Aveva 24 anni Emmanuel Anati quando, giovane archeologo , si imbattè per la prima volta
nell'Har Karkom, un monte nel cuore del deserto del Negev, in territorio israeliano.
Quell'altura brulla, nel mezzo di un panorama immenso dove lo sguardo spazia dal Mar Morto
alle montagne di Moab, lo affascinò fin dal primo momento. «C'erano - racconta oggi,
settantenne - graffiti singolari con immagini di stambecchi, e di uomini in preghiera. In
adorazione non di una figura, della luna o del sole, ma di un segno aniconico: una
semplice linea, un'entità non rappresentata; e questa fu la cosa che più mi colpì».
Anati non sapeva che su quel monte sarebbe tornato molti anni dopo, nel 1980, a capo della
Missione archeologica italiana. E che l'Har Karkom avrebbe segnato la sua vita di
studioso. In questo inizio del Duemila l'archeologo presenta a Parigi, il 24 gennaio, il
suo ultimo libro, Les mistères du Mont Sinai (edito da Bayard), dove elenca tutti
gli elementi che provano ciò di cui Anati è ormai convinto: Har Karkom è il vero monte
Sinai, è la montagna sacra di Mosè, il cuore della tradizione ebraico cristiana. Il 29
gennaio invece riceve il prestigioso premio Nonino: «A un maestro del nostro tempo, per
il suo lavoro che ci sta rivelando le nostre più profonde radici e quindi la nostra
eredità culturale; per la ipotesi da lui formulata di una religione originaria comune a
tutte le genti, straordinario messaggio contro ogni genere di intolleranza», si legge
nella motivazione.
Un'affermazione esplosiva, quel dire che il monte Sinai non è dove lo si crede, poco a
Nord del Mar Rosso, dove lo individuarono i cavalieri occidentali in epoca bizantina.
Un'affermazione, dice Anati, «a lungo strenuamente contestata dai miei colleghi, e ancora
lontana dall'essere universalmente condivisa. Adesso, su questo tema c'è una tregua e
direi quasi l'inizio di una "canonizzazione"della mia ipotesi. Del resto, in
campo archeologico, i tempi per riconoscere una verità sono dell'ordine di decenni».
Ma i ritrovamenti che depongono a favore della ipotesi di Anati si sono andati accumulando
nel corso degli anni. «Per primi - racconta - trovammo l'altare e i dodici cippi, alla
base del monte. Quei dodici cippi che sono citati nelle pagine della Bibbia. Poi, a
sessanta metri di distanza, i resti di un accampamento dell'età del bronzo. Anche di
questo si legge nell'Antico Testamento. Ma non basta: abbiamo individuato anche quella
piccola grotta sulla vetta della montagna, dove secondo la storia sacra Mosè dovette
infilare il capo, per non vedere il volto di Dio. Già a questo punto le coincidenze erano
impressionanti. Ma l'anno scorso la nostra missione ha fatto l'ultima scoperta, che
ritengo decisiva. Abbiamo scavato in corrispondenza di un tumulo prominente. Credevamo di
trovare la tomba di un personaggio famoso. Era invece un tumulo dedicatorio. Al centro, un
altare, sotto, i resti di un fuoco. Sull'altare una pietra a forma di mezzaluna, bianca,
lunga 60 centimetri, pesante 44 chili. Il simbolo del dio della Luna. E' stata una
rivelazione: nella cultura mesopotamica, il dio della Luna è Sin. Sinai è dunque una
forma attributiva, equivalente a "di Sin". Dei popoli mesopotamici, riteniamo
all'inizio del terzo millennio avanti Cristo, avevano dunque dedicato l'Har Karkom al dio
Sin. Questo spiega anche gli stambecchi sui graffiti: lo stambecco, l'animale sacro a Sin.
Quello era dunque il vero Sinai, montagna sacra già mille anni prima di Mosè».
Il professore racconta e lo si ascolta emozionati. Il luogo dell'incontro fra Mosè e Dio,
il cuore di millenni di storia ebraica e cristiana sarebbe dunque un punto preciso sulla
carta geografica. «Io ne sono convinto» dice l'archeologo, e sembra quasi percepire
l'esitazione dell'interlocutore. Non siamo come implicitamente abituati a pensare a Mosè
e al suo incontro come a un mito? «Anche io - dice Anati - consideravo la Bibbia
come una narrazione nobile, immensa, ma nella dimensione del mito. Invece la Bibbia, che
pure per secoli è stata tramandata oralmente, che è passata attraverso l'interpolazione
di generazioni di "trovatori", contiene un fondamento di realtà. Tra le righe,
ci sono gli elementi di una testimonianza storica».
Parole che colpiscono, che pesano. Lo sa bene il professore: «In un tempo in cui tutto
sembra in discussione, e ancora più le nostre tradizioni culturali e religiose, è come
una cura ricostituente pensare che quel monte c'è davvero, che ci sono i cippi,
l'accampamento, la grotta, tutto come è scritto...».
Già, perchè i miti sono una cosa, e la storia tutta un'altra. La storia è solida, ci si
può attaccare. Colpisce poi la sintonia di quest'ultima scoperta - la coincidenza nello
stesso luogo del monte sacro per le popolazioni mesopotamiche e, mille anni dopo, per
Israele - con la grande ipotesi di Anati, quella di un'unica religione originaria comune a
tutta l'umanità (vedi Avvenire del 19 giugno 1999, ndr). Una piccola popolazione
risalente a 50 mila anni fa, ha scritto lo studioso confrontando dati e ritrovamenti di
tutto il mondo, avrebbe vissuto in Medio Oriente o nel Nord Africa e di qui si sarebbe
lentamente diffusa in tutto il mondo. Importando ovunque gli elementi di una religiosità
primordiale che secondo Anati si ritrovano simili in modo sconcertante in luoghi divisi da
migliaia di chilometri. Da Queensland, Australia, alla Patagonia, nei graffiti delle
caverne sono rimasti simboli incredibilmente simili, tracce di una scomparsa religione
madre.
E ora, l'affermazione che il "vero" monte Sinai era già sacro a popoli più
antichi, mille anni prima; sacro, forse, da tempi immemorabili. Di generazione in
generazione, gli uomini andavano lì per adorare un dio ignoto, di cui non osavano
all'inizio tracciare un'immagine. Su quel monte, arrivò Mosè, arrivò Israele. Su quel
monte, dopo millenni di attesa, il Dio sconosciuto si rivelò agli uomini? I dodici cippi,
l'altare, l'accampamento, la grotta sono lì, in mezzo al Negev: domande silenziose,
enigmi immobili a interrogarci.
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