La Chiesa e i divorziati Un peccato imperdonabile? di Giovanni Ferrò e Vittoria Prisciandaro Un matrimonio su cinque va in crisi. Con queste cifre si capisce perché quella dei divorziati è, anche dal punto di vista teologico e pastorale, una questione scottante, con la quale la Chiesa ha il dovere di fare lealmente i conti.
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Maria
Vittoria Collenghi insegnava religione in una scuola media della cintura di Torino. Era
brava, dicevano gli altri professori. Gli studenti le volevano bene, faceva anche
volontariato in un gruppo cristiano della città. Questanno però Maria Vittoria ha
perso il lavoro. La Curia della diocesi piemontese le ha tolto lincarico. Il motivo?
«Non ha rispettato uno dei requisiti necessari, quello della testimonianza di vita
cristiana». Detta in parole più semplici: Maria Vittoria, 51 anni, separata da tempo,
aveva trovato un nuovo compagno con cui dividere la vita. Il caso di questa insegnante di religione torinese, esploso qualche mese fa, ha provocato sulla stampa dibattiti e polemiche. Ma non è una storia nuova né isolata. È piuttosto lultimo esempio in ordine di tempo di un dramma antico, lincomprensione tra la Chiesa e i divorziati credenti. Apparentemente, la questione del divorzio e delle seconde nozze è semplice. Lindissolubilità del matrimonio, infatti, è un comandamento evangelico fondato sulle parole di Gesù: «Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie... e ne sposa unaltra commette adulterio» (Matteo 19,9). Sulle questioni dottrinali, però, lapparenza talvolta inganna. La faccenda è decisamente più complicata di quanto appaia. Tantè che un gran numero di teologi cattolici continuano a interrogarsi sulla questione della distruzione del matrimonio sacramentale, con tutte le sue conseguenze, compresa la sorte dei coniugi separati che desiderassero delle seconde nozze. Vari episcopati nazionali hanno dovuto emanare regolamenti o documenti pastorali. E anche il Vaticano sente periodicamente la necessità di tornare sullargomento per ribadire la posizione della Chiesa. Il Magistero, specialmente a partire dalla Familiaris consortio del 1981, si è andato precisando in maniera sempre più netta: il matrimonio sacramentale, se «valido» dal punto di vista canonico, è indissolubile. Né la Chiesa né il Papa hanno la potestà di cambiare questa legge che, appunto, deriva dalle ipsissima verba del Signore. Ragion per cui i divorziati risposati, pur non essendo esclusi completamente dalla comunità ecclesiale, non possono accostarsi allEucaristia. Non possono fare i catechisti in parrocchia o gli insegnanti di religione nelle scuole. Non possono fare da padrini nei battesimi e nelle cresime. Non possono essere membri di consigli pastorali parrocchiali o diocesani. Tutto risolto e caso archiviato, dunque? Pare proprio di no. Nelle nostre società occidentali il numero dei divorzi continua a crescere. In Italia erano 14.460 nel 1982, mentre quindici anni dopo, nel 1997, erano 33.342. Per non parlare delle separazioni legali: nel 1977 erano soltanto 7 su 100 matrimoni celebrati nello stesso anno; nel 1997 erano 22 ogni 100. Praticamente un matrimonio su cinque va in crisi. Con queste cifre si capisce perché quella dei divorziati, anche dal punto di vista teologico e pastorale, rimanga una questione scottante. E si capisce, soprattutto, perché anche le massime autorità della Chiesa sentano il dovere di fare i conti lealmente con un nodo delicato dal punto di vista dottrinale, ma anche sovraccarico delle sofferenze e dei dilemmi che riguardano centinaia di credenti. Ultimamente, a gettare il sasso nello stagno è stato il cardinale Joseph Ratzinger. Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha firmato unintroduzione a un volumetto che raccoglie studi e contributi Sulla pastorale dei divorziati risposati (Libreria editrice vaticana, 1998). E ha fatto colpo sulla stampa internazionale. Nel suo intervento, Ratzinger ribadisce e precisa la tradizionale posizione della Chiesa. Ma poi aggiunge una considerazione che a molti è sembrata unapertura: «Ulteriori studi approfonditi», afferma il cardinale, «esige la questione se cristiani non credenti battezzati che non hanno mai creduto o non credono più in Dio veramente possano contrarre un matrimonio sacramentale. In altre parole: si dovrebbe chiarire se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è ipso facto un matrimonio sacramentale». Il ragionamento del prefetto è questo: dal momento che la fede è parte dellessenza del sacramento, «levidenza della non fede» ha come conseguenza che il sacramento non si realizzi. E visto che, secondo il Codice di diritto canonico del 1983, «anche le dichiarazioni delle parti hanno forza probante», non è impensabile che in un prossimo futuro, per ottenere la dichiarazione di nullità del matrimonio da un tribunale ecclesiastico, i coniugi possano presentarsi con una dichiarazione in cui affermano che al momento del "sì" allaltare non avevano la fede. Le parole di Ratzinger sono misurate e prudenti. Richiamano alla necessità di nuovi «studi approfonditi». Ma se questa ipotesi passasse, sarebbe una rivoluzione. Basta fare qualche calcolo "a spanne": in Italia circa l80% dei matrimoni viene celebrato con rito religioso; è noto che i credenti praticanti sono circa il 30% della popolazione. Ne consegue che migliaia di coppie sposate in chiesa quantomeno tutti coloro che fossero disposti ad affermare pubblicamente di non credere in Dio avrebbero buone probabilità di ottenere la dichiarazione di nullità del proprio matrimonio da parte di un tribunale rotale. Come è stato accolto negli ambienti teologici italiani lintervento del cardinale? E a che punto è il dibattito oggi? Don Franco Ardusso, docente alla Facoltà teologica di Torino, dice: «Lapertura del cardinale non è del tutto una novità, dal momento che se è vero che i sacramenti sono sacramenti della fede, è chiaro che se non cè fede non può esserci neppure sacramento. In passato si presumeva che due battezzati che desideravano sposarsi in chiesa fossero sempre dei credenti. In realtà, oggi, questa è unipotesi tutta da verificare. Certo, bisognerebbe fare la verifica prima di celebrare il matrimonio. E probabilmente qui cè un po di superficialità da parte dei sacerdoti che magari "sbrigano la pratica" in modo formale. Daltronde è anche un esame difficile, perché ovviamente la fede non si può misurare in maniera scientifica. Ha ragione Ratzinger a dire che servono ulteriori studi. Dopodiché servono delle regole chiare per tutti. Altrimenti ci troveremo sempre nella situazione confusa di oggi, per cui si può incontrare un prete rigidissimo nellammissione degli sposi al sacramento e un altro assai lassista». «Detto questo, però», aggiunge Ardusso, «cè da notare che il discorso del cardinale Ratzinger riguarda soltanto i battezzati che non sono credenti. Rimane il problema di cosa fare con i cattolici seri, praticanti, che hanno avuto la sventura di vivere il dramma del divorzio. È vero che lattenzione pastorale nei loro confronti non può condurre a compromessi con la verità, come ricorda la Congregazione per la dottrina della fede. Ma la verità va vista "in situazione", senza cadere con questo nell"etica della situazione". Cè la verità di un principio, ma probabilmente cè anche la verità di persone che vivono situazioni che vanno attentamente considerate». Molto critico sullintervento del cardinale Ratzinger è don Basilio Petrà, ordinario di Teologia morale alla Facoltà teologica dellItalia centrale di Firenze e autore di un volume dal titolo Il matrimonio può morire? (Dehoniane, Bologna): «La scelta di fondo della Congregazione per la dottrina della fede», spiega Petrà, «è di offrire una soluzione al problema dei divorziati risposati attraverso un aumento delle possibilità di nullità del matrimonio. Ma questa via "giuridico-casuistica" presenta rischi gravissimi. Imporre unegemonia canonica sul matrimonio significa trasformarlo in una realtà da tribunale. Ampliando il ventaglio dei casi, ogni matrimonio a posteriori potrebbe essere facilmente dimostrabile come nullo. I tribunali rischiano di diventare una fabbrica di nullità. Puntando tutto sulla via canonica, inoltre, si incoraggia lipocrisia e si esteriorizza il rapporto del matrimonio cristiano. Esso viene a perdere la sua consistenza di atto di fede». Don Petrà, che è anche professore allAccademia Alfonsiana e al Pontificio Istituto orientale, sostiene unaltra ipotesi, che peraltro è stata criticata dallOsservatore Romano. «A mio giudizio», dice il teologo, «la questione va riportata allambito suo proprio, che è la pastorale. La mia posizione è stata spesso malamente interpretata. Io non sostengo che il matrimonio cristiano può morire, tuttaltro. Ritengo però che la Chiesa abbia lautorità, ad alcune condizioni, di ammettere a nuove nozze o, come direbbero i canonisti, di "togliere limpedimento di legame". Questa potestà della Chiesa è simile a quella esercitata dallapostolo Paolo che ammise le nuove nozze per i vedovi con la motivazione che "è meglio sposarsi che ardere". Certo è solo una concessione, non è lideale cristiano, ma è una potestà che la Chiesa ha realmente utilizzato e continua a utilizzare nelle Chiese orientali». Concretamente, spiega don Petrà, «si dovrebbero verificare alcune condizioni: lirreparabile fine della prima unione, la conversione e la penitenza, un vero cammino di fede testimoniato dalla comunità cristiana. A livello diocesano si potrebbero costituire delle commissioni pastorali che avrebbero il compito di valutare il cammino della coppia che chiede le nuove nozze, il loro rapporto con la Chiesa, il loro impegno religioso. A quel punto potrebbe venire lammissione a nuove nozze». Una posizione simile a questa del teologo fiorentino è propugnata da don Giovanni Cereti, che ha pubblicato una ricerca su Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, che di recente è stata ristampata in seconda edizione. Fondandosi sullesperienza delle comunità cristiane dei primi secoli, don Cereti ritiene che «la Chiesa ha il potere di assolvere tutti i peccati, compreso quello di coloro che sono venuti meno al proprio impegno coniugale. Certo, il matrimonio deve essere indissolubile e il cristiano deve essere fedele al patto coniugale. Ma se per disgrazia pecca e viene meno al proprio impegno, la Chiesa può offrire una via penitenziale: di espiazione, conversione e infine di assoluzione dal peccato gravissimo di adulterio nel senso inteso da Matteo (19,9). Lapproccio giuridico, invece, non risolve i casi. Dichiara nullo un matrimonio, come non fosse mai esistito. Così che i figli sono nati da ununione fantasma e il coniuge non ha diritto agli alimenti». Un altro noto studioso di teologia morale, don Giannino Piana, riconosce che la Chiesa ha fatto grandi passi avanti dopo il Concilio Vaticano II: «Prima, i divorziati risposati venivano abbandonati e marginalizzati. Oggi cè una maggiore disponibilità a farli sentire parte della comunità cristiana». Ma aggiunge: «Credo che bisognerebbe riaprire teologicamente la riflessione sul significato dellindissolubilità del matrimonio. Non soltanto per le ragioni di Cereti e Petrà, che si rifanno alla tradizione orientale e ai primi secoli della Chiesa, ma anche perché nei Vangeli la riflessione sullindissolubilità è inserita nel contesto del "Discorso della Montagna". Si tratta cioè di indicazioni profetico-escatologiche, non precettistiche. Danno normative al credente, ma nel senso di un ideale da perseguire». Come si vede, il dibattito è piuttosto articolato e tuttaltro che spento. Padre Luigi Lorenzetti, dehoniano, direttore della Rivista di Teologia morale, conclude: «La situazione dei divorziati risposati interpella anche i teologi. È auspicabile che la ricerca teologica possa trovare il suo spazio legittimo. Certamente il nuovo non è sinonimo di vero, ma bisogna dare tempo allautocorrezione, cioè al confronto/scontro delle diverse ipotesi allinterno della riflessione teologica. Invece talvolta si ha limpressione che alcuni problemi, in particolare questi del matrimonio, non siano sufficientemente approfonditi, anche perché vengono subito diffidati e chiusi dautorità».
Giovanni Ferrò
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