietro» e mette in relazione le parole dette al solo Pietro («A te consegno») con i carismi elargiti alla chiesa nel suo complesso (tutti testi tratti dal n. 46). In tal modo Il dono dell'autorità sembra voler dire che il ministero primaziale è il ministero dell'esse e non del bene esse della chiesa. Esso è richiesto. Inoltre, sia la testimonianza biblica sia quella patristica presuppongono che l'iniziativa di dare alla chiesa ciò di cui essa aveva bisogno è venuta da Gesù stesso. Con questo non si vuole attribuire al testo un'interpretazione fondamentalistica o della Scrittura o delle origini della chiesa. Il concetto di ius divinum può e deve essere inteso in un modo che gli permetta di essere in armonia con qualsiasi cosa possa emergere come risultati conseguiti dalla ricerca storica rettamente effettuata. Le recenti considerazioni della Congregazione per la dottrina della fede riguardo al primato del successore di Pietro ammettono uno «sviluppo dottrinale» e la «crescente chiarezza» riguardo a questo ministero. Nello stesso tempo, la Congregazione sottolinea la continuità in questo sviluppo, e che la crescente chiarezza ha riguardato la convinzione che la chiesa ebbe fin dalle sue origini che «come esiste la successione degli apostoli nel ministero dei vescovi, così anche il ministero dell'unità, affidato a Pietro, appartiene alla perenne struttura della chiesa di Cristo e che questa successione è fissata nella sede del suo martirio».16 Affermando la sua necessità e facendo riferimento a testi biblici e patristici che menzionano le parole di Gesù dette specificamente a Pietro, che lo sceglie per un ruolo che era in rapporto con la chiesa universale, che gli conferiva l'autorità di esercitare poteri consegnati alla chiesa universale, si direbbe che l'ARCIC II afferma sostanzialmente quello che anche la Congregazione afferma riguardo al fondamento del primato nella volontà di Cristo per la chiesa. È comprensibile che la trattazione del primato da parte della Congregazione sia molto più estesa e le sue affermazioni più esplicite. Eppure io penso che l'ARCIC sarebbe capace di esprimere una dichiarazione breve come: «L'episcopato e il primato, reciprocamente connessi e inseparabili, sono di istituzione divina».17 Da quanto si dice nel testo nel suo complesso, questa affermazione potrebbe essere accetta ad ambedue le comunità. Come, dopo aver presentato l'esercizio sinodale dell'autorità da parte del collegio episcopale in generale (nn. 34-40), Il dono dell'autorità passa alla questione più specifica della sua autorità di insegnare (nn. 41-44), così anche la sua trattazione di un primato universale (n. 46) porta a un paragrafo sull'autorità primaziale di insegnare (n. 47). Il testo chiaramente prevede la possibilità di una «definizione solenne pronunciata dalla cattedra di Pietro», dove quest'ultima espressione evidentemente è ispirata dall'espressione latina ex cathedra (dalla cattedra). Il n. 47, in modo analogo alla Pastor aeternus del Vaticano I, afferma che tale capacità di insegnare deriva dal ministero del primato ed è in qualche modo inclusa in esso: «La recezione del primato del vescovo di Roma implica il riconoscimento di questo specifico ministero del primate universale».18 L'intenzione primaria di questo paragrafo sembra essere quella di prevenire ed evitare le «difficoltà» e i «fraintendimenti» che sono sorti al riguardo di questo particolare ministero del discernimento della verità. Chiunque abbia una certa dimestichezza con il Vaticano I si ricorderà della famosa relatio del vescovo Vincent Gasser, portavoce della Deputazione de fide del concilio, pronunciata l'11 luglio 1870, discorso citato in quattro note del paragrafo principale sull'autorità di insegnare e l'infallibilità del Vaticano II, e cioè il n. 25 della Lumen gentium! Il vescovo Gasser tentò di dare una risposta ai timori espressi da alcuni vescovi cattolici che la definizione dell'infallibilità del papa avrebbe attribuito al papa un'autorità che avrebbe potuto imporre all'intera chiesa una dottrina solennemente definita sul solo fondamento della sua decisione arbitraria. L'argomentazione di Gasser si imperniava sull'interpretazione di tre aggettivi: personale, separato e assoluto. In che senso l'infallibilità del papa può essere qualificata mediante questi aggettivi? Riguardo al terzo, Gasser dichiara esplicitamente (sua espressione) che «nullo in sensu infallibilitatis pontificia est absoluta, nam infallibilitatis absoluta competit soli Deo».19 In che senso personale? «Porro infallibilitas dicitur personalis, ut sic excludatur distinctio inter sedem et sedentem (…) Defendimus personalem Romani pontificis infallibilitatem eatenus, quatenus haec praerogativa omnibus et singulis legitimis Petri in cathedra eius successoribus ex Christi promissione competit».20 Gasser prosegue e chiarisce che l'aggettivo «personale» deve essere precisamente limitato al papa in quanto egli è «persona publica, id est, caput ecclesiae in sua relatione ad ecclesiam universalem».21 Il vescovo nega esplicitamente che il papa è infallibile quando è considerato come una persona privata o come un maestro privato.22 In che senso l'infallibilità del papa è separata? «Dici potest separata, seu potius distincta, quia fundata est in speciali promissione Christi; et proinde etiam in speciali assistentia Spiritus Sancti, quae non est una eademque cum illa, qua gaudet totum corpus ecclesiae docentis iunctum cum suo capite».23 L'espressione «chiesa che insegna» in Gasser deve essere intesa all'interno della distinzione prevalente a quel tempo tra la ecclesia docens e la ecclesia discens. In tal modo essa significa il collegio episcopale. A partire da questo contesto operativo, egli sarebbe stato incapace di riconoscere una «partecipazione» all'autorità di insegnare della chiesa da parte dei laici. Questa limitazione non deve costituire un problema per noi oggi, quando una dottrina e una teologia dei laici molto più adeguatamente sviluppate hanno evidenziato la loro specifica condivisione della missione profetica di Gesù. Ma il testo di Gasser qui è utile per cogliere i limiti entro i quali i vescovi del Vaticano I intendevano l'insegnamento del vescovo di Roma come «separato». Al confronto con quello del collegio episcopale, il rapporto del primate con la chiesa universale è «prorsus specialis; et huic conditioni speciali et distinctae respondet privilegium speciale et distinctum. In hoc ergo sensu competit Romano pontifici infallibilitas separata. Sed ideo non separamus pontificem ab ordinatissima coniunctionem cum ecclesia. Papa enim solummodo est infallibilis, quando omnium chrisitianorum doctoris munere fungens, ergo universalem ecclesiam repraesentans, iudicat et definit quid ab omnibus credendum vel reiiciendum. (…) Non separamus porro papam infallibiliter definientem a cooperatione et concursu ecclesiae, saltem id est in eo sensu, quod hanc cooperationem et hunc concursum ecclesiae non excludimus (…) Hanc cooperationem ecclesiae tum ideo non excludimus, quia infallibilitas pontificis Romani non per modum inspirationis vel revelationis, sed per modum divinae assistentiae ipsi obvenit. Hinc papa pro officio suo et rei gravitate tenetur media apta adhibere ad veritatem rite indagandam et apte enuntiandam; et eiusmodi media sunt concilia vel etiam consilia episcoporum, cardinalium, theologorum, etc. Haec media pro diversitate rerum utique sunt diversa, et pie debemus credere quod in divina assistentia Petro et successoribus eius a Christo Domino facta, simul etiam contineatur promissio mediorum, quae necessaria aptaque sunt ad affirmandum infallibile pontificis iudicium. Demum papam non separamus, et vel minime separamus a consensu ecclesiae, dummodo consensus iste non ponatur ceu conditio, sive sit consensus antecedens sive sit consequens».24 Quest'ampia citazione del vescovo Gasser ce lo mostra mentre cerca di spiegare il senso ristretto in cui l'infallibilità del papa, come definita dal Vaticano I, è «separata» dalla chiesa e i molti sensi in cui essa non deve essere intesa come separata. Gasser cercava di rassicurare i vescovi cattolici che avevano espresso la loro preoccupazione riguardo a questa speciale autorità di insegnare del primate. Le osservazioni di Gasser sembrano particolarmente utili per interpretare correttamente l'intenzione del n. 47 de Il dono dell'autorità. Mi pare che questo paragrafo risponda fondamentalmente alla stessa preoccupazione. Mentre l'autorità di insegnare del primate universale nel proclamare la fede autentica dell'intera chiesa è «un esercizio particolare [sottolineatura mia] della vocazione e della responsabilità del corpo dei vescovi di insegnare e confermare la fede» e, come tale, è specifica, nondimeno essa è esercitata «all'interno del collegio (…) e non al di fuori», esprime solo la fede dell'intera chiesa e delle chiese locali. E' fedele alla Scrittura e alla Tradizione, alla «fede proclamata fin dal principio». L'ARCIC I aveva espresso varie preoccupazioni tra gli anglicani sull'infallibilità del papa, specialmente riguardo alle definizioni dei dogmi mariani del 1854 e del 1950, che, secondo la risposta ufficiale cattolica, «mostrano il bisogno di continuare a studiare a riguardo del ministero petrino nella chiesa».25 Queste preoccupazioni anglicane non vengono più espresse ne Il dono dell'autorità dell'ARCIC II. Invece, appare il tentativo di sottolineare l'unità tra il papa, quando esercita quella specifica autorità di insegnare relativa alla definizione solenne di una dottrina, e l'intera chiesa. Questo tentativo presenta alcune notevoli affinità con il discorso del vescovo Gasser, che riuscì a dissipare i timori analoghi dei vescovi cattolici al Vaticano I. Le affermazioni dell'ARCIC II sul rapporto tra tali insegnamenti speciali del primate e la fede dell'intera chiesa possono essere interpretati nel senso di intendere l'approvazione dell'intera chiesa come condizione giuridica che garantisce l'insegnamento in questione, come se, in assenza di un'unanimità universale antecedente, o di una recezione conseguente, non si potesse in alcun modo parlare di definizione? Interpretare l'ARCIC II in questo modo sarebbe travisare il testo, secondo me. La dimostrazione principale di questo è la comprensione dell'insegnamento e della recezione al n. 43. Qui si dice che le definizioni ottengono l'autorità che hanno non per la recezione ma in virtù della verità divina, dall'autorità di Cristo, il capo, che agisce attraverso «l'ufficio specifico della persona o delle persone che le proclamano». Il vescovo Gasser stava contrastando l'opinione gallicana che le azioni del primate erano assolutamente condizionate dalla loro recezione positiva. Egli cercava di convincere quei vescovi che volevano assicurare che fosse data sufficiente considerazione all'opinione dell'intera chiesa, specialmente come espressa nel parere dei vescovi, ogni volta che il papa presentasse qualsiasi insegnamento in un modo definitivo. Egli scriveva: «In hac stricta et absoluta necessitate consistit tota differentia quae inter nos versatur, et non in opportunitate aut aliqua relativa necessitate, quae iudicio Romani pontificis rerum circumstantias ponderantis prorsus remittenda est».26 Il vescovo Gasser riuscì a convincere quei suoi confratelli vescovi che erano preoccupati riguardo a questo problema che l'insistenza gallicana sulla recezione come una condizione assoluta per l'insegnamento definitivo eliminerebbe di fatto tale insegnamento. Per questa ragione il Vaticano I aggiunse la frase che le definizioni papali erano irreformabili «per se stesse, e non in virtù del consenso della chiesa». Solo in questo contesto anti-gallicano questa frase può essere correttamente compresa, come le parole citate di Gasser chiariscono molto bene. Gasser riuscì a fugare i timori di alcuni dei suoi confratelli vescovi. Anche l'ARCIC II intende evitare fraintendimenti riguardo all'insegnamento speciale del primate in relazione all'intera chiesa. Esso sembra ripetere temi presenti nel fondamentale intervento del vescovo Gasser al Vaticano I. C'è la speranza che anch'esso possa riuscire a fugare i timori dei cristiani che possono sinceramente dibattersi nel problema di come la specifica autorità di insegnare del primate possa essere intesa come integrata nella fede dell'intera comunità, non minacciandola, come era minacciata dai falsi maestri così spesso menzionati nel Nuovo Testamento (cf. At 20,29-31; Ef 4,14; vari passi delle lettere apostoliche e delle lettere giovannee), ma in realtà confermandola (cf. Lc 22,31).
Disciplina La sezione sul primato si chiude esprimendo l'accordo con le affermazioni di papa Giovanni Paolo II riguardo alla fragilità umana dei ministri cristiani, compreso colui che esercita il ministero di Pietro. Da qui passa a una suddivisione finale sulla disciplina (n. 49). Forse questo paragrafo potrebbe fornire una descrizione più chiara di ciò che si intende con il termine «disciplina», dal momento che esso può avere una varietà di connotazioni. Il testo qui cerca di commentare ulteriormente ciò che Autorità nella chiesa I, Chiarimento, n. 5, chiamava «l'autorità che, in certe circostanze, il vescovo [o, qui, il primate] ha di esigere sottomissione»?27 Tale interpretazione sembra corretta alla luce del resto del Chiarimento n. 5, che parla del possibile «bisogno di un'azione disciplinare». In ogni caso, il presente testo propone un riconoscimento equilibrato sia del dovere del singolo individuo di seguire la direttiva impressa dall'intera comunità nelle persone di coloro che esercitano l'autorità, come pure del dovere di coloro che detengono l'autorità di rispettare le coscienze di coloro che sono chiamati a servire. Quest'ultimo punto non andrebbe frainteso come cecità di fronte al fatto che la coscienza è formata all'interno della comunità, idea esplicitamente riconosciuta al n. 13.
IV. Sintesi e sguardo verso il futuro «Riteniamo che se questa dichiarazione sulla natura dell'autorità e sul modo di esercitarla sarà accolta e messa in pratica, tale questione non sarà più tra le cause della persistente rottura della comunione tra le nostre due chiese» (n. 51). Questa è un'affermazione molto significativa e fiduciosa riguardo al grado di accordo presente ne Il dono dell'autorità, e anche un riconoscimento della differenza tra teoria e prassi (come connotato nell'espressione «e messa in pratica»). Questa differenza è importante per interpretare la IV parte. La ricapitolazione dei nuovi punti di accordo elencati al n. 52, se è di grande effetto, può addirittura essere troppo modesta. Pur comprendendo la maggior parte dei punti che abbiamo discusso fin qui, essa non cita i paragrafi 32-33, che collocano l'autorità precisamente nel contesto di un'ecclesiologia della comunione e della missione. Si è considerato sopra il motivo per cui questi paragrafi sono particolarmente utili alla luce dei recenti rilievi che si sono registrati sia nell'ecclesiologia che nell'insegnamento cattolico ufficiale. La descrizione degli sviluppi all'interno di ogni comunità (nn. 53-55) sembra molto accurata. La Chiesa cattolica romana in questi ultimi anni ha indubbiamente riservato nuova attenzione e dato nuova importanza all'esercizio dell'autorità a livello locale, sinodale e con l'inclusione dei laici. Gli anglicani recentemente hanno prestato e intendono prestare maggiore attenzione all'esercizio dell'autorità a livello universale. In tal modo sembra che entrambi, riguardo all'autorità e al suo esercizio, si stiano muovendo in una direzione che li avvicinerà sempre più. «I problemi degli anglicani» e «dei cattolici» dei nn. 56-57 non dovrebbero essere letti in contraddizione con la dichiarazione di accordo affermata al n. 51, ma piuttosto come un'espressione della differenza tra teoria e prassi. Per questo, evidenziare tali sfide dopo aver affermato il precedente accordo è pienamente in armonia con quello che papa Giovanni Paolo II ha chiamato il «dialogo della conversione» (Ut unum sint, n. 82) che è stato ricordato sopra. Questi «problemi» (nn. 56-57), insieme ai paragrafi che appaiono sotto il titolo «Collegialità rinnovata» (nn. 58-59), rispondono a un'esigenza espressa in maniera crescente nella letteratura sulla recezione dei documenti ecumenici. Alle commissioni del dialogo viene sempre più richiesto non solo di produrre testi ma anche di indicare passi concreti mediante i quali il maggiore grado di comunione raggiunto possa trovare un'espressione visibile. La cooperazione tra i vescovi anglicani e cattolici nell'incontrarsi, nel pregare, nel testimoniare e anche nell'insegnare insieme sembra pienamente in armonia con l'esperienza di collaborazione, articolata e varia, con gli altri pastori cristiani che papa Giovanni Paolo II riferisce nel capitolo II della Ut unum sint, intitolato «I frutti del dialogo». La proposta di prendere in considerazione la partecipazione dei vescovi anglicani alle visite ad limina appare un gesto nobile, un modo concreto di esprimere il riconoscimento anglicano di un primato universale affermato nei paragrafi 45-48 de Il dono dell'autorità. Nello stesso tempo, si può immaginare che un tale passo richieda una certa prudenza pastorale. Qui, come pure nel caso del magistero comune, bisognerebbe considerare attentamente come sarebbero intesi dai fedeli tali passi e, per quanto possibile, proteggerli dallo sfruttamento da parte di mass media che non si fanno scrupoli a fare sugli eventi del sensazionalismo che finisce per travisarne il senso. Il dono dell'autorità si chiude con alcuni paragrafi che caratterizzano anche il ministero del primato universale come un «dono». I cattolici dovrebbero accogliere con gioia questo atteggiamento favorevole da parte dei loro fratelli e sorelle anglicani. Diverse espressioni in questa sezione probabilmente indurranno alcuni critici ad attaccare il testo con l'obiezione che viene affermato solo un certo genere di primato, un primato che sostiene «la legittima diversità» (n. 60) e che promuove «l'indagine teologica» (n. 61), un primato che può essere ricuperato e ri-recepito dagli anglicani solo «sotto chiare condizioni» (n. 62). A mio giudizio, sarebbe un errore interpretare tali espressioni come allusive a una qualche sorta di cripto-gallicanismo. La dottrina e la teologia cattoliche possono interpretare queste espressioni in un modo che è compatibile con una corretta comprensione del primato del papa. Nel panorama ecumenico, è giusto dire che nessun'altra comunità si è avvicinata tanto ai cattolici nella comprensione del primato del vescovo di Roma. Non si possono dimenticare le penetranti parole di papa Paolo VI secondo le quali, per l'ecumenismo, non c'è «ostacolo» più grande del papato.28 Qui, forse per la prima volta nel dialogo ecumenico, gli anglicani, insieme ai loro interlocutori cattolici, ne parlano come di un «dono».
Osservazioni conclusive In tutto questo commento, ho tentato di evidenziare come l'ARCIC II abbia cercato di affrontare i problemi che sono stati espressi dalle due risposte ufficiali al lavoro dell'ARCIC I sull'autorità. Nel complesso, si può ragionevolmente affermare che Il dono dell'autorità riesce ad affrontare con successo questi problemi. Nello stesso tempo, come ci si poteva aspettare, concentrandosi su di essi questo documento può aver perso l'opportunità di sviluppare più pienamente alcuni temi enunciati con forza minore dalle risposte ufficiali. A questo riguardo, vorrei indicare solo due ambiti in cui penso che una maggiore precisione renderebbe ancor più adeguata la comprensione dell'autorità presente in questo testo e in tal modo approfondirebbe anche l'accordo tra gli anglicani e i cattolici. Una questione riguarda quello che viene indicato come il sensus fidelium. Il testo non potrebbe essere più chiaro riguardo al preciso significato di questa espressione? Esso è distinto dal sensus fidei, che è descritto come «una capacità attiva di discernimento spirituale, un intuito che è formato dal culto e dalla vita di comunione come membro fedele della chiesa» (n. 29)? Il n. 29 afferma: «Quando questa capacità è esercitata in concerto dal corpo dei fedeli, possiamo parlare dell'esercizio del sensus fidelium». Che cosa significa esercitare il sensus fidei «in concerto»? Più avanti, il sensus fidelium è descritto quasi come una forza attiva o un principio: «Entro l'opera del sensus fidelium c'è un rapporto di complementarità tra il vescovo e il resto della comunità» (n. 36; cf. anche nn. 1, 43 e 56). Infine, sembra apparire un altro significato, come se l'espressione si riferisse non a una capacità soggettiva, esercitata o singolarmente o in concerto, ma piuttosto al contenuto dottrinale riguardante materie di fede e di morale che è di fatto creduto dai fedeli: «quando i vescovi si consultano insieme, cercano sia di discernere sia di esprimere chiaramente il sensus fidelium» (n. 38). Mi sembra che il testo sarebbe migliorato se si restringesse il significato del sensus fidelium a quest'ultimo significato. Forse il Vaticano II può essere di aiuto su questo punto. Il n. 12 della Lumen gentium, cui ci si riferisce al n. 43, di fatto non usa l'espressione sensus fidelium, ma si accontenta semplicemente di parlare del «senso soprannaturale della fede in tutto il popolo». «Infatti, per quel senso della fede (sensus fidei), che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero (magisterium), al quale fedelmente si conforma, accoglie non la parola degli uomini ma, qual è in realtà, la parola di Dio (cf. 1Ts 2,13), aderisce indefettibilmente "alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi" (Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l'applica nella vita». Qui il sensus fidei è chiaramente una capacità soggettiva che accompagna la fede; è un dono dello Spirito Santo. Se l'intero popolo, guidato da questo dono del sensus fidei, contribuisse al consenso universale riguardo a una materia di fede o di morale, allora non cadrebbe in errore su quel particolare contenuto del credere (così Lumen gentium, n. 12). L'espressione sensus fidelium non potrebbe riferirsi precisamente al livello di accordo su una qualsiasi particolare materia di fede o di morale? Solo nel caso dell'unanimità si sarebbe sicuri che l'universalità dei fedeli è preservata dall'errore. Venendo meno tale unanimità, le opinioni condivise dall'universalità dei fedeli non sono con ciò ridotte all'insignificanza. Esse comunque contribuiscono all'interpretazione della parola rivelata di Dio. Ma questa stessa affermazione rivela il vero ruolo del sensus fidelium. Non è che la chiesa abbia bisogno di discernere il sensus fidelium come un fine a se stesso. Piuttosto, lo scopo ultimo del discernimento è ricevere la parola di Dio, conformarsi a essa ed applicarla alla vita. Il sensus fidei è un dono dato a ciascun credente perché da esso sia assistito o assistita nella fede. Il sensus fidelium è paragonabile a una «lettura» di ciò che il fedele di fatto crede. Tali chiarimenti permetterebbero all'ARCIC II di indicare più chiaramente come il sensus fidelium contribuisce all'insegnamento autoritativo e anche di riconoscere con maggior franchezza e onestà le difficoltà inerenti al compito di discernere ciò che i fedeli credono e il grado della loro unanimità. Specialmente in un'epoca in cui l'«opinione pubblica» viene così spesso consultata e appare così malleabile, una riflessione più profonda su questo importantissimo aspetto della vita ecclesiale sarebbe certamente utile. Una seconda indicazione non è senza rapporto con la prima. E' questa. Non potrebbe essere possibile identificare più chiaramente la peculiare autorità episcopale di insegnare precisamente come una condivisione offerta da Cristo della sua propria autorità magisteriale? Certamente c'è qualcosa di questo tema ne Il dono dell'autorità. Possiamo essere particolarmente grati per i riferimenti cristologici nei paragrafi 36 e 43 e per la pneumatologia che innerva tutto il testo (cf. nn. 4, 18, 28, 30, 35, 36, 41, 42, 43, 47, 49). Tali riferimenti alle missioni del Figlio e dello Spirito Santo avallano una valutazione ottimistica dell'autorità ministeriale nella chiesa. Nello stesso tempo, ci si chiede se questo ottimismo possa non tener conto di una maggiore considerazione dell'ordinazione episcopale come un rito sacramentale epicletico in cui il vescovo neo-ordinato è reso degno di condividere in una specifica modalità pastorale l'autorità di Cristo buon pastore. Inoltre, l'utile risalto dato ai laici, specialmente mediante il ricorso al tema del sensus fidelium, può tuttavia dare l'impressione che coloro che hanno la responsabilità del «ministero della memoria» abbiano accesso alla parola di Dio soprattutto attraverso le comuni convinzioni del popolo. Naturalmente, i vescovi di fatto apprendono la parola di Dio dai laici. Chi potrebbe dimenticare le parole rivolte a nome di Paolo a Timoteo, che, pur tenendo conto di un certo prestigio familiare, nello stesso tempo suggeriscono il profondo e personale radicamento dei ministri ordinati all'interno dell'intera comunità dei credenti? «Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te. Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani» (2Tm 1,5-6). Stando così le cose, il testo non potrebbe essere ancor più soddisfacente se potesse comprendere una riflessione più sviluppata sul rapporto tra il ministero ordinato e la proclamazione della parola di Dio? Questa potrebbe positivamente utilizzare quei passi biblici in cui Gesù condivide la sua missione si annuncio con i Dodici (come Mt 10,1-42). E potrebbe richiamare anche la speciale responsabilità episcopale di conservare e custodire la fede, un'idea che potrebbe essere supportata non solo dal Nuovo Testamento ma anche da abbondante materiale tratto dagli scritti e dalla prassi dei padri della chiesa. Gli anglicani e i cattolici, essendo entrambi convinti che l'episcopato fa parte della volontà di Dio per la chiesa e non essendo mai stati esplicitamente in conflitto su tale questione, potrebbero naturalmente avvertire meno la necessità di dare un solido fondamento all'episcopato nelle loro dichiarazioni comuni. In realtà, una critica ad Autorità nella chiesa I fu precisamente che esso aveva focalizzato troppa la sua attenzione sulla gerarchia e aveva parlato troppo poco dei laici.29 Poiché Il dono dell'autorità tenta di adempiere al mandato indicato nelle risposte ufficiali all'ARCIC I, è naturale che in questo testo i laici siano posti in speciale rilievo. Forse un po' di attenzione in più al fondamento sacramentale e all'importanza dell'ordinazione episcopale potrebbe rendere ancora migliore quello che è già un notevole accordo. Trovandoci alle soglie di un nuovo millennio, sembra veramente provvidenziale, un segno della presenza efficace dello Spirito Santo, che, nello spazio di alcuni mesi, siano apparse importanti dichiarazioni comuni, che hanno espresso un significativo consenso riguardo a due delle questioni dottrinali che più di altre stanno a fondamento delle divisioni tra le comunità cristiane. Oltre a Il dono dell'autorità, studiato nel presente commento, nel giugno del 1998 è stata pubblicata una Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione luterano-cattolica.30 Questi documenti differiscono quanto al processo che li ha prodotti e anche alle specifiche dottrine considerate, ma tuttavia le due questioni e i due accordi sono in certo modo correlati. Entrambi riguardano la guarigione e l'elevazione della natura mediante la grazia redentrice di Cristo. La Dichiarazione sulla giustificazione si focalizza sul modo in cui ciò avviene nella vita della singola persona redenta. Il dono dell'autorità invece contempla l'attività della grazia nell'intera comunità che è la chiesa, locale e universale. Si potrebbe prevedere con fiducia che l'impatto di questi accordi andrà al di là delle relazioni tra la Chiesa cattolica romana e le due sole comunità luterana e anglicana. Il testo sulla giustificazione potrebbe benissimo favorire il dialogo cattolico con molte altre comunità della Riforma. Il testo sull'autorità può fare la stessa cosa, ma potrebbe anche contribuire alla comune riflessione sul primato che continuerà ad essere di particolare interesse nel risanamento delle divisioni tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica. Papa Giovani Paolo II ha osservato che ciò che ci unisce è molto più grande di ciò che ci divide. Egli ha auspicato che, anche se non saremo completamente una cosa sola, il nuovo millennio ci possa trovare più vicini di prima. Questo ultimo accordo offerto dalla Commissione internazionale anglicana-cattolica romana ci aiuterà certamente a far sì che questo sogno si realizzi. La speranza che «l'"Amen" che gli anglicani e i cattolici dicono all'unico Signore» si possa avvicinare «a essere un "Amen" detto insieme dall'unico popolo santo che rende testimonianza della salvezza e dell'amore riconciliatore di Dio in un mondo lacerato» non è irrealistica. Il lavoro di questa Commissione aiuterà a realizzare questa comune testimonianza e questo comune «Amen» così giusto e così necessario all'alba del nuovo millennio.
1 Il dono dell'autorità, n. 5. D'ora in poi tutti i riferimenti a questo documento nel testo appariranno tra parentesi con il solo numero del paragrafo. 2 La prima dichiarazione dell'ARCIC sull'autorità (Autorità nella chiesa I, Venezia 1976) rilevava: «È stato proprio sul primato del papa che le nostre divisioni storiche hanno avuto la loro infelice origine». Testo in H. Meyer e L. Vischer (a cura di), Growth in Agreement, Geneva/Mahwah 1984, 88; EO 1/64. 3 Giovanni Paolo II, motu proprio Apostolos suos, 21.5.1998, n. 12; Regno-doc. 15,1998,490. 4 Congregazione per la dottrina della fede, lettera Communionis notio, 28.5.1992, n. 9; EV 13/1787ss. 5 Cf. Santa Sede, Risposta cattolica al 'Rapporto finale' dell'ARCIC I, 5.12.1991; EV 13/574ss. 6 Un'idea simile è espressa in Communionis notio, che afferma che la stessa celebrazione dell'eucaristia di per sé dimostra che la chiesa locale non è autosufficiente ma è, per sua intrinseca natura, connessa con la chiesa nella sua totalità (n. 11; EV 13/1794). 7 Cf. The Truth Shall Make You Free. The Lambeth Conference 1988, London 1988, 211; Regno-doc. 9,1989,317. 8 Una delle dichiarazioni più esplicite che evidenzia la «natura comunitaria» del Regno è al n. 15 della Redemptoris missio di Giovanni Paolo II. 9 Infatti la Lumen gentium qui non fa altro che ampliare il tema che era stato annunciato nella prima frase del Pastor aeternus del Vaticano I. Quel testo identifica Gesù come il pastor aeternus (pastore eterno) ed episcopos delle nostre anime (1Pt 2,25), che ha edificato la sua chiesa in modo tale che «nella casa di Dio tutti possano essere uniti insieme da vincoli di una sola fede e di carità viva» (Denz 3050). 10 Cf. Santa Sede, Risposta cattolica; EV 13/587. 11 Santa Sede, Risposta cattolica; EV 13/588. 12 Cf. Giovanni Paolo II, lett. enciclica Fides et ratio, 14.9.1998, n. 34 e l'intero c. IV, intitolato «Il rapporto tra fede e ragione», nn. 36-48; Regno-doc. 19,1998,603ss. In questo capitolo, Giovanni Paolo II cerca di mostrare come i grandi teologi del passato abbiano applicato la ragione alla fede, e lamenta la tendenza, specialmente da parte dei filosofi degli ultimi secoli, a separare le due cose. 13 The Truth Shall Make You Free, 211; Regno-doc. 9,1989,317. 14 Citazioni da Santa Sede, Risposta cattolica; EV 13/590. 15 Santa Sede, Risposta cattolica; EV 13/591. 16 Queste tesi e la citazione sono tratte da Congregazione per la dottrina della fede, considerazioni Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, nn. 2 e 3, in appendice a Il primato del successore di Pietro. Atti del Simposio teologico. Roma, dicembre 1996, Città del Vaticano 1998, 493 e 495; Regno-doc. 21,1998,664s. 17 Ivi, n. 6; Regno-doc. 21,1998,665. 18 Questo segue lo schema presente nel Vaticano I, dove la facoltà del vescovo di Roma di definire la dottrina deriva come una conseguenza dal suo ministero primaziale. Cf. Denz 3065. 19 «In nessun senso l'infallibilità del pontefice è assoluta, perché l'assoluta infallibilità appartiene a Dio solo...». Il discorso del vescovo Gasser durò quattro ore e occupa 26 colonne di Mansi, Collectio Conciliorum Recentiorum (d'ora in poi: Mansi), vol. 52, Arnhem 1927, coll. 1204-1230. [P. Henn utilizza per l’intervento di V. Gasser al Vaticano I la traduzione inglese di James T. O’Connor nel volume The Gift of Infallibility. The Official Relatio on Infallibility of Bishop Vincent Gasser at Vatican Council I, Boston 1986, che offre un’introduzione e una traduzione dell’intervento, insieme a una sintesi teologica sull’infallibilità. Curando la versione italiana di questo commento, abbiamo preferito citare dall’originale latino del Mansi, offrendone in nota una nostra traduzione; ndr]. 20 «Certo, l'infallibilità è detta personale allo scopo di escludere in questo modo una distinzione fra la sede e colui che detiene la sede (...) noi difendiamo l'infallibilità personale del romano pontefice in quanto questa prerogativa appartiene, per la promessa di Cristo, a tutti e a ciascun legittimo successore di Pietro su questa cattedra»: Mansi, col. 1212. 21 «Una persona pubblica, cioè, il capo della chiesa nel suo rapporto con la chiesa universale»: Mansi, col. 1213. 22 Cf. Mansi, col. 1212. 23 «Essa può essere definita separata o piuttosto distinta perché si fonda su una speciale promessa di Cristo e perciò su una speciale assistenza dello Spirito Santo, e questa assistenza non è la stessa di cui gode l'intero corpo della chiesa che insegna quando è unita con il suo capo»: Mansi, col. 1213. 24 «Del tutto speciale»: «...a questa condizione speciale e distinta corrisponde uno speciale e distinto privilegio. Pertanto, in questo senso appartiene al romano pontefice un'infallibilità separata. Ma dicendo questo, noi non separiamo il pontefice dalla sua unione ordinata con la chiesa. Il papa, infatti, è infallibile solo quando, esercitando la sua funzione come maestro di tutti i cristiani e rappresentando di conseguenza la Chiesa universale, egli giudica e definisce ciò che deve essere creduto o rigettato da tutti (...) Infatti noi non separiamo il papa, che definisce in modo infallibile, dalla cooperazione e dal concorso della chiesa, almeno nel senso che non escludiamo questa cooperazione e questo concorso della chiesa (...) E in tal modo non escludiamo la cooperazione della chiesa perché l'infallibilità del romano pontefice non gli viene alla maniera dell'ispirazione o della rivelazione, ma attraverso un'assistenza divina. Perciò il papa, in ragione del suo ufficio e della gravità della materia, è tenuto a usare i mezzi opportuni per indagare rettamente ed enunciare adeguatamente la verità. Questi mezzi sono i concili, o il parere dei vescovi, dei cardinali, dei teologi, ecc. Infatti, i mezzi sono diversi a seconda della diversità delle situazioni, e noi dobbiamo piamente credere che, nella divina assistenza promessa da Cristo Signore a Pietro e ai suoi successori, è simultaneamente contenuta una promessa riguardo ai mezzi che sono necessari e atti ad esprimere un giudizio pontificio infallibile. Infine, noi non separiamo il papa, neppure in minima parte, dal consenso della chiesa, purché quel consenso non sia posto come una condizione che è o antecedente o conseguente»: Mansi, col. 1213-1214. 25 Santa Sede, Risposta cattolica; EV 13/587. 26 «È in questa stretta e assoluta necessità che consiste tutta la differenza tra di noi. La differenza non consiste nella convenienza o in qualche necessità relativa che deve essere completamente lasciata al giudizio del romano pontefice come egli decide secondo le circostanze»: Mansi, col. 1215. 27 Cf. Growth in Agreement, 103; EO 1/99. 28 «Il papa, come tutti sappiamo, è indubbiamente l'ostacolo più grave sulla strada dell'ecumenismo. Cosa diremo? Dovremmo riferirci ancora una volta a titoli che giustificano la nostra missione? Dovremmo ancora una volta tentare di presentarlo nei suoi termini esatti come s’intende che esso realmente sia _ l'indispensabile principio della verità, della carità e dell'unità? Una missione pastorale di guida, di servizio, di fraternità che non sfida la libertà e l'onore di chiunque occupa una posizione legittima nella chiesa di Dio, ma invece protegge i diritti di tutti e non esige nessun'altra obbedienza che quella che è richiesta ai figli di una famiglia?» Dalla Allocuzione al Segretariato, pronunciata a conclusione dell'Assemblea generale annuale, 28.4.1967, in Information Service, n. 2, 1967, 4. 29 Cf. Chiarimento, n. 4, in Growth in Agreement, 102; EO 1/98. 30 Cf. Regno-doc. 7,1998,250.
William Henn ofm capp. Il dono dell’autorità
PREFAZIONE dei copresidenti
Più di trent'anni fa, dallo storico incontro avvenuto a Roma tra l’arcivescovo Michael Ramsey e papa Paolo VI prese avvio una seria ricerca della piena unità visibile tra la Comunione anglicana e la Chiesa cattolica romana. La Commissione costituita per preparare il dialogo riconobbe, nel suo Rapporto di Malta del 1968, che uno dei «compiti importanti e urgenti» sarebbe stato l’esame della questione dell'autorità. In un certo senso, tale questione è al cuore delle nostre dolorose divisioni. Quando nel 1981 fu pubblicato il Rapporto finale dell'ARCIC, metà di esso era dedicato al dialogo sull'autorità nella chiesa, con due dichiarazioni comuni e un chiarimento. Ciò rappresentò una base importante, che preparò la strada per ulteriori convergenze. Le risposte ufficiali, da parte della Conferenza di Lambeth della Comunione anglicana tenutasi nel 1988 e della Chiesa cattolica nel 1991, incoraggiarono la Commissione a registrare i «notevoli progressi» che erano stati fatti. Pertanto, l'ARCIC ora offre questa ulteriore dichiarazione comune, Il dono dell'autorità (The Gift of Authority). La chiave per comprendere questa dichiarazione si trova in un'immagine scritturistica. Nel primo capitolo della Seconda lettera ai Corinzi, Paolo scrive del «sì» di Dio all'umanità e del nostro rispondere «Amen» a Dio, entrambi dati in Gesù Cristo (cf. 2Cor 1,19-20). Il dono dell'autorità alla sua chiesa da parte di Dio è al servizio del «sì» di Dio al suo popolo e del suo «Amen». Il lettore è invitato a seguire la strada che ha portato la Commissione alle sue conclusioni. Queste sono il frutto di cinque anni di dialogo, di ascolto paziente, di studio e di preghiera comune. La dichiarazione, speriamo, susciterà ulteriori riflessioni teologiche; le sue conclusioni lanciano una sfida alle nostre due chiese, anche in relazione al nodo cruciale del primato universale. L'autorità riguarda il modo in cui la chiesa insegna, agisce e prende decisioni dottrinali in fedeltà al Vangelo, pertanto un autoritativo accordo sull'autorità non può essere teorico. Se questa dichiarazione deve contribuire alla riconciliazione della Comunione anglicana e della Chiesa cattolica e se viene accolta, essa pretende una risposta nella vita e nelle opere. Molte cose sono avvenute in questi anni che hanno reso più profonda la nostra consapevolezza di essere gli uni per gli altri fratelli e sorelle in Cristo. Tuttavia, il cammino verso la piena unità visibile si sta dimostrando più lungo di quanto alcuni si aspettavano e molti speravano. Abbiamo incontrato seri ostacoli che rendono difficoltoso il nostro procedere. In questa fase, l'opera perseverante e scrupolosa del dialogo è tanto più vitale. L'attuale arcivescovo di Canterbury, dr. George Carey e papa Giovanni Paolo II, quando si sono incontrati nel 1996, hanno espresso molto apertamente la necessità di lavorare sulla questione dell'autorità: «Senza un accordo su questo argomento non ci sarà possibile pervenire alla piena unità visibile, scopo nel quale noi siamo impegnati». Preghiamo perché Dio renda il lavoro della Commissione capace di dare un contributo risolutivo al fine che noi tutti desideriamo, la composizione delle nostre divisioni, così che possiamo pronunciare in unità «il nostro “Amen” per la gloria di Dio» (2Cor 1,20).
+ Cormac Murphy-O'Connor + Mark Santer Palazzola, Festa di S. Gregorio Magno, 3 settembre 1998.
Statuto del documento Il documento qui pubblicato è opera della Commissione internazionale anglicana - cattolica romana (ARCIC). È una dichiarazione congiunta della Commissione. Le autorità che hanno nominato la Commissione hanno permesso che la dichiarazione fosse pubblicata, così che possa essere ampiamente discussa. Non si tratta di una dichiarazione autoritativa (authoritative) della Chiesa cattolica romana o della Comunione anglicana, le quali, a tempo debito, valuteranno il documento e assumeranno in merito una loro posizione.
I. Introduzione 1. Il dialogo tra gli anglicani e i cattolici ha mostrato importanti segni di progresso sulla questione dell'autorità nella chiesa. Questo progresso si può già constatare nella convergenza sulla concezione dell'autorità raggiunta dalle precedenti dichiarazioni dell'ARCIC, e in particolare:
2. Questa convergenza è stata ufficialmente evidenziata dalle autorità della Comunione anglicana e della Chiesa cattolica romana. La Conferenza di Lambeth, riunitasi nel 1988, non solo riconobbe le dichiarazioni comuni dell'ARCIC sulla dottrina sull'eucaristia e su ministero e ordinazione come sostanzialmente in armonia con la fede degli anglicani (cf. Risoluzione 8, 1), ma affermò che le dichiarazioni concordate sull'autorità nella chiesa fornivano un solido fondamento per la prosecuzione del dialogo (cf. Risoluzione 8, 3). Analogamente, la Santa Sede, nella sua risposta ufficiale del 1991, riconoscendo ambiti di accordo su questioni di grandissima importanza per la fede della Chiesa cattolica romana, come l'eucaristia e il ministero della chiesa, rilevò segni di convergenza tra le nostre due comunità sulla questione dell'autorità nella chiesa, indicando che questo apriva la via a un ulteriore progresso. 3. Tuttavia, le autorità delle nostre due comunioni hanno richiesto un ulteriore esame degli ambiti in cui, anche se c'è stata convergenza, ritengono che non sia ancora stato raggiunto un necessario consenso. Questi ambiti comprendono:
Anche se sono stati compiuti dei progressi, sono emerse alcune serie difficoltà nel cammino verso l'unità. Problemi concernenti l'autorità sono stati sollevati con molta intensità presso ciascuna delle nostre comunioni. Per esempio, i dibattiti e le decisioni sull'ordinazione delle donne hanno suscitato domande intorno alle fonti e alle strutture dell'autorità e sul modo in cui esse funzionano presso gli anglicani e presso i cattolici. 4. In ambedue le comunioni le riflessioni su come l'autorità dovrebbe essere esercitata ai vari livelli sono state aperte alle prospettive che su tali questioni hanno le altre chiese. Per esempio, il Rapporto di Virginia della Commissione dottrinale e teologica interanglicana (preparato per la Conferenza di Lambeth del 1998) dichiara: «La lunga storia di coinvolgimento nell’ecumenismo, sia a livello locale sia a livello internazionale, ci ha mostrato che il discernimento e il processo decisionale degli anglicani devono tenere conto delle intuizioni della verità e della sapienza data dallo Spirito dei nostri partner ecumenici. Inoltre, ogni decisione che prendiamo deve essere offerta al discernimento della chiesa universale» (Rapporto di Virginia 6, 37). Anche papa Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Ut unum sint, ha invitato i responsabili ecclesiali e i teologi delle altre chiese a instaurare con lui un dialogo fraterno sulle forme nelle quali il particolare ministero d'unità del vescovo di Roma possa essere esercitato in una situazione nuova (cf. Ut unum sint, nn. 95-96). 5. C'è un vasto dibattito sulla natura e l'esercizio dell'autorità sia all'interno delle chiese sia nella società più ampia. Gli anglicani e i cattolici vogliono testimoniare, sia alle chiese sia al mondo, che l'autorità rettamente esercitata è un dono di Dio per portare riconciliazione e pace all'umanità. L'esercizio dell'autorità può essere oppressivo e distruttivo. Spesso può, in realtà, essere tale nelle società umane e persino nelle chiese quando esse adottano acriticamente determinati modelli di autorità. L'esercizio dell'autorità nel ministero di Gesù mostra un modo diverso. La chiesa è chiamata ad esercitare l'autorità in conformità con l'intenzione e l'esempio di Cristo (cf. Lc 22,24-27; Gv 13,14-15; Fil 2,1-11). Per l'esercizio di questa autorità la chiesa è stata dotata dallo Spirito Santo di una varietà di doni e di ministeri (cf. 1Cor 12,4-11; Ef 4,11-12). 6. Sin dall'inizio dei suoi lavori, l'ARCIC ha esaminato le questioni del magistero della chiesa o della prassi ecclesiale nel contesto della nostra comunione reale ma imperfetta in Cristo e dell'unità visibile a cui siamo chiamati. La Commissione ha sempre cercato di superare posizioni opposte e radicali per scoprire e sviluppare il nostro patrimonio comune. Basandosi sul precedente lavoro dell'ARCIC, la Commissione offre un'ulteriore dichiarazione sul modo in cui il dono dell'autorità, rettamente esercitato, rende la chiesa capace di rimanere nell'obbedienza allo Spirito Santo, che la preserva fedele nel servizio del Vangelo per la salvezza del mondo. Desideriamo chiarire ulteriormente come l'esercizio e l'accettazione dell'autorità nella chiesa siano inscindibili dalla risposta dei credenti al Vangelo, come tale esercizio sia connesso con l'interazione dinamica di Scrittura e Tradizione, e come esso si esprima e si sperimenti nella comunione delle chiese e nella collegialità dei loro vescovi. Alla luce di queste riflessioni, siamo giunti a una comprensione approfondita di un primato universale che sia al servizio dell'unità di tutte le chiese locali.
II. Autorità nella chiesa Gesù Cristo: il «sì» di Dio a noi e il nostro «Amen» a Dio 7. Dio è l'autore della vita. Per mezzo della sua Parola e del suo Spirito, in perfetta libertà, Dio chiama la vita all'esistenza. Nonostante il peccato umano, Dio in perfetta fedeltà rimane l'autore della speranza di una nuova vita per tutti. Nell'opera di redenzione di Gesù Cristo Dio rinnova al creato la sua promessa, perché «il disegno di Dio è quello di condurre tutte le genti alla comunione con lui dentro una creazione trasformata» (ARCIC, La chiesa come comunione, n. 16; EO 3/56). Lo Spirito di Dio continua a operare nella creazione e nella redenzione per portare a compimento questo disegno di riconciliazione e di unità. La radice di ogni vera autorità è pertanto l'attività del Dio uno e trino, che è autore della vita in tutta la sua pienezza. 8. L'autorità di Gesù Cristo è quella del «testimone fedele», l’«Amen» (cf. Ap 1,5; 3,14) in cui tutte le promesse di Dio trovano il loro «sì». Quando Paolo dovette difendere l'autorità del suo insegnamento, egli lo fece riferendosi all'autorità certa di Dio: «Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è “sì” e “no”…non fu “sì” e “no”, ma in lui c'è stato il “sì”. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute “sì”. Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro Amen per la sua gloria» (2Cor 1,18-20). Paolo parla del «sì» di Dio a noi e dell’«Amen» della chiesa a Dio. In Gesù Cristo, Figlio di Dio e nato da donna, il «sì» di Dio all'umanità e l’«Amen» dell'umanità a Dio sono diventati una realtà umana concreta. Questo tema del «sì» di Dio e dell’«Amen» dell'umanità in Gesù Cristo è la chiave della trattazione dell'autorità in questa dichiarazione. 9. Nella vita e nel ministero di Gesù, che è venuto a fare la volontà del Padre suo (cf. Eb 10,5-10) fino alla morte (cf. Fil 2,8; Gv 10,18), Dio ha fornito l’«Amen» umano perfetto al suo disegno di riconciliazione. Nella sua vita, Gesù ha espresso la propria totale dedizione al Padre (cf. Gv 5,19). Il modo in cui Gesù esercitò l'autorità nel suo ministero terreno fu percepito dai suoi contemporanei come qualcosa di nuovo. Essa fu riconosciuta nel suo insegnamento autorevole e nella sua parola capace di risanare e di liberare (cf. Mt 7,28-29; Mc 1,22.27). Soprattutto, la sua autorità si manifestò mediante il suo servizio e la donazione della propria vita nell'amore sacrificale (cf. Mc 10,45). Gesù parlava e agiva con autorità in virtù della sua comunione perfetta con il Padre. La sua autorità gli veniva dal Padre (cf. Mt 11,27; Gv 14,10-12). Al Cristo risorto viene data in cielo e in terra ogni autorità (cf. Mt 28,18). Gesù Cristo ora vive e regna con il Padre, nell'unità dello Spirito Santo; è capo del suo corpo, la chiesa, e Signore di tutta la creazione (Ef 1,18-23). 10. L'obbedienza vivificante di Gesù Cristo suscita per mezzo dello Spirito il nostro «Amen» a Dio Padre. In questo «Amen» per mezzo di Cristo glorifichiamo Dio, che ci dona lo Spirito nei nostri cuori come caparra della sua fedeltà (cf. 2Cor 1,20-22). Noi siamo chiamati in Cristo a rendere testimonianza al disegno di Dio (cf. Lc 24,46-49), una testimonianza che anche per noi può implicare l'obbedienza fino alla morte. In Cristo l'obbedienza non è un peso (cf. 1Gv 5,3). Scaturisce dalla liberazione data dallo Spirito di Dio. Il «sì» di Dio e il nostro «Amen» sono chiaramente visibili nel battesimo, quando nella schiera dei fedeli diciamo «Amen» all'opera di Dio in Cristo. In virtù dello Spirito, il nostro «Amen» di credenti viene incorporato nell’«Amen» di Cristo, per il quale, con il quale e nel quale adoriamo il Padre. L’«Amen» del credente nell’«Amen» della chiesa locale 11. Il Vangelo raggiunge gli uomini in una varietà di modi: la testimonianza e la vita di un genitore o di un altro cristiano, la lettura delle Scritture, la partecipazione alla liturgia, o una qualche altra esperienza spirituale. Anche l'accoglienza del Vangelo avviene in molti modi: nel ricevere il battesimo, nel rinnovo dell'impegno cristiano, in una decisione di restare fedeli, o in atti di donazione di sé a quanti sono nel bisogno. In queste azioni la persona dice: «Veramente Gesù Cristo è il mio Dio: egli è per me la salvezza, la fonte della speranza, il vero volto del Dio vivente». 12. Quando un credente singolarmente dice «Amen» a Cristo, è sempre implicata una dimensione ulteriore: un «Amen» alla fede della comunità cristiana. La persona che riceve il battesimo deve arrivare a conoscere la piena implicazione della sua partecipazione alla vita divina nel corpo di Cristo. L’«Amen» del credente a Cristo diventa ancora più completo in quanto quella persona riceve tutto quello che la chiesa, nella fedeltà alla parola di Dio, afferma essere l'autoritativo contenuto della rivelazione divina. In tal modo, l’«Amen» detto a ciò che Cristo è per ciascun credente è incorporato nell’«Amen» che la chiesa dice a ciò che Cristo è per il suo corpo. Crescere in questa fede può essere per alcuni un'esperienza costellata di dubbi e di conflitti. Per tutti è un'esperienza in cui l'integrità della coscienza del credente ha un ruolo vitale da giocare. L’«Amen» del credente a Cristo è così fondamentale che ogni singolo cristiano durante tutta la sua vita è chiamato a dire «Amen» a tutto ciò che la schiera dei cristiani nel suo complesso riceve e insegna come il significato autoritativo del Vangelo e la via per seguire Cristo. 13. I credenti seguono Cristo in comunione con altri cristiani nella loro chiesa locale (cf. Autorità nella chiesa I, 8, dove si spiega che «l'unità delle comunità locali sotto [l'autorità di] un unico vescovo costituisce quello che nelle nostre due comunioni viene designato comunemente con l'espressione “chiesa locale”»; EO 1/73). Nella chiesa locale i credenti condividono la vita cristiana, trovando insieme la guida per la formazione della coscienza e la forza per affrontare le difficoltà. Sono sostenuti dai mezzi della grazia che Dio fornisce al suo popolo: le sacre Scritture, esposte nella predicazione, nella catechesi e nei simboli di fede; i sacramenti; il servizio del ministero ordinato; la vita di preghiera e il culto comune; la testimonianza di donne e uomini santi. Il credente è incorporato in un «Amen» di fede, più antico, più profondo, più vasto e più ricco dell’«Amen» del singolo al Vangelo. Così la relazione tra la fede del singolo individuo e la fede della chiesa è più complessa di quanto talvolta possa apparire. Ogni persona battezzata condivide la ricca esperienza della chiesa che, anche quando si scontra con i problemi della realtà contemporanea, continua a proclamare ciò che Cristo è per il suo corpo. Ogni credente, in virtù della grazia dello Spirito, insieme con tutti i credenti di tutti i tempi e in tutti i luoghi, eredita questa fede della chiesa nella comunione dei santi. I credenti allora, nella celebrazione del culto, nell'insegnamento e nella prassi della loro chiesa locale, mettono in pratica un duplice «Amen». Questa chiesa locale è una comunità eucaristica. Al centro della sua vita c'è la celebrazione della santa eucaristia in cui tutti i credenti ascoltano e ricevono il «sì» che Dio rivolge loro in Cristo. Nel grande rendimento di grazie, quando viene celebrato il memoriale del dono di Dio nell'opera salvifica di Cristo crocifisso e risorto, la comunità è unanime con tutti i cristiani di tutte le chiese che, sin dall'inizio e fino alla fine, pronunciano l’«Amen» dell'umanità a Dio _ l’«Amen» che secondo l'Apocalisse si trova al cuore della grande liturgia celeste (cf. Ap 5,14; 7,12). Tradizione e apostolicità: l’«Amen» della chiesa locale nella comunione delle chiese 14. Il «sì» di Dio ordina e sollecita l’«Amen» dei credenti. La Parola rivelata, cui la comunità apostolica in origine rese testimonianza, è ricevuta e comunicata attraverso la vita dell'intera comunità cristiana. La Tradizione (paradosis) si riferisce a questo processo.1 Il Vangelo di Cristo crocifisso e risorto viene permanentemente tramandato e ricevuto (cf. 1Cor 15,3) nelle chiese cristiane. Questa tradizione, o trasmissione, del Vangelo è l'opera dello Spirito, specialmente attraverso il ministero della Parola e del sacramento e nella vita comune del popolo di Dio. La tradizione è un processo dinamico, che comunica a ogni generazione ciò che è stato consegnato una volta per tutte alla comunità apostolica. La Tradizione è molto più che la trasmissione di affermazioni vere concernenti la salvezza. Non è sufficiente una comprensione minimalista della Tradizione, che la ridurrebbe a un «magazzino» di dottrine e di definizioni ecclesiali. La chiesa riceve, e deve tramandare, tutti quegli elementi che sono costitutivi della comunione ecclesiale: il battesimo, la professione della fede apostolica, la celebrazione dell'eucaristia, la guida da parte di un ministero apostolico (cf. La chiesa come comunione, 15.43). Nell'economia (oikonomia) dell'amore di Dio per l'umanità, la Parola che si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi è al centro di ciò che fu trasmesso fin dall'inizio e di ciò che sarà trasmesso fino alla fine. 15. La Tradizione è un canale dell'amore di Dio, che lo rende accessibile nella chiesa e nel mondo odierni. Attraverso di esso, da una generazione all'altra e da un luogo all'altro l'umanità condivide la comunione nella Santa Trinità. Mediante il processo della tradizione, la chiesa amministra la grazia del Signore Gesù Cristo e la koinonia dello Spirito Santo (cf. 2Cor 13,13). Pertanto, la Tradizione è necessaria all'economia di grazia, amore e comunione. Per coloro i cui orecchi non hanno udito e i cui occhi non hanno visto, il momento della recezione del Vangelo di salvezza è un'esperienza di illuminazione, di perdono, di guarigione, di liberazione. Coloro che partecipano alla comunione del Vangelo non possono astenersi dal trasmetterlo ad altri, anche se questo significa il martirio. La Tradizione è sia un tesoro da ricevere da parte del popolo di Dio, sia un dono da condividere con tutto il genere umano. 16. La Tradizione apostolica è un dono di Dio che deve essere sempre nuovamente ricevuto. Per mezzo di essa, lo Spirito Santo forma, mantiene e sostiene la comunione delle chiese locali da una generazione alla generazione successiva. La trasmissione e la recezione della Tradizione apostolica è un atto di comunione per mezzo del quale lo Spirito unisce le chiese locali di oggi con quelle che le precedettero nell'unica fede apostolica. Il processo della tradizione comprende la recezione e la comunicazione costanti e incessanti della Parola di Dio rivelata in molte circostanze diverse e in tempi in continua trasformazione. L’«Amen» della chiesa alla Tradizione apostolica è un frutto dello Spirito che guida costantemente i discepoli alla verità tutta intera; ossia, in Cristo che è la via, la verità e la vita (cf. Gv 16,13; 14,6). 17. La Tradizione esprime l'apostolicità della chiesa. Ciò che gli apostoli hanno ricevuto e proclamato si trova ora nella Tradizione della chiesa dove è predicata la parola di Dio e dove sono celebrati i sacramenti di Cristo nella potenza dello Spirito Santo. Le chiese oggi sono impegnate a ricevere l'unica Tradizione apostolica vivente, a conformare a essa la loro vita, e a trasmetterla in modo tale che il Cristo che viene nella gloria possa trovare il popolo di Dio che professa e vive la fede consegnata ai santi una volta per tutte (Gd 3). 18. La Tradizione rende presente la testimonianza della comunità apostolica nella chiesa oggi attraverso la sua memoria collettiva. Attraverso la proclamazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti lo Spirito Santo apre i cuori dei credenti e rende manifesto a essi il Signore risorto. Lo Spirito, che agisce negli eventi verificatisi una volta per tutte del ministero di Gesù, continua ad ammaestrare la chiesa, riportando alla memoria ciò che Cristo ha fatto e ha detto, rendendo presenti i frutti della sua opera redentrice e l'anticipazione del Regno (cf. Gv 2,22; 14,26). Lo scopo della Tradizione è realizzato quando, mediante lo Spirito, la Parola è ricevuta e messa in pratica nella fede e nella speranza. La testimonianza della proclamazione, dei sacramenti e della vita in comunione è al tempo stesso il contenuto della Tradizione e il suo risultato. La memoria, quindi, porta frutto nella vita di fede dei credenti entro la comunione della loro chiesa locale. Le sacre Scritture: il «sì» di Dio e l’«Amen» del popolo di Dio 19. All'interno della Tradizione le Scritture occupano un posto speciale e normativo, e rientrano in ciò che è stato dato una volta per tutte. In quanto testimonianza scritta del «sì» di Dio, le Scritture esigono che la chiesa misuri su di esse il magistero, la predicazione e l’azione. «Essendo le Scritture la testimonianza, ispirata in maniera specialissima, della divina rivelazione, il modo in cui la chiesa esprime questa rivelazione deve essere vagliato dalla sua consonanza con la Scrittura» (Autorità nella chiesa, Chiarimento di Windsor, 2; EO 1/96). Attraverso le Scritture la rivelazione di Dio è resa presente ed è trasmessa nella vita della chiesa. Il «sì» di Dio è riconosciuto nell’«Amen» della chiesa che riceve la rivelazione autoritativa di Dio, e attraverso di esso. Ricevendo determinati testi come testimonianza autoritativa della rivelazione divina, la chiesa ha individuato le proprie sacre Scritture. Essa considera solamente questo corpus come Parola ispirata di Dio scritta e, come tale, autoritativa (authoritative) in maniera unica e speciale. 20. Le Scritture riuniscono insieme diverse correnti di tradizioni ebraiche e cristiane. Queste tradizioni rivelano il modo in cui la parola di Dio è stata ricevuta, interpretata e fatta circolare in contesti specifici secondo i bisogni, la cultura e le particolari situazioni del popolo di Dio. Esse contengono la rivelazione da parte di Dio del suo progetto di salvezza, che è stato realizzato in Gesù Cristo e sperimentato nelle comunità cristiane primitive. In queste comunità il «sì» di Dio fu recepito in un modo nuovo. Nel Nuovo Testamento possiamo vedere come le Scritture del Primo Testamento furono ricevute come rivelazione dell'unico vero Dio, ma insieme furono anche reinterpretate e nuovamente accolte come rivelazione della sua Parola definitiva in Cristo. 21. Tutti gli autori del Nuovo Testamento furono influenzati dall'esperienza delle proprie comunità locali. Ciò che trasmisero, con la loro capacità e le loro riflessioni teologiche, testimonia e fa conoscere quegli elementi del Vangelo che le chiese del tempo e nelle diverse situazioni conservarono nella loro memoria. L'insegnamento di Paolo riguardo al corpo di Cristo, per esempio, è fortemente connesso ai problemi e alle divisioni esistenti all'interno della chiesa locale di Corinto. Quando Paolo parla della «nostra autorità, che il Signore ci ha dato per vostra edificazione e non per vostra rovina» (2Cor 10,8), lo fa nel contesto dei suoi turbolenti rapporti con la chiesa di Corinto. Persino nelle affermazioni centrali della nostra fede c'è spesso una chiara eco della situazione concreta e talvolta drammatica di una chiesa locale o di un gruppo di chiese locali, di cui siamo debitori per la trasmissione fedele della Tradizione apostolica. L'accentuazione che nella letteratura giovannea è posta sulla presenza del Signore nella carne di un corpo umano che poté essere visto e toccato sia prima sia dopo la risurrezione (cf. Gv 20,27; 1Gv 4,2) è legata al conflitto sorto nelle comunità giovannee su questo problema. Attraverso le difficoltà e i contrasti che in momenti particolari delle comunità particolari sperimentarono per discernere la parola di Dio, abbiamo nella Scrittura una testimonianza autoritativa della Tradizione apostolica che deve essere fatta circolare da una generazione all'altra e da una chiesa all'altra, e a cui i fedeli dicono «Amen». 22. La formazione del canone delle Scritture fu parte integrante del processo della tradizione. Il riconoscimento da parte della chiesa di queste Scritture come canoniche, dopo un lungo periodo di discernimento critico, fu nello stesso tempo un atto di obbedienza e di autorità. Fu un atto di obbedienza in quanto la chiesa riconobbe e ricevette il «sì» vivificante di Dio attraverso le Scritture, accogliendole come la norma della fede. Fu un atto di autorità in quanto la chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, ricevette e trasmise questi testi, proclamando che erano ispirati e che non si sarebbero potuti includere altri testi nel canone. 23. Il significato del Vangelo di Dio rivelato è compreso pienamente solo all'interno della chiesa. La rivelazione di Dio è stata consegnata a una comunità. La chiesa non può essere descritta in termini propri come un insieme di singoli individui credenti, e neppure la sua fede può essere considerata la somma delle fedi possedute da singoli individui. I credenti sono nel loro insieme il popolo della fede perché sono incorporati in virtù del battesimo in una comunità che riceve le Scritture canoniche come l’autoritativa parola di Dio; essi ricevono la fede all'interno di questa comunità. La fede della comunità precede la fede del singolo individuo. Così, anche se il cammino di fede di una persona può iniziare con la lettura personale della Scrittura, non può fermarsi lì. L'interpretazione individualistica delle Scritture non si accorda con la lettura del testo all'interno della vita della chiesa ed è incompatibile con la natura dell'autorità della parola di Dio rivelata (cf. 2Pt 1,20-21). Non si osi separare Parola di Dio e chiesa di Dio. Recezione e ri-recezione: l’«Amen» della chiesa alla parola di Dio 24. Nel corso dei secoli, la chiesa riceve e riconosce come un dono gratuito di Dio tutto ciò che essa identifica come un'espressione autoritativa della Tradizione che è stata consegnata una volta per tutte agli apostoli. Questa recezione è a un tempo un atto di fedeltà e di libertà. La chiesa deve mantenersi fedele cosicché il Cristo che verrà nella gloria possa riconoscere nella chiesa la comunità che egli ha fondato; la chiesa deve mantenersi libera di ricevere la Tradizione apostolica in modi nuovi secondo le situazioni che essa deve a mano a mano affrontare. La chiesa ha la responsabilità di trasmettere l'intera Tradizione apostolica, anche se ci possono essere delle parti che essa ritiene difficile integrare nella sua vita e nel suo culto. Può darsi che ci siano cose che avevano una grande importanza per la generazione precedente e che saranno nuovamente importanti nel futuro, anche se la loro importanza non è chiara nel presente. 25. Nella chiesa la memoria del popolo di Dio può essere intaccata o persino distorta dalla limitatezza umana e dal peccato. Anche se è stata assicurata a esse l'assistenza dello Spirito Santo, le chiese di quando in quando perdono di vista alcuni aspetti della Tradizione apostolica, e non riescono a discernere una piena visione del regno di Dio, alla cui luce noi cerchiamo di seguire Cristo. Le chiese soffrono quando qualche elemento della comunione ecclesiale è stato dimenticato, trascurato o male utilizzato. Il rinnovato ricorso alla Tradizione in una situazione nuova è il mezzo col quale la rivelazione di Dio in Cristo è richiamata alla memoria. In questo sono di grande aiuto le riflessioni dei biblisti e dei teologi e la saggezza dei santi. Quindi, ci possono essere una riscoperta di elementi che erano stati trascurati e una rinnovata memoria delle promesse di Dio, che determinano il rinnovarsi dell’«Amen» della chiesa. Ci può anche essere un attento esame critico di ciò che è stato ricevuto perché alcune delle formulazioni della Tradizione sono considerate inadeguate o persino fuorvianti in un contesto nuovo. Questo intero processo può essere definito ri-recezione. La cattolicità: l’«Amen» della chiesa intera 26. Vi sono due dimensioni della comunione nella Tradizione apostolica: la dimensione diacronica e la dimensione sincronica. Il processo della tradizione implica chiaramente la trasmissione del Vangelo da una generazione all'altra (dimensione diacronica). Se è proprio della chiesa restare unita nella verità, questo deve implicare anche la comunione in quell'unico Vangelo delle chiese in tutti i luoghi (dimensione sincronica). Entrambe sono necessarie per la cattolicità della chiesa. Cristo promette che lo Spirito Santo custodirà la verità essenziale e salvifica nella memoria della chiesa, conferendole il potere di compiere la sua missione (cf. Gv 14,26; 15,26-27). Questa verità deve essere trasmessa e ricevuta di nuovo dai fedeli in tutti i tempi e in tutti i luoghi, da un capo all'altro della terra, in risposta alla varietà e alla complessità dell'esperienza umana. Non c'è parte dell'umanità, né razza, né condizione sociale, né generazione, alla quale questa salvezza, comunicata col tramandare la parola di Dio, non sia destinata (cf. La chiesa come comunione, n. 34). 27. Nella ricca varietà della vita umana, l'incontro con la Tradizione viva produce una varietà di espressioni del Vangelo. Ogni volta che si sono espressioni diverse fedeli alla Parola rivelata in Gesù Cristo e trasmessa dalla comunità apostolica, le chiese che le suscitano sono veramente in comunione. In realtà, questa diversità di tradizioni è la manifestazione pratica della cattolicità e conferma piuttosto che contraddire la forza della Tradizione. Come Dio ha creato la diversità tra gli esseri umani, così la fedeltà e l'identità della chiesa richiedono non uniformità di espressione e di formulazione a tutti i livelli in tutte le situazioni, ma piuttosto una diversità cattolica nell'unità della comunione. Questa ricchezza di tradizioni è una risorsa vitale per un'umanità riconciliata. «Gli uomini sono stati creati da Dio nel suo amore e con una tale diversità affinché essi possano partecipare di quell'amore condividendo gli uni con gli altri quello che hanno e quello che sono, arricchendosi quindi l'un l'altro nella loro comunione reciproca» (La chiesa come comunione, n. 35; EO 3/75). 28. Il popolo di Dio nel suo complesso è il depositario della Tradizione viva. In situazioni che mutano e che danno origine a nuove sfide al Vangelo, l’intero popolo di Dio porta la responsabilità del discernimento, dell'attualizzazione e della comunicazione della parola di Dio. Lo Spirito Santo opera attraverso tutti i membri della comunità, servendosi dei doni che egli dà a ciascuno per il bene di tutti. I teologi in particolare servono la comunione dell'intera chiesa indagando se e come intuizioni nuove possano essere integrate nel flusso continuo della Tradizione. In ogni comunità c'è uno scambio, un reciproco dare e avere, in cui vescovi, clero e laici danno e insieme ricevono gli uni dagli altri all'interno dell'intero corpo. 29. In ogni cristiano che cerca di essere fedele a Cristo ed è pienamente incorporato nella vita della chiesa c'è un sensus fidei. Questo sensus fidei si può descrivere come una capacità attiva di discernimento spirituale, un intuito che è formato dal culto e dalla vita di comunione come membro fedele della chiesa. Quando questa capacità è esercitata in concerto dal corpo dei fedeli, possiamo parlare dell'esercizio del sensus fidelium (cf. Autorità nella chiesa I, Chiarimento di Windsor, nn. 3-4). L'esercizio del sensus fidei da parte di ciascun membro della chiesa contribuisce alla formazione del sensus fidelium per mezzo del quale la chiesa nel suo complesso resta fedele a Cristo. In ordine al ministero di coloro che nella comunità esercitano l'episkope, custodendo la memoria viva della chiesa, l’intero corpo _ in virtù del sensus fidelium _ contribuisce a tale ministero, ne riceve e ne fa tesoro (cf. Autorità nella chiesa I, nn. 5-6). In modi diversi l’«Amen» del singolo credente viene così incorporato nell’«Amen» della chiesa intera. 30. Coloro che esercitano l'episkope nel corpo di Cristo non devono essere separati dalla «sinfonia» dell'intero popolo di Dio, nel quale hanno un proprio ruolo da giocare. Dal momento che devono rendersi conto di quando c'è bisogno di qualcosa per il bene e la missione della comunità, o di quando un qualche elemento della Tradizione va recepito in un modo nuovo, occorre che siano attenti al sensus fidelium, del quale partecipano. Il carisma e la funzione dell'episkope sono specificamente connessi con il ministero della memoria, che rinnova continuamente la chiesa nella speranza. Attraverso tale ministero lo Spirito Santo mantiene viva nella chiesa la memoria di ciò che Dio ha fatto e rivelato, e la speranza di ciò che Dio farà per ricapitolare tutte le cose nell'unità in Cristo. In questo modo, non solo di generazione in generazione, ma anche da un luogo all'altro, viene comunicata e vissuta l'unica fede. Questo è il ministero esercitato dal vescovo e dalle persone ordinate sotto la cura del vescovo, quando proclamano la Parola, amministrano i sacramenti e prendono la parte che spetta loro nell’esercizio della disciplina per il bene comune. I vescovi, il clero e gli altri fedeli devono tutti riconoscere e ricevere ciò che proviene da Dio attraverso la mediazione reciproca. In tal modo il sensus fidelium del popolo di Dio e il ministero della memoria coesistono insieme in rapporto reciproco. 31. Gli anglicani e i cattolici possono concordare in teoria su tutto quanto esposto sopra, ma è necessario che compiano un deciso sforzo per riconquistare questa comprensione condivisa. Quando le comunità cristiane sono in comunione reale ma imperfetta, sono chiamate a riconoscere le une nelle altre elementi della Tradizione apostolica che esse possono avere rifiutato, dimenticato o non ancora pienamente compreso. Di conseguenza, devono ricevere o riappropriarsi di questi elementi, e riconsiderare i modi in cui hanno separatamente interpretato le Scritture. La loro vita in Cristo è arricchita quando danno e ricevono le une dalle altre. Crescono nella comprensione e nell'esperienza della loro cattolicità quando il sensus fidelium e il ministero della memoria interagiscono nella comunione dei credenti. In questa economia del dare e ricevere di una comunione reale ma imperfetta, esse si avvicinano a una condivisione indivisa all'unico «Amen» di Cristo alla gloria di Dio. III. L'ESERCIZIO DELL'AUTORITA' NELLA CHIESA Proclamare il Vangelo: l'esercizio dell'autorità per la missione e l'unità 32. L’autorità che Gesù conferì ai suoi discepoli fu soprattutto l’autorità per la missione, quella di predicare e di guarire (cf. Lc 9,1-2; 10,1). Il Cristo risorto diede loro la forza per diffondere il Vangelo al mondo intero (cf. Mt 28,18-20). Nella chiesa primitiva, la predicazione della parola di Dio nella potenza dello Spirito era considerata come la caratteristica peculiare dell'autorità apostolica (cf. 1Cor 1,17; 2,4-5). Nella proclamazione di Cristo crocifisso, il «sì» di Dio all'umanità diviene una realtà presente e tutti sono invitati a rispondere con il loro «Amen». Pertanto, l'esercizio dell'autorità ministeriale nella chiesa, specialmente da parte di coloro cui è stato affidato il ministero dell'episkope, ha una dimensione radicalmente missionaria. L'autorità è esercitata nella chiesa per il bene di coloro che ne sono fuori, perché il Vangelo possa essere proclamato «con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione» (1Ts 1,5). Questa autorità rende la chiesa intera capace di incarnare il Vangelo e di diventare serva missionaria e profetica del Signore. 33. Gesù ha pregato il Padre perché i suoi seguaci potessero essere una cosa sola, «e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv 17,23). Quando i cristiani non sono d'accordo sul Vangelo stesso, la predicazione di esso è compromessa nella sua potenza. Quando non sono una cosa sola nella fede, non possono essere una cosa sola nella vita, e quindi non possono dimostrare in pienezza di essere fedeli alla volontà di Dio, che è la riconciliazione di tutte le cose al Padre per mezzo di Cristo (cf. Col 1,20). Finché la chiesa non vivrà come la comunità della riconciliazione che Dio la chiama a essere, essa non potrà degnamente predicare questo Vangelo o proclamare in maniera credibile il progetto di Dio di radunare il suo popolo disperso nell'unità sotto Cristo come Signore e salvatore (cf. Gv 11,52). Solo quando tutti i credenti saranno uniti nella celebrazione comune dell'eucaristia (cf. La chiesa come comunione, n. 24) il Dio il cui disegno è ricapitolare tutte le cose in Cristo (cf. Ef 1,10) sarà davvero glorificato dal popolo di Dio. La sfida e la responsabilità che incombono a coloro che hanno autorità nella chiesa è di esercitare il loro ministero così da promuovere l'unità della chiesa intera nella fede e nella vita in un modo che arricchisca _piuttosto che diminuire _ la legittima diversità delle chiese locali. La sinodalità: l'esercizio dell'autorità in comunione 34. In ogni chiesa locale tutti i fedeli sono chiamati a camminare insieme in Cristo. Il termine sinodalità (derivato da syn-hodos che significa «strada comune») indica il modo in cui i credenti e le chiese sono tenuti insieme in comunione quando agiscono così. Tale termine esprime la loro vocazione come popolo della Via (cf. At 9,2) a vivere, lavorare e camminare insieme in Cristo che è la Via (cf. Gv 14,6). Come i loro predecessori, seguono Gesù sulla via (cf. Mc 10,52) finchè egli non verrà di nuovo. 35. Lo Spirito è all’opera nella comunione delle chiese locali per formare ogni chiesa mediante la grazia della riconciliazione e della comunione in Cristo. Solo attraverso l'attività dello Spirito la chiesa locale può essere fedele all’«Amen» di Cristo e può essere inviata nel mondo per attrarre tutti gli uomini alla partecipazione a questo «Amen». Mediante questa presenza dello Spirito la chiesa locale è mantenuta nella Tradizione. Essa riceve e condivide la pienezza della fede apostolica e i mezzi della grazia. Lo Spirito conferma la chiesa locale nella verità in modo tale che la sua vita incarni la verità salvifica rivelata in Cristo. Di generazione in generazione l'autorità della Parola vivente deve essere resa presente nella chiesa locale in tutti gli aspetti della sua vita nel mondo. Il modo in cui è esercitata l'autorità nelle strutture e nella vita collettiva della chiesa deve essere reso conforme ai sentimenti di Cristo (cf. Fil 2,5). 36. Lo Spirito di Cristo conferisce a ciascun vescovo l'autorità pastorale necessaria per l'esercizio efficace dell'episkope in una chiesa locale. Questa autorità comprende necessariamente la responsabilità di assumere ed attuare le decisioni che sono richieste perché un vescovo possa adempiere al suo ufficio per il bene della koinonia. La sua natura vincolante è implicita nel compito del vescovo di insegnare la fede mediante la proclamazione e la spiegazione della parola di Dio, di provvedere alla celebrazione dei sacramenti e di mantenere la chiesa nella santità e nella verità. Le decisioni prese dal vescovo mentre esercita il suo compito hanno un'autorità che i fedeli hanno il dovere di ricevere e di accettare (cf. Autorità nella chiesa II, n. 17). In virtù del loro sensus fidei i fedeli sono capaci in coscienza sia di riconoscere Dio operante nell'esercizio dell'autorità del vescovo, sia di rispondervi come credenti. Questo è ciò che motiva la loro obbedienza, un'obbedienza figlia della fedeltà e non della schiavitù. La giurisdizione dei vescovi è unicamente conseguenza della chiamata che essi hanno ricevuto a guidare le loro chiese in un autoritativo «Amen»; non è potere arbitrario dato a una persona sulla libertà degli altri. Entro l’opera del sensus fidelium c'è un rapporto di complementarità tra il vescovo e il resto della comunità. Nella chiesa locale l'eucaristia è l'espressione fondamentale del camminare insieme (sinodalità) del popolo di Dio. In un dialogo intenso e devoto, il presidente guida i fedeli a pronunciare il loro «Amen» alla preghiera eucaristica. In unità di fede con il vescovo locale, il loro «Amen» è un memoriale vivente del grande «Amen» del Signore alla volontà del Padre. 37. La reciproca interdipendenza di tutte le chiese è parte integrante della realtà della chiesa come Dio vuole che sia. Nessuna chiesa locale che partecipa della Tradizione viva può considerarsi autosufficiente. Le forme di sinodalità, pertanto, sono necessarie per manifestare la comunione delle chiese locali e per sostenere ciascuna di esse nella fedeltà al Vangelo. Il ministero del vescovo è centrale, perché questo ministero serve la comunione all'interno delle chiese locali e tra di esse. La loro comunione reciproca si esprime attraverso l'incorporazione di ciascun vescovo in un collegio di vescovi. I vescovi sono, sia personalmente sia collegialmente, al servizio della comunione e sono impegnati nella sinodalità in tutte le sue espressioni. Queste espressioni hanno implicato una grande varietà di organi, di strumenti e di istituzioni, in particolare sinodi o concili locali, provinciali, mondiali, ecumenici. Il mantenimento della comunione pretende che a ogni livello vi sia la capacità di prendere quelle decisioni che sono appropriate a quel livello. Quando queste decisioni suscitano problemi gravi per la più ampia comunione delle chiese, la sinodalità deve trovare un'espressione più ampia. 38. In entrambe le comunioni, i vescovi si riuniscono collegialmente, non come individui ma come coloro che hanno autorità all'interno della vita sinodale e per la vita sinodale delle chiese locali. La consultazione dei fedeli è un aspetto della supervisione episcopale. Ciascun vescovo è sia voce della chiesa locale, sia colui attraverso il quale la chiesa locale impara dalle altre chiese. Quando i vescovi si consultano insieme, cercano sia di discernere sia di esprimere chiaramente il sensus fidelium come è presente nella chiesa locale e nella più ampia comunione delle chiese. Il loro ruolo è magisteriale: cioè, in questa comunione delle chiese sta a loro definire ciò che va insegnato come fedele alla Tradizione apostolica. I cattolici e gli anglicani condividono questa concezione della sinodalità, ma la esprimono in modi diversi. 39. Nella Chiesa d'Inghilterra, al tempo della Riforma inglese, la tradizione della sinodalità venne espressa attraverso l'uso sia dei sinodi (di vescovi e del clero) sia del Parlamento (comprendente vescovi e laici) per la definizione della liturgia, della dottrina e dell'ordinamento ecclesiastico. Venne riconosciuta anche l'autorità dei concili generali. Nella Comunione anglicana, nel corso del XIX secolo, ebbero origine nuove forme di sinodi e il ruolo dei laici nel processo decisionale da allora in poi è andato crescendo. Anche se vescovi, clero e laici si consultano a vicenda e legiferano insieme, resta distinta e centrale la responsabilità dei vescovi. In ogni parte della Comunione anglicana, i vescovi hanno una singolare responsabilità di supervisione. Per esempio, un sinodo diocesano può essere convocato solo dal vescovo, e le sue decisioni sono valide solo con il consenso del vescovo. A livello provinciale o nazionale, vi sono camere dei vescovi che esercitano un ministero distinto e singolare in relazione a materie di dottrina, di culto e di vita morale. Inoltre, anche se i sinodi anglicani fanno largo uso di procedure di tipo parlamentare, la loro natura è eucaristica. Questo è il motivo per cui il vescovo, in quanto presidente dell'eucaristia, propriamente presiede il sinodo diocesano che si riunisce per portare l'opera redentrice di Dio nel presente attraverso la vita e l'attività della chiesa locale. Inoltre, ogni vescovo non solo ha l'episkope sulla chiesa locale, ma partecipa alla cura di tutte le chiese. Tale esercizio avviene all'interno di ogni provincia della Comunione anglicana con l'aiuto di organi come le camere dei vescovi e i sinodi provinciali e generali. Nella Comunione anglicana nel suo complesso l'Assemblea dei primati, il Consiglio consultivo anglicano, la Conferenza di Lambeth e l'arcivescovo di Canterbury servono come strumenti della sinodalità. 40. Nella Chiesa cattolica romana la tradizione della sinodalità non è finita. Dopo la Riforma, hanno continuato a essere tenuti di tanto in tanto, in diocesi e regioni diverse, sinodi dei vescovi e del clero, e a livello ecumenico sono stati tenuti tre concili. Alla fine del secolo scorso sono apparse specifiche assemblee di vescovi e conferenze episcopali come mezzi di consultazione, per consentire alle chiese locali di una determinata regione di affrontare insieme le esigenze della loro missione e di trattare situazioni pastorali nuove. A partire dal concilio Vaticano II sono diventate una struttura ordinaria a livello nazionale e regionale. Con una decisione sostenuta dai padri conciliari, papa Paolo VI istituì il Sinodo dei vescovi per trattare problemi riguardanti la missione della chiesa nel mondo. L'antica consuetudine delle visite ad limina alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo e al vescovo di Roma è stata ripristinata attraverso visite non solo a livello di singoli vescovi ma in gruppi regionali. L'uso più recente delle visite del vescovo di Roma alle chiese locali ha cercato di promuovere un senso più profondo della loro appartenenza alla comunione delle chiese, e di aiutarle a essere più consapevoli della situazione delle altre. Tutte queste istituzioni sinodali offrono la possibilità di una crescente consapevolezza, sia da parte dei vescovi locali sia del vescovo di Roma, che vi sono modi di operare insieme in una comunione più intensa. Completando questa sinodalità collegiale, una crescita nella sinodalità al livello locale sta promuovendo la partecipazione attiva dei laici alla vita e alla missione della chiesa locale. Perseveranza nella verità: l'esercizio dell'autorità nell'insegnamento 41. In ogni epoca i cristiani hanno detto «Amen» alla promessa di Cristo che lo Spirito guiderà la sua chiesa alla verità tutta intera. Il Nuovo Testamento spesso riecheggia questa promessa facendo riferimento al coraggio, alla fiducia e alla certezza che i cristiani possono vantare (cf. Lc 1,4; 1 Ts 2,2; Ef 3,2; Eb 11,1). Nella loro preoccupazione di rendere il Vangelo accessibile a tutti coloro che sono disposti ad accoglierlo, coloro che hanno la responsabilità del ministero della memoria e dell'insegnamento hanno accettato espressioni della fede nuove e fino a quel momento poco comuni. Alcune di queste formulazioni hanno inizialmente generato dubbi e disaccordi sulla loro fedeltà alla Tradizione apostolica. Nel processo di verifica di tali formulazioni la chiesa si è mossa con prudenza, ma confidando nella promessa di Cristo che essa persevererà e sarà custodita nella verità (cf. Mt 16,18; Gv 16,13). Questo è ciò che si intende per indefettibilità della chiesa (cf. Autorità nella chiesa I, n. 18; Autorità nella chiesa II, n. 23). 42. Nella sua vita che procede, la chiesa cerca e riceve la guida dello Spirito Santo che mantiene il suo insegnamento fedele alla Tradizione apostolica. Entro l'intero corpo, spetta al collegio dei vescovi esercitare il ministero della memoria a questo scopo. Sta a loro discernere e impartire quell'insegnamento che può essere accolto con fiducia perché esprime con sicurezza la verità di Dio. In alcune situazioni, ci potrà essere un bisogno urgente di verificare nuove formulazioni di fede. In circostanze specifiche, coloro che rivestono questo ministero di supervisione (episkope), assistiti dallo Spirito Santo, possono giungere insieme a un giudizio che, essendo fedele alla Scrittura e coerente con la Tradizione apostolica, è preservato dall'errore. Mediante tale giudizio, che è un'espressione rinnovata dell'unico «sì» di Dio in Gesù Cristo, la chiesa è custodita nella verità così che essa possa continuare a offrire il suo «Amen» alla gloria di Dio. Questo è ciò che si intende quando si afferma che la chiesa può insegnare infallibilmente (cf. Autorità nella chiesa II, nn. 24-28.32). Tale insegnamento infallibile è al servizio della indefettibilità della chiesa. 43. L'esercizio dell'autorità di insegnare nella chiesa, specialmente in situazioni di difficoltà, richiede la partecipazione, nei loro modi peculiari, dell'intero corpo dei credenti, non solo di coloro che hanno la responsabilità del ministero della memoria. In questa partecipazione è all'opera il sensus fidelium. Dal momento che è in gioco la fedeltà dell'intero popolo di Dio, la recezione dell'insegnamento è parte integrante del processo. Le definizioni dottrinali sono recepite come autoritative (authoritative) in virtù della verità divina che esse proclamano, e anche a motivo dell'ufficio specifico della persona o delle persone che le proclamano all'interno del sensus fidei dell'intero popolo di Dio. Quando il popolo di Dio risponde per fede e dice «Amen» all'insegnamento autoritativo, è perché esso riconosce che questo insegnamento esprime la fede apostolica e agisce nell'autorità e nella verità di Cristo, il capo della chiesa.2 La verità e l'autorità del suo capo è la fonte dell'insegnamento infallibile nel corpo di Cristo. Il «sì» di Dio rivelato in Cristo è il criterio con il quale tale insegnamento autoritativo viene giudicato. Tale insegnamento va accolto con gioia dal popolo di Dio come un dono dello Spirito Santo per custodire la chiesa nella verità di Cristo, il nostro «Amen» a Dio. 44. Il dovere di custodire la chiesa nella verità è una delle funzioni essenziali del collegio episcopale. Esso ha il potere di esercitare questo ministero perché è legato nella successione agli apostoli, che erano il corpo autorizzato e inviato da Cristo a predicare il Vangelo a tutte le nazioni. L'autoritatività dell'insegnamento di un singolo vescovo è evidente quando questo insegnamento è in solidarietà con quello dell'intero collegio episcopale. L'esercizio di questa autorità di insegnare richiede che ciò che viene insegnato sia fedele alla sacra Scrittura e coerente con la Tradizione apostolica. È quanto espresso dall'insegnamento del concilio Vaticano II: «Il magistero però non è al di sopra della parola di Dio, ma la serve» (costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina rivelazione, n. 10; EV 1/887). Il primato: l'esercizio dell'autorità nella collegialità e nella conciliarità 45. Nel corso della storia la sinodalità della chiesa è stata servita mediante l'autorità conciliare, collegiale e primaziale. Esistono forme di primato sia nella Comunione anglicana sia nelle chiese in comunione con il vescovo di Roma. Tra queste ultime, l'ufficio dell'arcivescovo metropolita o del patriarca di una chiesa cattolica orientale è primaziale per natura. Ogni provincia ecclesiastica anglicana ha il suo primate, e l'Assemblea dei primati serve l'intera Comunione. L'arcivescovo di Canterbury esercita un ministero primaziale per l'intera Comunione anglicana. 46. L'ARCIC ha già riconosciuto che «il modello di complementarietà tra gli aspetti primaziali e conciliari dell'episkope al servizio della koinonia delle chiese deve essere realizzato sul piano universale» (Autorità nella chiesa I, n. 23; EO 1/88). Le esigenze della vita ecclesiale richiedono un esercizio specifico dell'episkope al servizio della chiesa intera. Nel modello che si trova nel Nuovo Testamento uno dei dodici è scelto da Gesù Cristo per confermare gli altri, così che essi possano restare fedeli alla loro missione e in armonia l'uno con l'altro (vedi la discussione dei testi petrini in Autorità nella chiesa II, nn. 2-5). Agostino di Ippona ha espresso molto bene il rapporto esistente tra Pietro, gli altri apostoli e la chiesa intera quando ha detto: «Non ricevette infatti queste chiavi un solo uomo, ma la Chiesa nella sua unità. In forza di ciò, quindi, si celebra la riconosciuta preminenza di Pietro, in quanto rappresentò la chiesa nella sua stessa universalità ed unità allora che gli fu detto: A te consegno quello che fu dato a tutti. Perché dunque possiate comprendere che la chiesa ha ricevuto le chiavi del regno dei cieli, desunto da un altro passo, ascoltate che cosa il Signore vuol dire a tutti i suoi apostoli: Ricevete lo Spirito Santo. E immediatamente: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi (Gv 20,22-23). Questo è in rapporto alle chiavi delle quali fu detto: Tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo; e tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo (Mt 16,19). Ma disse questo a Pietro…Pietro impersonava allora la chiesa universale» (Discorso 295, Nel Natale degli Apostoli Pietro e Paolo).3 L'ARCIC ha anche esaminato a suo tempo la trasmissione del ministero primaziale esercitato dal vescovo di Roma (cf. Autorità nella chiesa II, nn. 6-9). Storicamente, il Vescovo di Roma ha esercitato tale ministero sia a beneficio della chiesa intera, come quando Leone I Magno diede il suo contributo al concilio di Calcedonia, sia a beneficio di una chiesa locale, come quando Gregorio Magno sostenne la missione di Agostino di Canterbury e l'ordinamento della chiesa inglese. Questo dono è stato accolto con grande favore e il ministero di questi vescovi di Roma continua a essere celebrato a livello liturgico sia dagli anglicani sia dai cattolici. 47. Entro il suo più ampio ministero, il vescovo di Roma offre un ministero specifico riguardante il discernimento della verità, come un'espressione del primato universale. Questo servizio particolare è stato fonte di difficoltà e di fraintendimenti tra le chiese. Ogni definizione solenne pronunciata dalla cattedra di Pietro nella chiesa di Pietro e Paolo può, tuttavia, esprimere solo la fede della chiesa. Qualsiasi definizione del genere è pronunciata all'interno del collegio di coloro che esercitano l'episkope e non al di fuori di quel collegio. Tale insegnamento autoritativo è un esercizio particolare della vocazione e della responsabilità del corpo dei vescovi di insegnare e confermare la fede. Quando la fede è espressa in questo modo, il vescovo di Roma proclama la fede delle chiese locali. Quindi nel giudizio del primate universale è in atto l'insegnamento totalmente affidabile della chiesa intera. Nel formulare solennemente tale insegnamento, il primate universale deve discernere e proclamare, con l'assistenza e la guida dello Spirito Santo che gli sono assicurate, in fedeltà alla Scrittura e alla Tradizione, la fede autoritativa della chiesa intera, ossia, la fede proclamata fin dal principio. Ogni vescovo esprime con il corpo dei vescovi in concilio questa fede, la fede di tutti i battezzati in comunione, e questa soltanto. È questa la fede che il vescovo di Roma in determinate circostanze ha il dovere di discernere e di rendere esplicita. Questa forma di insegnamento autoritativo non ha una garanzia più solida dallo Spirito di quella che hanno le definizioni solenni dei concili ecumenici. La recezione del primato del vescovo di Roma implica il riconoscimento di questo specifico ministero del primate universale. Noi crediamo che questo dono vada recepito da tutte le chiese. 48. I ministri che Dio dà alla chiesa per sostenere la sua vita sono segnati dalla fragilità: «Perciò, investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d'animo…Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4,1; 4,7). È chiaro che solo per la grazia di Dio l'esercizio dell'autorità nella comunione della chiesa porta i segni dell'autorità propria di Cristo. Questa autorità è esercitata da cristiani fragili per il bene di altri cristiani fragili. Questo non è meno vero per il ministero di Pietro: «Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32; cf. Gv 21,15-19). Papa Giovanni Paolo II chiarisce questa idea nell'enciclica Ut unum sint: «Io svolgo [questo impegno] con la convinzione profonda di ubbidire al Signore e con la piena consapevolezza della mia umana fragilità. Infatti, se Cristo stesso ha affidato a Pietro questa speciale missione nella chiesa e gli ha raccomandato di confermare i fratelli, Egli gli ha fatto conoscere allo stesso tempo la sua debolezza umana ed il suo particolare bisogno di conversione» (Ut unum sint, n. 4; EV 14/2673). La debolezza e il peccato dell'essere umano non toccano solo i singoli ministri: possono stravolgere le strutture umane dell'autorità (cf. Mt 23). Perciò la critica leale e le riforme sono talvolta necessarie, seguendo l'esempio di Paolo (cf. Gal 2,11-14). La coscienza della fragilità umana nell'esercizio dell'autorità assicura che i ministri cristiani rimangano aperti alla critica e al rinnovamento e soprattutto a un esercizio dell'autorità secondo l'esempio e i sentimenti di Cristo. La disciplina: l'esercizio dell'autorità e la libertà di coscienza 49. L'esercizio dell'autorità nella chiesa va riconosciuto e accettato come uno strumento dello Spirito di Dio per la guarigione dell'umanità. L'esercizio dell'autorità deve sempre rispettare la coscienza, perché l'opera divina della salvezza afferma la libertà della persona umana. Nell'accogliere liberamente la via della salvezza offerta mediante il battesimo, il discepolo cristiano liberamente accetta anche la disciplina di membro del corpo di Cristo. Poiché la chiesa di Dio è riconosciuta come la comunità in cui sono all'opera i mezzi divini della salvezza, le esigenze della sequela per il bene dell'intera comunità cristiana non possono essere rifiutate. Anche nell'esercizio dell'autorità è richiesta una disciplina. Coloro che sono chiamati a tale ministero devono essi stessi sottomettersi alla disciplina di Cristo, osservare le esigenze della collegialità e del bene comune, e rispettare debitamente le coscienze di coloro che sono chiamati a servire. L’«Amen» della chiesa al «sì» di Dio nel Vangelo 50. Siamo giunti a una comprensione condivisa dell'autorità considerandola, nella fede, come una manifestazione del «sì» di Dio alla sua creazione, che suscita l’«Amen» delle sue creature. Dio è la fonte dell'autorità, e il retto esercizio dell'autorità è sempre ordinato al bene comune e al bene della persona. In un mondo lacerato, e a una chiesa divisa, il «sì» di Dio in Gesù Cristo porta la realtà della riconciliazione, la chiamata alla sequela, e un'anticipazione del fine ultimo dell'umanità, quando per mezzo dello Spirito tutti e tutto in Cristo pronunceranno il loro «Amen» alla gloria di Dio. Il «sì» di Dio, incarnato in Cristo, è recepito nella proclamazione e nella Tradizione del Vangelo, nella vita sacramentale della chiesa e nei modi in cui è esercitata l'episkope. Quando le chiese, attraverso il loro esercizio dell'autorità, rendono manifesta la potenza risanatrice e riconciliante del Vangelo, allora viene offerta a tutto il mondo la visione di ciò che Dio vuole per tutto il creato. Il fine dell'esercizio dell'autorità e quello della sua recezione è rendere la chiesa capace di dire «Amen» al «sì» di Dio nel Vangelo.
IV. ACCORDO NELL' ESERCIZIO DELL'AUTORITA': PASSI VERSO L'UNITA' VISIBILE 51. Sottoponiamo questa dichiarazione comune sull'autorità nella chiesa alle nostre rispettive autorità. Riteniamo che se questa dichiarazione sulla natura dell'autorità e sul modo di esercitarla sarà accolta e messa in pratica, tale questione non sarà più tra le cause della persistente rottura della comunione tra le nostre due chiese. Pertanto, presentiamo qui di seguito alcune degli elementi di questo accordo, i recenti sviluppi significativi in ciascuna delle nostre comunità e alcuni problemi che esse devono ancora affrontare. Poiché ci stiamo muovendo verso la piena comunione ecclesiale, proponiamo dei modi in cui la nostra attuale comunione, sebbene imperfetta, potrà essere resa più visibile attraverso l'esercizio di una rinnovata collegialità tra i vescovi e un esercizio e una recezione rinnovati del primato universale. Progressi nell'accordo 52. La Commissione è dell'opinione che abbiamo approfondito e ampliato il nostro accordo su:
Sviluppi significativi in ambedue le comunioni 53. La Conferenza di Lambeth del 1988 ha riconosciuto la necessità di riflettere su come la Comunione anglicana elabora le decisioni autoritativhe. Al livello internazionale, gli strumenti anglicani della sinodalità hanno una considerevole autorità con cui influenzare e sostenere le province, tuttavia nessuno di questi strumenti ha il potere di annullare una decisione provinciale, anche se essa minaccia l'unità della Comunione. Di conseguenza, la Conferenza di Lambeth del 1998, alla luce del Rapporto di Virginia della Commissione dottrinale e teologica interanglicana, ha deliberato di potenziare questi strumenti in vari modi, in particolare il ruolo dell'arcivescovo di Canterbury e dell'Assemblea dei primati. La Conferenza ha anche richiesto all'Assemblea dei primati di avviare uno studio in ogni provincia per verificare «se l'effettiva comunione, a tutti i livelli, non richieda strumenti appropriati, con le dovute cautele, non solo a livello legislativo ma anche a livello di supervisione…nonché sul punto di un ministero universale a servizio dell'unità dei cristiani» (Risoluzione III, 8h; Regno-doc. 17,1998,585). Accanto all'autonomia delle province, gli anglicani stanno arrivando a comprendere che per promuovere la comunione è necessaria anche l'interdipendenza tra le chiese locali e tra le province. 54. La Chiesa cattolica romana, specialmente a partire dal concilio Vaticano II, è andata gradualmente sviluppando strutture sinodali per sostenere in modo più efficace la koinonia. Il successivo sviluppo del ruolo delle conferenze episcopali nazionali e regionali e la periodica convocazione di Assemblee generali del sinodo dei vescovi sono la dimostrazione di questa evoluzione. C'è stato anche un rinnovamento nell'esercizio della sinodalità a livello locale, anche se questo dato varia da luogo a luogo. La legislazione canonica ora richiede che donne e uomini laici, religiosi e religiose, diaconi e presbiteri partecipino ai consigli pastorali diocesani e parrocchiali, ai sinodi diocesani e ad una varietà di altri organismi, ogni volta che questi sono convocati. 55. Nella Comunione anglicana c'è una tensione verso strutture universali che promuovano la koinonia, e nella Chiesa cattolica romana un potenziamento delle strutture locali e intermedie. Secondo noi questi sviluppi riflettono una crescente consapevolezza condivisa che l'autorità nella chiesa ha bisogno di essere rettamente esercitata a tutti i livelli. Ciononostante vi sono ancora problemi che devono essere affrontati dagli anglicani e dai cattolici su aspetti importanti dell'esercizio dell'autorità al servizio della koinonia. La Commissione pone esplicitamente alcune domande, ma nella convinzione che per rispondere abbiamo bisogno del sostegno reciproco. Crediamo che nella situazione dinamica e fluida in cui queste domande vengono poste, il tentativo di trovare le risposte deve procedere in parallelo allo sviluppo di passi ulteriori verso un esercizio condiviso dell'autorità. I problemi degli anglicani 56. Abbiamo visto che per sostenere la comunione sono necessari a tutti i livelli degli strumenti per la supervisione e il processo decisionale. In considerazione di questo la Comunione anglicana sta esaminando lo sviluppo di strutture di autorità tra le sue province. La Comunione è disposta anche ad accettare strumenti di supervisione che consentano di prendere decisioni che, in certe circostanze, siano vincolanti per la chiesa intera? Quando sorgessero nuovi gravi problemi che, nella fedeltà alla Scrittura e alla Tradizione, richiedano una risposta congiunta, queste strutture aiuteranno gli anglicani a partecipare al sensus fidelium con tutti i cristiani? Fino a che punto un'azione unilaterale da parte di province o di diocesi in materie riguardanti la chiesa intera, anche dopo che ha avuto luogo una consultazione, potrà indebolire la koinonia? Gli anglicani si sono mostrati disposti a tollerare anomalie pur di conservare la comunione. Tuttavia questo ha provocato il deterioramento della comunione, che si è manifestato nell'eucaristia, nell'esercizio dell'episkope e nell’intercambiabilità del ministero. Quali conseguenze ne derivano? Soprattutto, in che modo gli anglicani affronteranno la questione del primato universale quale sta emergendo dalla loro vita insieme e dal dialogo ecumenico? I problemi dei cattolici 57. Il concilio Vaticano II ha ricordato ai cattolici che i doni di Dio sono presenti in tutto il popolo di Dio. Ha anche insegnato la collegialità dell'episcopato in comunione con il vescovo di Roma, capo del collegio. Tuttavia, esiste a tutti i livelli una partecipazione effettiva del clero nonché dei laici agli organi sinodali emergenti? L'insegnamento del concilio Vaticano II sulla collegialità dei vescovi è stato sufficientemente messo in pratica? Le azioni dei vescovi riflettono una sufficiente consapevolezza del grado di autorità che essi ricevono attraverso l'ordinazione per il governo della chiesa locale? È stato fatto abbastanza per assicurare la consultazione tra il vescovo di Roma e le chiese locali prima che vengano prese importanti decisioni che interessano una chiesa locale o la chiesa intera? Quant'è ampia la gamma delle opinioni teologiche considerate quando vengono prese tali decisioni? Nel sostenere il vescovo di Roma nell'opera di promozione della comunione tra le chiese, le strutture e le procedure della curia romana rispettano in maniera adeguata l'esercizio dell'episkope agli altri livelli? Soprattutto, in che modo la Chiesa cattolica romana affronterà il problema del primato universale quale emerge dal «dialogo fraterno, paziente» sull'esercizio dell'ufficio del vescovo di Roma al quale Giovanni Paolo II ha invitato «i responsabili ecclesiali e i loro teologi»? Collegialità rinnovata: rendere visibile la comunione che esiste tra noi 58. Gli anglicani e i cattolici stanno già affrontando questi problemi, ma per la loro soluzione potrà occorrere del tempo. Tuttavia, non c'è alcun ripensamento nel nostro cammino verso la piena comunione ecclesiale. Alla luce del nostro accordo la Commissione ritiene che le nostre due comunioni dovranno rendere più visibile la koinonia che già abbiamo. Il dialogo teologico deve continuare a tutti i livelli nelle chiese, ma da solo non è sufficiente. Per il bene della koinonia e di una testimonianza cristiana unita di fronte al mondo, i vescovi anglicani e cattolici dovranno trovare dei modi di cooperazione e di sviluppo di relazioni di reciproca responsabilità nel loro esercizio della supervisione. In questa nuova fase noi non dobbiamo solo fare insieme tutto quello che possiamo, ma anche essere insieme tutto quello che la koinonia che esiste tra di noi consente. 59. Tale cooperazione nell'esercizio dell'episkope implica che i vescovi si incontrino regolarmente insieme a livello regionale e locale e che i vescovi appartenenti a una comunione partecipino agli incontri internazionali dei vescovi dell'altra comunione. Si dovrà anche prendere in seria considerazione l'associazione dei vescovi anglicani ai vescovi cattolici nelle visite ad limina a Roma. Dovunque fosse possibile, i vescovi dovranno cogliere l'opportunità di insegnare e di agire in materie di fede e di costumi. Dovranno anche testimoniare insieme nella sfera pubblica su questioni che interessino il bene comune. Aspetti pratici specifici della condivisione dell'episkope emergeranno poi dalle iniziative locali. Il primato universale: un dono che va condiviso 60. Il lavoro della Commissione ha prodotto un accordo sufficiente sul primato universale come un dono che va condiviso e ci ha portato a proporre che tale primato possa essere offerto e recepito anche prima che le nostre chiese siano in piena comunione. Sia i cattolici sia gli anglicani pensano a questo ministero esercitato nella collegialità e nella sinodalità – un ministero di servus servorum Dei (Gregorio Magno, citato in Ut unum sint, n. 88). Immaginiamo un primato che possa aiutarci anche adesso a sostenere la legittima diversità delle tradizioni, rafforzandole e salvaguardandole nella fedeltà al Vangelo. Sarà di incoraggiamento alle chiese nella loro missione. Un tal genere di primato aiuta già la chiesa sulla terra ad essere l'autoritativa koinonia cattolica nella quale l'unità non sminuisce la diversità, e la diversità non mette in pericolo ma accresce l'unità. Per tutti i cristiani sarà un segno efficace del modo in cui questo dono di Dio edifica quell'unità per la quale Cristo ha pregato. 61. Tale primate universale eserciterà la leadership nel mondo e anche in ambedue le comunioni, rivolgendosi a esse in un modo profetico. Egli promuoverà il bene comune in modi non condizionati da interessi di parte, e offrirà un ministero di insegnamento permanente e distinto, affrontando in particolare questioni teologiche e morali complesse. Un primato universale che abbia questo stile accoglierà con favore e promuoverà l'indagine teologica ed altre forme di ricerca della verità, così che i loro risultati possano arricchire e rafforzare sia la sapienza umana sia la fede della chiesa. Tale primato universale potrebbe radunare le chiese in vari modi per la consultazione e la discussione. 62. Un'esperienza di primato universale di questo tipo confermerebbe due conclusioni particolari che abbiamo raggiunto:
63. Quando la comunione reale sebbene imperfetta tra di noi è resa più visibile, si amplia e si rafforza la trama dell'unità che è intessuta dalla comunione con Dio e dalla riconciliazione tra gli uni e gli altri. In tal modo, l’«Amen» che gli anglicani e i cattolici dicono all'unico Signore si avvicina a essere un «Amen» detto insieme dall'unico popolo santo che rende testimonianza della salvezza e dell'amore riconciliante di Dio in un mondo lacerato.
Commissione internazionale anglicana - cattolica romana
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