indice news letteratura esclusive origini film fumetti musica immagini link
  racconti  

 I Vurdalak
 Alekséj Konstantinovič Tolstòj
*

La Famille du Vurdalak - 1847 


Il Congresso di Vienna nel 1815 aveva riunito nella grande città austriaca tutto quanto v’era in Europa di erudito, di socialmente brillante e di politicamente esperto.
    Ma ormai il Congresso volgeva al termine. Gli esuli monarchici si preparavano a riprendere possesso dei loro castelli, gli ufficiali russi a fare ritorno alle case che avevano abbandonate, e qualche polacco - questo non troppo soddisfatto - a riportare a Cracovia l’amore per la libertà, affidandolo senza troppa convinzione alla triplice ed equivoca indipendenza garantita da Metternich, dal Principe di Harderberg e dal Conte di Nesselrode.
    Così come succede nelle ultime ore di un gran ballo, la compagnia, all’inizio tanto vivace, si era ridotta a un esiguo gruppo di gaudenti, che manifestavano tutta la loro riluttanza a fare i bagagli, e con ogni pretesto differivano la partenza per i begli occhi di qualche dama viennese.
    Questa lieta congrega, della quale facevo parte anch’io, si radunava due volte alla settimana nel castello della Principessa di Schwarzenberg, poco lontano dalla città, passato il piccolo borgo di Hitzing.
    Di pomeriggio, si passeggiava. La sera, si cenava tutti insieme al castello o in qualche località della contrada. Poi, seduti davanti al vivace fuoco d’un caminetto, si conversava e si raccontavano storie. Ogni discorso di politica era severamente bandito: ne avevamo tutti abbastanza, per cui l’argomento delle nostre conversazioni erano soprattutto leggende dei rispettivi paesi, o ricordi personali di ognuno di noi.
    Una sera, dopo che erano state raccontate molte storie straordinarie, in tutti vibrava un’insolita tensione, accresciuta dalla penombra e dal silenzio. Il Marchese d’Urfé, vecchio esule francese simpatico a tutti per l’allegria giovanile e la piccante vivacità con la quale sapeva raccontare i suoi antichi successi erotici, approfittò di un momento in cui il chiacchiericcio generale era sopito, e disse:
    «Amici miei, le vostre storie sono senza dubbio alcuno eccezionali, ma a me pare che difettino di una qualità essenziale: l’autenticità. Credo infatti che nessuno di voi possa provare in modo certo di aver visto con i propri occhi ciò che or ora ha raccontato, e che non possa suggellarne la verità con la propria parola di gentiluomo».
    Fu giocoforza ammettere che aveva ragione, per cui il vecchio continuò, accarezzandosi i favoriti:
    «Invece io, cari amici, posso narrarvi una storia stupefacente, e nello stesso tempo così insolita e orribile, e così vera, che da sola basterebbe a colpire la fantasia dei più scettici. Purtroppo per me, ne sono stato non soltanto testimone, ma anche protagonista, e sebbene di solito non mi faccia piacere ricordarla, tuttavia questa volta ve la racconterò. Sempre che le gentili signore me lo permettano».
    Ovviamente, il consenso fu unanime. Qualcuno, invero, lanciò qualche sguardo spaurito ai riflessi che la luna cominciava a disegnare sul pavimento, ma in breve fummo tutti raccolti in circolo attorno al nobiluomo, intenzionati a non perdere una sola delle sue parole.
    Dopo aver fiutato con studiata lentezza una presa di tabacco, il Signor D’Urfé cominciò il suo racconto.

Eravamo nel 1759, e io ero innamorato senza rimedio della bellissima Duchessa di Grammont. Come tutte le passioni giovanili, ero convinto che fosse profonda ed eterna. Di fatto, non mi dava requie né giorno né notte; la Duchessa poi, come sogliono spesso le donne troppo belle, provava gusto nell’acuire i miei tormenti, comportandosi con tale civetteria che in un momento d’aberrazione mentale finii per chiedere e ottenere - pur di allontanarmi da lei - una missione diplomatica presso il Gospodar della Moldavia.
    Il giorno prima della mia partenza, mi recai a salutare la bella Duchessa. Mi ricevette - e me ne stupii - con minore sarcasmo del consueto, dicendomi con la sua dolce voce, da cui traspariva una leggera emozione: «Caro d’Urfé, quella che lei sta facendo è una vera pazzia. Ma io la conosco, e so che non torna mai sulle sue decisioni. Però le chiedo almeno una cosa: accetti questa piccola Croce in pegno della mia amicizia, e mi prometta di tenerla sempre con sé, fino al suo ritorno. È un ricordo di famiglia che per me ha molto valore».
    Con una galanteria forse fuori di posto in un momento simile, baciai non soltanto la piccola Croce, ma anche la bella mano che me la offriva, e mi misi la catenina al collo. È questa stessa che vedete e che, da allora, non ho mai più lasciato.
    Non vi annoierò, Signore, con le vicende del mio viaggio, né con le mie osservazioni sui Serbi, popolo rozzo e ignorante ma coraggioso e onesto, e che neppure sotto la dura dominazione turca aveva dimenticato la propria dignità e l’antica indipendenza. Sarà sufficiente che vi dica che, avendo già appreso un po’ di polacco nel corso di un precedente viaggio a Varsavia, non ebbi difficoltà a imparare il serbo, dato che queste due lingue, come il russo e il boemo, non sono che varianti della stessa lingua slava.
    Ne sapevo dunque già abbastanza per farmi capire, quando giunsi un giorno in un villaggio, il cui nome non ha alcun interesse per voi. Trovai gli abitanti della casa, in cui era stato fissato il mio alloggio, profondamente costernati, e la cosa mi parve assai strana giacché era domenica, giorno che i Serbi usano dedicare ai divertimenti, alla danza, al tiro coll’archibugio, alla lotta, eccetera. Pensai che la tristezza dei miei ospiti fosse da attribuirsi a qualche lutto recente, e stavo dunque per andarmene non volendo disturbarli, quando un giovane che avrà avuto trent’anni, di alta statura e aspetto imponente, mi si avvicinò e mi prese per mano:
    «Entri, entri, straniero», mi disse, «non si lasci impressionare dal nostro triste contegno: quando ne saprà il motivo, capirà».
    Mi raccontò poi che il suo vecchio padre, di nome Gorča, un uomo dal carattere irrequieto e intrattabile, un bel mattino, levatosi dal letto, aveva staccato dal muro il suo vecchio archibugio turco.
    «Ragazzi miei», aveva detto ai due figli Giorgio e Pietro, «vado sui monti per unirmi ai valorosi che danno la caccia a quel cane di Alibek (era un brigante turco che, da qualche tempo, devastava il paese). Aspettatemi di ritorno tra dieci giorni. Se però al decimo non sarò tornato, fatemi dire una Messa, perché vorrà dire che mi avranno ucciso. Ma», aveva aggiunto il vecchio con l’aria più grave possibile, «se, Dio non voglia, trascorsi i dieci giorni, dovessi ugualmente tornare a casa, allora, per il vostro bene, non lasciatemi entrare. In questo caso, vi ordino di dimenticare che sono vostro padre e di infilzarmi con un palo, qualsiasi cosa io dica o faccia, perché vorrebbe dire che sono diventato un maledetto Vurdalak, tornato qui a succhiarvi il sangue.»
    Bisogna adesso che vi spieghi, signore mie, che i Vurdalak, o Vampiri dei popoli slavi, sono, secondo le convinzioni locali, nulla di meno che cadaveri usciti dai loro sepolcri per succhiare il sangue dei vivi.
    Fin qui, le loro abitudini non differiscono da quelle degli altri Vampiri, noti a tutti. Ma questi hanno una caratteristica specifica che li rende ancor più orribili: i Vurdalak succhiano, di preferenza, il sangue dei familiari più prossimi e degli amici più intimi; i quali, una volta uccisi in tal modo, diventano anche loro Vampiri.
    Pare che in Bosnia e in Ungheria vi siano stati interi villaggi, trasformati in covi di Vurdalak. Gli Imperatori tedeschi hanno nominato numerose volte delle commissioni di inchiesta per indagare sui casi di vampirismo. Si sono tenuti regolari processi, in seguito ai quali si sono esumati i cadaveri, che sono stati trovati gonfi di sangue; allora sono stati bruciati sulle pubbliche piazze, dopo averne trafitto il cuore.
    Alcuni magistrati, testimoni di tali esecuzioni, hanno affermato di aver sentito urlare quei cadaveri nel momento in cui il boia spingeva loro un palo nel petto. Hanno attestato ciò formalmente, sigillando la loro testimonianza con firma e giuramento.
    Potete dunque capire l’impressione che le parole del vecchio Gorča avevano avuto sui figli. Gli si gettarono tutti e due ai piedi, supplicandolo di lasciarli partire al posto suo, ma per tutta risposta il vecchio cocciuto girò i tacchi e se ne andò, canticchiando il ritornello di una vecchia ballata.
    Il mattino in cui io ero arrivato al villaggio, finivano appunto i dieci giorni fissati da Gorča, e l’inquietudine dei familiari era quindi naturale.
    Si trattava di una famiglia buona e onesta. Giorgio, il maggiore dei due maschi, per i lineamenti virili e marcati, appariva un uomo serio e deciso. Era sposato e padre a sua volta di due figli. Il fratello Pietro, bel giovanotto di diciott’anni, mostrava nella sua fisionomia più dolcezza che carattere, ed era il prediletto della sorella minore, di nome Sdenka, che ben rappresentava il tipo della bellezza slava. Oltre alla sua avvenenza, incontestabile da qualsiasi punto di vista, mi colpì subito in lei una lontana somiglianza con la Duchessa di Grammont: specie per un piccolo segno sulla fronte, che durante tutta la mia vita ho notato soltanto in quelle due persone. Questo segno poteva anche spiacere a prima vista: ma poi, finiva con l’attrarre irresistibilmente.
    Forse perché allora ero molto giovane, o perché quella somiglianza, ritrovata in una persona candida e innocente, fosse davvero d’effetto irresistibile, dopo appena due minuti che parlavo con Sdenka, già provavo per lei un’attrazione troppo viva perché non minacciasse di trasformarsi in un sentimento diverso, se solo avessi prolungato il mio soggiorno nel villaggio.
    Eravamo riuniti davanti alla casa, attorno a una tavola imbandita con formaggi e scodelle di latte. Sdenka filava, sua cognata preparava la cena per i bambini che giocavano sull’aia, Pietro con finta spensieratezza fischiettava, lucidando uno jatagan¹ e Giorgio, coi gomiti sulla tavola, la testa tra le mani e la fronte corrugata, divorava con gli occhi la grande strada davanti alla casa, senza dire una parola. Quanto a me, vinto dall’atmosfera generale, contemplavo malinconico le nubi del crepuscolo che incorniciavano la volta dorata del cielo e la sagoma di un convento seminascosto in un bosco di larici.
    Quel convento aveva goduto in altri tempi di grande celebrità, a causa di un’icona miracolosa della Santa Vergine che, secondo la leggenda, era stata portata in volo dagli angeli e deposta sopra una quercia. Ma, all’inizio del secolo scorso, i Turchi avevano invaso la regione, sgozzando i monaci e mettendo a sacco il convento. Non ne restavano più che i muri e una cappella, in cui il servizio religioso era tenuto da una specie di prete eremita. Quest’ultimo faceva ai visitatori da guida tra le rovine, e ospitava i pellegrini che, recandosi a piedi da un santuario all’altro, desideravano fermarsi anche al convento della Vergine della Quercia.
    Tutto questo lo seppi poi, perché in quel momento pensavo a ben altro che all’archeologia serba. Come succede spesso quando si lascia libera la propria immaginazione, ricordavo il passato, i giorni felici della mia infanzia, e la mia bella Francia, che avevo lasciato per un paese remoto e selvaggio. Ben presto dimenticai i miei ospiti e le loro cure.
    D’un tratto, Giorgio ruppe il silenzio:
    «Moglie», disse, «a che ora è partito il vecchio?».
    «Alle otto», rispose la moglie, «ho sentito battere proprio in quel momento la campana del convento.»
    «Allora va tutto bene», disse Giorgio, «non devono essere più delle sette e mezzo.»
    E tacque, tornando a fissare la grande strada che si perdeva nella foresta.
    Ho dimenticato di dirvi, belle signore, che quando i Serbi sospettano qualcuno di vampirismo, evitano di nominarlo o di indicarlo in modo esplicito, perché pensano che questo sarebbe come chiamarlo dalla sua tomba. Così, da qualche giorno, Giorgio, parlando di suo padre, diceva soltanto: il vecchio.
    Ci fu qualche istante di silenzio. Poi, uno dei bambini fece a Sdenka, tirandola per il grembiule:
    «Zia, quando torna a casa il nonno?».
    Uno schiaffo da parte di Giorgio fu la risposta alla domanda inopportuna. Il bambino scoppiò a piangere, ma il fratellino chiese con aria stupita e timorosa insieme:
    «Papà, perché non dobbiamo parlare del nonno?».
    Un altro schiaffo gli troncò la parola. I due bambini si misero a gridare insieme e tutta la famiglia si fece il Segno della Croce.
    In quell’istante, l’orologio del convento cominciò a scandire lentamente le otto. Il primo colpo era appena risuonato alle nostre orecchie, quando scorgemmo una forma umana staccarsi dal bosco e venire verso di noi.
    «È lui! Dio sia lodato!», esclamarono insieme Sdenka, Pietro e la loro cognata.
    «Che Dio ci protegga!», disse invece cupamente Giorgio. «Come facciamo a sapere se i dieci giorni sono trascorsi, oppure no?»
    Tutti lo guardarono, come folgorati. La forma umana intanto avanzava sempre. Era un gran vecchio dai baffi argentei, il viso pallido e severo, che si trascinava penosamente appoggiandosi a un bastone. A mano a mano che avanzava, l’espressione di Giorgio si faceva più cupa. Quando fu vicino a noi, il nuovo arrivato si fermò e fissò uno a uno tutti i suoi familiari, con occhi che sembrava non vedessero, tanto erano spenti e infossati nelle orbite.
    «Be’?», fece con voce profonda. «Perché nessuno mi viene incontro? Che significa questo silenzio? Non vedete che sono ferito?»
    Infatti, il vecchio aveva il fianco sinistro insanguinato.
    «Soccorrete vostro padre», dissi allora a Giorgio. «E tu, Sdenka, dagli un cordiale: mi sembra che stia per svenire.»
    «Padre mio», fece Giorgio, avvicinandosi a Gorča, «fatemi vedere la vostra ferita. Io me ne intendo, e ve la fascerò.»
    Fece il gesto di aprirgli il vestito, ma il vecchio lo respinse rudemente, coprendosi il petto con le due mani: «Vattene, incapace che non sei altro. Mi fai male».
    «Ma allora, siete stato ferito al cuore?», rispose Giorgio, che era diventato bianco come un lenzuolo. «Su, presto, toglietevi il vestito. Dovete farlo, vi dico che è necessario.»
    Il vecchio si drizzò rigidamente:
    «Fa’ attenzione», rispose con voce cupa. «Se mi tocchi, ti maledirò».
    Pietro si interpose tra Giorgio e il padre:
    «Lascialo in pace», disse, «non vedi che sta male?».
    «Non lo contraddire», aggiunse sua moglie, «sai che non l’ha mai tollerato.»
    In quel momento vedemmo un gregge di pecore che tornava dal pascolo e si dirigeva verso la casa, in una nuvola di polvere. O il cane che l’accompagnava non aveva riconosciuto il vecchio padrone, o per qualche altro motivo, fatto sta che, non appena vide di lontano Gorča, si fermò col pelo irto e si mise a ululare come se avesse scorto uno spettro.
    «Ma che ha questo cane?», chiese il vecchio con aria sempre più cupa. «Che vuol dire tutto ciò? Sono diventato uno straniero in casa mia? Dieci giorni passati in montagna mi hanno tanto cambiato che neppure i miei cani mi riconoscono più?»
    «Hai sentito quello che ha detto?», fece Giorgio di nascosto a sua moglie.
    «Che cosa?»
    «Ha ammesso che i dieci giorni sono già trascorsi.»
    «Ma no, è tornato al termine stabilito!»
    «Bene, bene. So io quello che bisogna fare.»
    Il cane intanto continuava a ululare.
    «Ammazzatelo!», gridò Gorča. «Lo voglio, mi sentite?»
    Giorgio non si mosse, ma Pietro si alzò e, con le lacrime agli occhi, prese l’archibugio del padre e sparò sul cane, che ruzzolò nella polvere.
    «Era il mio cane preferito», mormorò poi a bassa voce. «Non capisco perché mio padre abbia voluto che fosse ucciso.»
    «Perché se lo meritava», disse Gorča. «Su, ora: fa freddo. Voglio entrare in casa.»
    Sdenka, intanto, aveva preparato per il vecchio una tisana fatta con acquavite bollente, pere, miele e uva passita, ma il padre la respinse con disgusto. Dimostrò la medesima avversione per il piatto di montone con contorno di riso che Giorgio gli porgeva, e andò a sedersi in un angolo del focolare, mormorando tra i denti parole incomprensibili.
    Nel focolare crepitava un fuoco di rami di pino, che animava con la sua luce tremolante il volto del vecchio, tanto pallido e disfatto che, senza il riverbero che lo riscaldava, si sarebbe potuto credere quello di un morto. Sdenka andò a sedersi vicino a lui.
    «Padre mio», gli disse, «non volete davvero mangiare nulla per ristorarvi? Perché non ci raccontate le vostre avventure sulle montagne?»
    Dicendo questo la ragazza sapeva di toccare la corda giusta, perché al vecchio guerriero piaceva parlare di stragi e battaglie.
    Una specie di sorriso, infatti, comparve sulle sue labbra livide, ma gli occhi non mutarono espressione, e rispose, passando le dita tra i capelli biondi della fanciulla:
    «Sì, figlia mia, sì, Sdenka cara. Ti racconterò volentieri quel che mi è successo sui monti: ma un’altra volta, perché ora sono troppo stanco. Ti dirò comunque che quel cane di Alibek non è più su questa terra, perché è morto per mano mia. E se qualcuno ha dei dubbi», continuò il vecchio, percorrendo con lo sguardo i familiari, «eccone la prova».
    Aprì una specie di fagotto che gli pendeva sulla schiena e ne trasse una testa livida e insanguinata, che tuttavia non era meno pallida della sua. Distogliemmo tutti lo sguardo, inorriditi; ma Gorča, porgendo la testa a Pietro, gli disse:
    «Prendila e attaccala sopra la porta. Così tutti quelli che passano sapranno che Alibek è morto e che le nostre strade sono state ripulite dei briganti, meno ovviamente i Giannizzeri del Sultano».
    Pietro obbedì, con grande disgusto.
    «Questo povero cane che ho ucciso», disse tuttavia, «urlava dunque solo perché aveva fiutato odore di cadavere!»
    «Sì, aveva fiutato odore di cadavere», gli fece eco con aria cupa Giorgio, che era uscito senza che ce ne fossimo accorti, e tornava in casa in quel momento, tenendo in mano qualcosa che posò in un angolo e che mi parve un lungo palo.
    «Giorgio», gli fece sua moglie sottovoce, «non vorrai, spero...»
    «Fratello mio», continuò sua sorella, «che hai intenzione di fare? Oh no, no, non lo farai, vero?»
    «Lasciatemi in pace!», rispose Giorgio. «So io quel che devo fare, e non farò nulla che non sia indispensabile.»
    La notte nel frattempo era calata. Tutta la famiglia andò a dormire in un settore della casa diviso dalla mia stanza soltanto da una parete molto sottile. Confesso che quello che avevo visto in tutta la serata aveva fortemente colpito la mia immaginazione.
    La lampada era spenta, e la luna rischiarava la finestrina bassa vicino al mio letto gettando sul pavimento e sui muri bagliori lividi: pressappoco come ora, signore mie, nel salone in cui ci troviamo. Volevo dormire, ma non ci riuscivo. Attribuii l’insonnia al chiaro di luna, e cercai qualcosa che potesse servirmi da tenda, senza trovare nulla. Allora, sentendo delle voci soffocate al di là della parete, mi misi ad ascoltare.
    «Moglie, vai a dormire», diceva Giorgio, «e anche tu, Sdenka. E anche tu Pietro. Non datevi pensiero di nulla. Veglierò io per voi.»
    «Ma Giorgio», rispondeva la moglie, «è meglio che stia sveglia io. Tu hai lavorato la notte scorsa, e sei stanco. In ogni caso, lo devo vegliare io il nostro vecchio. Sai che sta male.»
    «Sta’ tranquilla e vai a letto», diceva Giorgio, «veglierò io per entrambi.»
    S’intromise allora Sdenka, con la sua voce più dolce: «Mi sembra inutile star svegli. Nostro padre già dorme, e guarda, fratello, la sua espressione, come è calma e pacifica».
    «Voi due non capite nulla», troncò netto Giorgio con un tono che non ammetteva repliche, «né l’una né l’altra. Vi ho detto di andare a dormire e di lasciarmi rimanere sveglio.»
    Cadde allora un profondo silenzio. Ben presto sentii le mie pupille appesantirsi, mentre il sonno mi prendeva.
    Credetti allora di vedere aprirsi la porta, e il vecchio Gorča apparire sulla soglia. Ma, più che vederne la figura, la sospettavo, perché la camera da cui veniva era completamente buia. Mi sembrò che i suoi occhi spenti cercassero di penetrare nei miei pensieri, e seguissero il moto della mia respirazione. Avanzò con cautela, prima un piede, poi l’altro. Quindi, si mise ad avanzare a quattro zampe, come un lupo. Infine fece un balzo, e fu a fianco del mio letto. Mi strinse un’inesprimibile angoscia, ma una forza invisibile mi impediva di fare una sola mossa. Il vecchio si chinò su di me e avvicinò tanto il suo viso livido al mio, che mi parve di sentire il suo orrendo alito cadaverico. Feci allora uno sforzo sovrumano e mi svegliai, in un bagno di sudore.
    Non c’era nessuno nella mia stanza ma, gettando uno sguardo verso la finestra, scorsi chiaramente il vecchio Gorča che dall’esterno aveva incollato il viso al vetro e mi fissava con i suoi occhi spaventosi.
    Ebbi la forza di non gridare e la presenza di spirito di restare a letto, come se non mi fossi accorto di nulla. Pareva tuttavia che il vecchio fosse venuto da me soltanto per assicurarsi che dormivo: infatti, non tentò di entrare e, dopo avermi esaminato a lungo, si allontanò dalla finestra. Lo sentii camminare nella camera vicina. Giorgio dormiva e russava da far tremare i muri. Un bambino tossì, in quel momento, e sentii la voce di Gorča:
    «Non dormi, piccino?», diceva.
    «No, nonno», rispose il bimbo, «e mi piacerebbe tanto parlare con te.»
    «Ah, vorresti parlare con me. E di che cosa?»
    «Vorrei che mi raccontassi le tue battaglie contro i Turchi. Anch’io farò un giorno la guerra contro di loro!»
    «Ci ho pensato, bambino mio, e ti ho portato un piccolo jatagan, che domani ti regalerò.»
    «Oh, nonno, dammelo subito, visto che non dormi.»
    «Ma perché, piccolo, non me l’hai chiesto oggi, di giorno?»
    «Perché papà me l’ha proibito.»
    «È prudente tuo padre. Dunque, lo vorresti adesso il tuo piccolo jatagan
    «Oh, sì, lo vorrei proprio. Ma non qui, perché papà potrebbe svegliarsi.»
    «E dove, allora?»
    «Se usciamo, ti prometto di stare attento e di non fare rumore.»
    Mi parve di sentire Gorča ghignare: udii il bambino che si alzava. Non credevo ai Vampiri, ma l’incubo che avevo appena avuto mi aveva scosso i nervi: sicché, per non aver nulla da rimproverarmi in seguito, mi alzai e battei con il pugno alla parete. Il rumore sarebbe stato sufficiente a svegliare i Sette Dormienti, ma nulla mi indicò che i padroni di casa avessero sentito. Mi lanciai verso la porta, deciso a salvare il bambino, ma la trovai chiusa dall’esterno, e il catenaccio non cedette ai miei sforzi. Mentre cercavo di sfondare l’uscio, vidi passare davanti alla finestra il vecchio col bambino in braccio.
    «Alzatevi, alzatevi!», urlai allora con tutte le mie forze, e scossi la parete con colpi forsennati.
    Solo così, finalmente, Giorgio si svegliò.
    «Dov’è il vecchio?», gridò.
    «Esca subito», dissi. «Si è portato via il bambino.»
    Con un calcio, Giorgio abbatté la porta della sua stanza, che come la mia era stata chiusa dall’esterno, e si lanciò correndo verso il bosco. Riuscii infine a svegliare anche Pietro, sua cognata e Sdenka. Ci mettemmo davanti alla porta e, dopo qualche minuto di attesa, vedemmo ritornare Giorgio con il figlio. L’aveva trovato privo di sensi sulla grande strada, ma il piccolo era tornato subito in sé e pareva non aver sofferto nulla. Incalzato dalle nostre domande, il bambino spiegò che il nonno non gli aveva fatto del male, che erano usciti insieme per parlare, ma che, una volta usciti, lui aveva perduto i sensi, non sapeva come. Quanto a Gorča, era svanito.
    Quella notte, nessuno ovviamente dormì più. Il giorno dopo, seppi che i ghiacci del Danubio, che tagliava la strada a un quarto di lega dal villaggio, avevano cominciato a rompersi e a scendere a valle, come sempre in quella regione alla fine dell’autunno e all’inizio della primavera. Non si sarebbe dunque potuto attraversare il fiume per diversi giorni, e non c’era da pensar di partire.
    D’altra parte, anche se fosse stato possibile, sarei stato trattenuto dalla curiosità e da una ancor più potente attrazione: più vedevo Sdenka, infatti, e più mi sentivo portato ad amarla. Quel suo tipo originale di bellezza, la somiglianza singolare con la Duchessa di Grammont, da cui ero fuggito ma che ritrovavo qui, vestita d’un costume sgargiante e con in bocca un linguaggio straniero ma armonioso, quel segno speciale sulla fronte, per il quale in Francia mi sarei fatto uccidere non so quante volte, e in più la singolarità della mia situazione e i misteri che mi circondavano, stavano contribuendo a far maturare in me un sentimento che in altre circostanze si sarebbe probabilmente manifestato solo in forma vaga ed effimera.
    Il giorno successivo, sentii Sdenka parlare col fratello minore.
    «Che ne pensi di tutto questo?», diceva. «Anche tu sospetti di nostro padre?»
    «Non saprei», rispose Pietro, «e poi il bambino dice che non gli ha fatto male. Quanto alla sparizione del vecchio, sai bene che non ha mai reso conto a nessuno delle sue assenze.»
    «Lo so», disse Sdenka, «ma allora bisogna salvarlo. Tu conosci Giorgio...»
    «Sì, sì, lo conosco. Parlargli sarebbe inutile. Nasconderemo il palo, e non gli riuscirà certo di trovarne un altro.»
    «Sì, nascondiamo il palo. Ma non diciamo nulla davanti ai bambini, potrebbero parlarne fra loro davanti a Giorgio!»
    «Me ne guarderò bene», rispose Pietro. E si separarono.

Scese la notte, senza che si sapesse nulla del vecchio Gorča. Come la notte prima, ero steso sul letto, e la luna rischiarava la mia stanza. Quando il sonno cominciò a confondermi le idee sentii, quasi per istinto, che il vecchio si avvicinava. Aprii gli occhi e vidi infatti il suo volto livido incollato contro la mia finestra. Questa volta cercai di alzarmi, ma di nuovo mi fu impossibile: sembrava che le mie membra fossero paralizzate. Dopo avermi osservato a lungo, il vecchio si allontanò. Lo sentii fare il giro della casa e bussare piano alla finestra della camera in cui dormivano Giorgio e sua moglie. Il bambino si girò nel letto e gemette nel sonno. Seguì qualche minuto di silenzio, poi sentii ancora bussare alla finestra. Allora il bambino gemette ancora, e si svegliò...
    «Sei tu, nonnino?», chiese.
    «Sì, sono io», rispose una voce sorda, «e ti ho portato il tuo piccolo jatagan
    «Ma non ho il coraggio di uscire: papà me l’ha proibito.»
    «Non c’è bisogno che tu esca. Apri solo la finestra e vieni a darmi un bacio.»
    Il bambino si alzò, e lo udii aprire la finestra. Allora, raccogliendo tutte le mie energie, saltai giù dal letto e corsi a picchiare alla parete. Giorgio in un istante fu in piedi. Lo sentii bestemmiare. Sua moglie cacciò un urlo lacerante e ben presto tutta la casa si raccolse intorno al bambino inanimato. Gorča era sparito, come il giorno prima.
    A forza di cure, riuscimmo a far riprendere i sensi al bambino, ma era debolissimo e respirava appena. Il piccolo non sapeva la causa del suo svenimento. La madre e Sdenka lo attribuirono allo spavento per essere stato sorpreso a parlare col nonno. Io non dissi nulla. In ogni modo, poiché il bambino si era calmato, tutti si rimisero a letto. Ma non Giorgio. Verso l’alba, lo sentii svegliare sua moglie e parlare a bassa voce. Sdenka si unì a loro e poi la sentii singhiozzare insieme a sua cognata. Il bambino era morto.
    È inutile dire la disperazione della famiglia: comunque, nessuno parve sospettare che il vecchio Gorča ne fosse la causa. Perlomeno, nessuno ne parlava apertamente. Giorgio taceva, ma la sua espressione, sempre cupa, aveva ora qualcosa di terribile.
    Per due giorni, il vecchio non ricomparve. Nella notte che seguì il terzo giorno, quello in cui si fece il funerale del bambino, mi sembrò di sentire dei passi intorno alla casa, e una voce di vecchio che chiamava il fratellino del defunto. Mi sembrò anche, per un momento, di vedere il viso di Gorča dietro la mia finestra, ma non potei accertarmi se fosse realtà o allucinazione, perché quella notte la luna era velata.
    Credetti tuttavia mio dovere parlarne a Giorgio. Lui interrogò il bambino, e questi rispose che, in effetti, aveva sentito il nonno che lo chiamava e l’aveva visto attraverso i vetri della finestra. Giorgio ordinò severamente a suo figlio di svegliarlo se il vecchio fosse comparso ancora.
    Quelle terribili circostanze non avevano impedito intanto alla mia simpatia per Sdenka di far progressi. Non m’era mai riuscito, durante il giorno, di parlarle senza testimoni. Quella notte, l’idea della mia prossima inevitabile partenza, mi sconvolse. La camera di Sdenka era divisa dalla mia soltanto da una specie di stretto corridoio che dava da una parte sulla strada e dall’altra sull’aia. La famiglia dei miei ospiti si era addormentata, quando mi venne l’idea di fare un giro nella campagna per distrarmi. Passando lungo il corridoio, vidi che la porta di Sdenka era semiaperta.
    Mi fermai senza volerlo. Un ben noto frusciare di sottane mi fece battere il cuore. Poi sentii delle parole canticchiate sottovoce. Era la canzone d’addio che un re serbo, prima di partire, rivolgeva alla sua bella. Non potei più trattenermi; quella voce così dolce, così espressiva, era quella della Duchessa di Grammont...
    Senza stare a riflettere, spinsi la porta ed entrai. Sdenka si era tolta quella sorta di casacca che abitualmente portano tutte le donne del suo paese. La camicetta, ricamata d’oro e di seta rossa, stretta alla vita, e una semplice gonna a quadretti, erano tutto il suo abbigliamento. Le belle trecce bionde disciolte e l’abito senza ricercatezza mettevano in maggior valore la sua bellezza. Senza adirarsi per la mia entrata improvvisa, parve confusa e arrossì leggermente.
    «Oh!», mi disse, «perché è entrato? Che penserebbero di me, se ci sorprendessero?»
    «Sdenka, anima mia!», le dissi prendendole la mano, «stai tranquilla. Tutti dormono, soltanto il grillo nell’erba e i maggiolini nell’aria potrebbero sentire quello che voglio dirti.»
    «Oh, amico mio, se ne vada. Se mio fratello ci sorprendesse, sarei perduta.»
    «Sdenka, non me ne andrò finché non mi avrai promesso di amarmi per sempre, come al re della ballata che stavi cantando aveva promesso la sua bella. Partirò presto, Sdenka, e chissà quando ci rivedremo. Sdenka, io ti amo più della mia anima, più della mia salute... la mia vita e il mio sangue sono tuoi, non vuoi concedermi in cambio un’ora soltanto?»
    «Molte cose possono succedere in un’ora», rispose Sdenka con aria pensosa, ma lasciando la sua mano nella mia. «Lei non conosce mio fratello», aggiunse rabbrividendo, «ma io ho il presentimento che verrà.»
    «Calmati, Sdenka, amore», dissi io, «tuo fratello è stanco per le notti passate sveglio, ora lo culla il vento che fischia tra gli alberi, il suo sonno è pesante, la notte è lunga e io non ti chiedo che un’ora. E poi, addio... forse per sempre.»
    «Oh, no! Non per sempre», disse vivacemente Sdenka, ma poi si ritrasse, come spaventata dalla sua stessa voce.
    «Oh, Sdenka», gridai, «non vedo che te, non sento che te, non sono più padrone di me stesso, obbedisco a una forza sovrumana, perdonami, Sdenka!»
    E, come un pazzo, la strinsi al petto.
    «Oh, lei non mi è amico», mi disse, liberandosi dal mio abbraccio e andando a rifugiarsi in un angolo della stanza. Non so che cosa le risposi, confuso com’ero io stesso dalla mia audacia. Non perché in altre occasioni simili seguire l’impulso non mi sia stato utile: ma perché, malgrado la passione, non potevo impedirmi un rispetto sincero per l’innocenza di Sdenka.
    Ero lì, davanti a lei, senza sapere che dirle, quando la vidi sobbalzare e fissare la finestra con uno sguardo atterrito. Seguii la direzione del suo sguardo e vidi il volto immobile di Gorča che ci scrutava dall’esterno. Nello stesso tempo, sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla. Mi voltai. Era Giorgio.
    «Che cosa fa lei qui?», mi chiese.
    Sconcertato per il fatto di essere apostrofato in quel modo, gli indicai suo padre, che ci guardava dalla finestra e che scomparve non appena Giorgio lo vide.
    «Avevo sentito il vecchio, ed ero corso ad avvisare sua sorella», gli dissi.
    Giorgio mi guardò come se volesse leggermi in fondo all’anima. Poi mi tirò per un braccio e mi condusse in camera mia, andandosene senza dir parola. Il giorno dopo, la famiglia era riunita davanti alla porta della casa, intorno a una tavola imbandita di latte e formaggio.
    «Dov’è il bambino?», chiese Giorgio.
    «Nel cortile», rispose la moglie, «gioca da solo al suo gioco preferito: immagina di combattere contro i Turchi.»
    Aveva appena pronunciato queste parole che, con nostra estrema sorpresa, vedemmo avanzarsi dal fondo del bosco l’alta figura di Gorča che camminava lentamente verso il nostro gruppo e si veniva a sedere a tavola, come aveva fatto il giorno del suo arrivo.
    «Padre, siate il benvenuto», mormorò la nuora, con voce appena udibile.
    «Siate il benvenuto, padre», ripeterono insieme Sdenka e Pietro sottovoce.
    «Padre mio», disse Giorgio a bassa voce, ma cambiando colore, «aspettavamo voi per dire le preghiere.»
    Il vecchio si voltò, aggrottando le sopracciglia.
    «La preghiera, subito!», disse Giorgio, «e fatevi il Segno della Croce, o per San Giorgio...»
    Sdenka e sua cognata si chinarono verso il vecchio, supplicandolo di dire la preghiera.
    «No, no e poi no!», gridò il vecchio, «lui non ha il diritto di darmi ordini, e se insiste lo maledirò.»
    Giorgio si alzò e corse in casa. Tornò poi subito, con gli occhi pieni di furore.
    «Dov’è il palo?», gridò, «dove l’avete nascosto?»
    Sdenka e Pietro si scambiarono un’occhiata.
    «Cadavere», disse allora Giorgio rivolgendosi al vecchio, «che hai fatto del mio figlio maggiore? Perché hai ucciso il mio bambino? Rendimi mio figlio, carogna!»
    E, mentre parlava così, si faceva sempre più pallido, e i suoi occhi si accendevano sempre di più. Il vecchio lo fissava con uno sguardo cattivo e non si muoveva.
    «Oh, il palo! Il palo!», gridò Giorgio: «Chi l’ha nascosto è responsabile delle disgrazie che ci aspettano!».
    In quel momento, udimmo le risa gioiose del ragazzino e lo vedemmo arrivare a cavallo di un gran palo, caracollandoci sopra e lanciando con la vocina sottile il grido di guerra dei Serbi quando vanno all’attacco.
    Nel vederlo, lo sguardo di Giorgio fiammeggiò. Strappò il palo al bambino e si gettò su suo padre. Questi cacciò un urlo e si mise a correre verso il bosco a una velocità così poco consona alla sua età da sembrare sovrumana.
    Giorgio lo inseguì per i campi e ben presto li perdemmo di vista.
    Il sole era ormai tramontato quando Giorgio tornò a casa, pallido come la morte e coi capelli irti. Si sedette vicino al fuoco, e ci parve di sentirlo battere i denti. Nessuno osò fargli domande. Quando s’avvicinò l’ora in cui la famiglia aveva l’abitudine di separarsi per la notte, parve ritrovare la sua energia, e prendendomi da parte, mi disse nel modo più naturale:
    «Caro ospite, ho visto il fiume. I ghiacci non ci sono più, la strada è libera, e nulla si oppone alla sua partenza. Non è necessario», aggiunse, gettando uno sguardo su Sdenka, «che lei saluti i miei familiari. Essi le augurano, per bocca mia, tutta la felicità che può offrire questa terra, e spero che conservi di noi un buon ricordo. Domani, all’alba, troverà il suo cavallo ben sellato e una guida pronta a seguirlo. Addio, si ricordi di chi l’ha ospitata, e ci scusi se il suo soggiorno qui non è stato senza emozioni, come avremmo desiderato.»
    Dalla durezza di Giorgio traspariva in quel momento qualcosa di cordiale. Mi accompagnò in camera mia e mi strinse la mano un’ultima volta. Poi trasalì, e i denti presero a battergli come se rabbrividisse di freddo.
    Rimasto solo, non riuscii a dormire. Altri pensieri mi occupavano la mente. Avevo amato altre volte nella mia vita. Avevo avuto accessi di tenerezza e di disperazione, e accessi di gelosia: ma mai, nemmeno quando avevo lasciato la Duchessa di Grammont, avevo provato una tristezza paragonabile a quella che mi lacerava il cuore in quel momento.
    Prima che il sole apparisse, indossai gli abiti da viaggio, e volli tentare un ultimo incontro con Sdenka. Ma Giorgio già mi aspettava nell’atrio. Ogni possibilità di rivederla mi era preclusa. Saltai a cavallo e affondai gli speroni nei fianchi della bestia. Mi ripromettevo al ritorno da Jassy, dove ero diretto, di ripassare da quel villaggio, e quella speranza, per remota che fosse, alleviò un po’ il mio dolore.
    Stavo già pensando con gioia al momento del ritorno, quando un brusco scarto del cavallo per poco non mi disarcionò. L’animale si era fermato di botto, irrigidendosi sulle zampe davanti ed emettendo dalle nari il sibilo d’allarme che è tipico della sua specie nel momento del pericolo.
    Mi guardai intorno con attenzione e scorsi, a un centinaio di passi da me, un lupo che raspava per terra. Accortosi di me, il lupo fuggì via e io diedi di sprone nei fianchi del cavallo riuscendo a fargli continuare il cammino. Vidi allora, là dove prima era il lupo, una fossa ancor fresca. Mi sembrò anche di distinguere la cima di un palo, che sporgeva di qualche pollice dalla terra che il lupo stava smuovendo. Però non posso affermarlo, perché passai molto in fretta di lì.
    Le mie occupazioni mi portarono a Jassy, e lì mi trattenni assai più a lungo di quanto avessi previsto. Non terminai prima di sei mesi.
    È triste ammetterlo, ma devo convenire che su questa terra non ci sono sentimenti durevoli. Il buon esito delle mie trattative, la politica, quella triste politica che da un po’ di tempo ci dà tanti fastidi, finì per far impallidire nel mio animo il ricordo di Sdenka. Inoltre, la Signora del Gospodar, donna di grande bellezza e che sapeva parlare perfettamente la mia lingua, mi aveva fatto al mio arrivo l’onore di mettere gli occhi su di me e di preferirmi a tutti i giovani stranieri che soggiornavano a Jassy. Educato com’ero nei princìpi della galanteria francese, il mio sangue gallico si sarebbe ribellato all’idea di ricambiare con l’ingratitudine la benevolenza testimoniatami da quella bella donna. Così risposi con la dovuta cortesia a tutte le proposte che fu così gentile da farmi.
    Richiamato infine in patria, presi la strada del ritorno. Non pensavo ormai più né a Sdenka né alla sua famiglia, quando una sera, cavalcando per la campagna, sentii una campana che suonava le otto. Quel suono non mi era sconosciuto, e la guida mi disse che proveniva da un convento poco distante. Gliene chiesi il nome e seppi che era quello della Vergine della Quercia. Affrettai allora il passo della mia cavalcatura, e presto arrivammo alle porte del convento. L’eremita ci venne ad aprire e ci portò nell’appartamento degli ospiti. Lo trovai così affollato di pellegrini che persi la voglia di passarci la notte, e chiesi se potevo trovare un alloggio al villaggio.
    «Ne troverà più d’uno», rispose l’eremita, con un profondo sospiro. «Grazie al maledetto Gorča, non mancano le case vuote.»
    «Come?», chiesi, «il vecchio Gorča vive ancora?»
    «Oh, no: lui è ormai bell’e sepolto con un palo nel cuore. Ma aveva succhiato il sangue del figlio di Giorgio. Il bambino si è presentato una notte piangendo alla porta di casa, dicendo che aveva freddo e voleva entrare. Quella stupida di sua madre, benché l’avesse sepolto con le proprie mani, non ha avuto il coraggio di rimandarlo al cimitero, e gli ha aperto. Lui le si è gettato subito addosso e l’ha succhiata a morte. Sepolta a sua volta, lei è tornata a succhiare il sangue del figlio minore, poi quello del marito e infine il sangue del cognato. Ci son passati tutti, come vede.»
    «E Sdenka?», chiesi io.
    «Oh, Sdenka. È diventata pazza per il dolore, povera piccola, non me ne parli!»
    La risposta dell’eremita non era molto chiara, ma non ebbi il coraggio di ripetere la domanda.
    «Il vampirismo è contagioso», continuò il vecchio facendosi il Segno della Croce. «Molte famiglie ne sono state colpite, molte si sono estinte fino all’ultimo membro. Se lei vuol darmi retta, stanotte resti al convento, perché anche se al villaggio i Vurdalak non la divoreranno, le faranno una tale paura da farle diventare bianchi i capelli in poche ore. Io non sono che un povero prete, ma la generosità dei viaggiatori mi ha messo in condizione di poter provvedere ai loro bisogni. Ho formaggio squisito, un’uva passita che le farà venire l’acquolina in bocca al solo vederla, e qualche bottiglia di un Tocai che val bene quello che si serve alla tavola di Sua Santità il Patriarca.»
    Mi parve che in quel momento l’eremita si sentisse un po’ troppo albergatore. Pensai che quei racconti così foschi me li avesse fatti apposta per darmi l’occasione di rendermi grato al cielo imitando la generosità dei viaggiatori che per l’appunto avevano messo il sant’uomo in condizione di provvedere ai loro bisogni.
    E poi, la parola «paura» faceva sempre su di me l’effetto d’una tromba a un cavallo da battaglia. Mi sarei vergognato di me stesso se non fossi partito all’istante per il villaggio. La mia guida, tremando, mi chiese il permesso di restare dall’eremita, e glielo accordai volentieri.
    Impiegai meno di mezz’ora per arrivare al villaggio. Lo trovai deserto. Non una luce brillava alle finestre. Non si udiva una sola voce. Passai silenzioso davanti a tutte quelle case, per lo più a me note, e arrivai finalmente a quella di Giorgio.
    Un po’ per sentimentalismo e un po’ per giovanile temerarietà, decisi di passare proprio lì la notte. Scesi di cavallo e bussai all’uscio. Nessuno rispose. Spinsi il portone. Si aprì cigolando sui cardini, ed entrai nel cortile. Attaccai il cavallo sellato sotto un capanno dove c’era avena sufficiente per una notte, e avanzai verso la casa.
    Non una porta era chiusa, eppure le camere sembravano tutte da tempo disabitate. Solo quella di Sdenka pareva abbandonata appena il giorno prima. Qualche vestito giaceva ancora sul letto. Qualche gioiello che le avevo regalato io, e tra i quali riconobbi una piccola crocetta di smalto da me acquistata in una sosta a Pest, brillavano su un tavolo al chiaro di luna.
    Mi sentii stringere il cuore, benché il mio amore fosse finito. Mi avvolsi nel mantello e mi stesi sul letto. Ben presto, il sonno mi colse.
    Non ricordo i particolari dei miei sogni: so solo che rividi Sdenka bella, innocente e amabile come in passato. Vedendola, mi rimproverai il mio egoismo e la mia incostanza. Come avevo potuto, mi chiesi, abbandonare nel pericolo quella povera bimba che mi amava, come avevo potuto dimenticarla? Poi la sua immagine si confuse con quella della Duchessa di Grammont, e non vidi, in quelle due, che una sola e unica persona. Mi gettai ai piedi di Sdenka e implorai il suo perdono. Tutto il mio essere, tutta la mia anima si confondevano in un sentimento indescrivibile, misto di melanconia e di felicità.
    Ero a quel punto del mio sogno, quando fui svegliato da un suono armonioso simile allo stormire di un campo di grano agitato da una brezza leggera. Mi pareva di sentire le spighe frusciare l’una contro l’altra, e il canto degli uccelli mescolarsi allo scroscio di una cascata e al mormorio degli alberi. Poi mi parve che tutti questi suoni confusi non fossero che il fruscìo di una gonna, e mi soffermai su quest’idea. Aprii gli occhi e vidi accanto al mio letto Sdenka.
    La luna brillava d’una luce così viva che potevo distinguere nei minimi dettagli i lineamenti adorabili un tempo a me tanto cari, e che ora solo il mio sogno mi aveva ridato in tutto il loro valore. Trovai Sdenka più bella e più matura. Era nella stessa tenuta dell’ultima volta in cui l’avevo vista sola: una semplice camicetta ricamata d’oro e seta, e una gonna stretta alla vita.
    «Sdenka!», le dissi, alzandomi a sedere dal letto, «sei proprio tu?»
    «Sì, sono io», mi rispose con una voce dolce e triste, «proprio la Sdenka di cui ti eri scordato. Perché non sei tornato prima? Ormai, tutto è finito. Bisogna che tu parta. Un momento di più, e tutto è perduto. Addio. Addio per sempre.»
    «Sdenka», le dissi, «mi hanno detto che hai avuto molte sventure. Vieni, parleremo insieme e questo ti conforterà.»
    «Oh, non credere», rispose, «a tutto quel che si dice di noi. Ma parti al più presto: se resti qui, la tua fine è sicura.»
    «Ma Sdenka, che pericolo ci minaccia? Non puoi dedicarmi un’ora, un’ora sola per parlare con te?»
    Sdenka trasalì, e una metamorfosi strana si operò in tutta la sua persona.
    «Sì», disse, «un’ora, un’ora, come quella volta che cantavo la ballata del vecchio re, e tu entrasti nella mia stanza? È questo che vuoi dire? Ebbene, sia, ti concedo un’ora. Ma no, ma no», disse subito dopo, riprendendosi, «parti al più presto, fuggi, ti dico. Fuggi finché lo puoi.»
    Un’energia selvaggia l’animava. Non capivo per quale ragione mi parlasse così, ma era tanto bella che decisi di restare suo malgrado. Cedendo infine alle mie insistenze, si sedette vicino a me, mi parlò del tempo passato e mi confidò arrossendo che mi aveva amato fin dal primo giorno del mio arrivo.
    Mi accorsi però che Sdenka era molto mutata. La riservatezza di una volta aveva ceduto il posto a uno strano abbandono. Il suo sguardo, una volta timido e fuggitivo, aveva ora qualcosa di audace. E anche la maniera di comportarsi con me era ben lontana dalla modestia di prima.
    È possibile, pensai, che Sdenka non sia più la giovane pura e innocente che mi era apparsa quando la conobbi? Non avrà finto allora, per timore del fratello? Sarei dunque stato vittima della sua capacità di recitare? Ma allora, perché adesso insisteva tanto per farmi andar via? Era un’altra forma di civetteria raffinata? E io che credevo di conoscerla! Ma poco mi importava. Mi abbandonavo senza riserve all’attrazione che provavo verso Sdenka, e allegramente gareggiavo con lei in smancerie.
    Già un po’ di tempo era trascorso in questa dolce intimità, e io mi divertivo a far indossare a Sdenka tutti i suoi gioielli, quando volli infilarle al collo la catenina con la crocetta di smalto che avevo trovato sul tavolo. A quel gesto, Sdenka trasalì, arretrando:
    «Basta con i giochi, mio caro», disse: «lascia stare questi gingilli e parliamo un po’ di te e dei tuoi progetti».
    Il turbamento di Sdenka mi diede da pensare. Esaminandola con attenzione, notai che non portava più sul petto, come una volta, le piccole immagini sacre, le reliquie e i sacchetti pieni di incenso benedetto che i Serbi usano portare fin dall’infanzia, e da cui si separano solo alla morte.
    «Sdenka», le dissi, «dove sono le immagini sacre che avevi sul petto?»
    «Le ho perdute», rispose lei con impazienza, e subito cambiò discorso.
    Non so quale oscuro, inconscio presentimento si impossessasse di me. Feci per alzarmi, ma Sdenka mi trattenne:
    «Come?», mi disse: «Mi hai chiesto un’ora, e adesso vuoi lasciarmi dopo appena qualche minuto?».
    «Sdenka», le dissi, «avevi ragione a chiedermi di partire. Sento alcuni rumori e temo che ci sorprendano.»
    «Sta’ tranquillo, mio caro. Tutto dorme intorno a noi. Soltanto il grillo nell’erba e i maggiolini nell’aria potrebbero sentire quel che voglio dirti.»
    «No, no, Sdenka, bisogna che parta.»
    «Fermati, fermati», disse Sdenka, «ti amo più della mia anima, più della mia salute, tu mi hai detto che il tuo sangue e la tua vita erano miei!»
    «Ma tuo fratello, tuo fratello, Sdenka! Ho il presentimento che verrà.»
    «Calmati, anima mia. Mio fratello è cullato dal vento che fischia tra gli alberi. Il suo sonno è pesante, la notte è lunga e io non ti chiedo che un’ora.»
    Mentre diceva questo, Sdenka era così bella che il confuso terrore che mi turbava cominciò a cedere al desiderio di restare con lei. Una mescolanza di paura e di voluttà, impossibile a descriversi, colmava tutto il mio essere. Man mano che mi illanguidivo, Sdenka diveniva più tenera, cosi mi decisi a cedere, pur ripromettendomi sempre di non perdere del tutto il controllo di me stesso.
    Tuttavia, come ho già detto, non sono mai riuscito a essere del tutto saggio, e quando Sdenka, notando la mia riservatezza, mi propose di scacciare il gelo della notte con qualche bicchiere di buon vino (mi disse che le era stato ceduto dal savio eremita), accettai con un entusiasmo che la fece sorridere.
    Il vino produsse il suo effetto. Al secondo bicchiere, la sinistra impressione che avevano fatto su di me la circostanza della croce e la mancanza delle immagini sacre, si cancellò completamente. Sdenka, nel disordine della sua tenuta, con i capelli semidisciolti e i gioielli illuminati dalla luna, mi parve irresistibile. Non seppi più trattenermi, e la strinsi tra le braccia.
    In quel momento avvenne una di quelle misteriose rivelazioni impossibili da spiegare, ma all’esistenza delle quali l’esperienza mi ha forzato a credere. La forza con la quale Sdenka mi abbracciava mi fece entrare nel petto una punta della piccola croce che la Duchessa di Grammont mi aveva dato al momento della partenza. Il dolore acuto che provai fu come un raggio di luce che mi traversò da parte a parte. Guardai Sdenka, e vidi che i suoi lineamenti, pur sempre belli, erano in realtà contratti dalla morte, che i suoi occhi non vedevano, che il suo sorriso era una convulsione impressa dall’agonia sul volto di un cadavere.
    Nello stesso tempo, sentii nella stanza quell’odore nauseante che di solito si sprigiona dalle tombe mal chiuse. La mostruosa verità si levò davanti a me in tutto il suo orrore, e mi sovvenni troppo tardi dei consigli dell’eremita. Compresi quanto la mia situazione fosse disperata, e sentii che tutto dipendeva dal mio coraggio e dal mio sangue freddo.
    Distolsi il viso da Sdenka per nasconderle la ripugnanza che i miei lineamenti dovevano ormai esprimere. L’occhio mi cadde allora sulla finestra, dove vidi l’infame Gorča, appoggiato a un palo insanguinato, che mi fissava con gli occhi da iena. L’altra finestra era occupata dal viso livido di Giorgio che in quel momento somigliava in modo impressionante al padre. Tutti e due sembravano spiare i miei movimenti, e io non ebbi il minimo dubbio che si sarebbero avventati su di me al primo tentativo di fuga.
    Finsi perciò di non scorgerli, ma facendo un violento sforzo su me stesso, continuai, sì, signore mie, continuai a prodigare a Sdenka le stesse carezze che tanto avevo desiderato farle prima della terribile scoperta. Intanto pensavo con angoscia a come poter scampare all’insidia. Notai che Gorča e Giorgio si scambiavano con Sdenka sguardi di intesa, e cominciavano a essere impazienti. Sentii giungere da fuori anche una voce femminile e grida di bambini, ma così terribili che si sarebbero potute scambiare per il miagolio di gatti selvatici.
    Rivolgendomi a Sdenka, le dissi ad alta voce, in modo da essere sentito dai suoi mostruosi familiari:
    «Bambina mia, sono molto stanco. Vorrei distendermi e dormire qualche ora, ma bisogna prima che vada a vedere se il mio cavallo ha mangiato a sufficienza. Ti prego di non andar via e di attendere il mio ritorno».
    Posai le mie labbra sulle sue, gelide e incolori, e uscii. Trovai il mio cavallo coperto di sudore, che si dibatteva sotto il capannone. Non aveva toccato l’avena, ma il nitrito che fece al mio avvicinarsi mi mise la pelle d’oca, perché temetti che tradisse le mie intenzioni. Tuttavia i Vampiri, che avevano sentito la mia conversazione con Sdenka, non parvero allarmarsi. Mi assicurai dunque che il portone fosse aperto e, balzato in sella, ficcai gli speroni nei fianchi dell’animale. Ebbi il tempo di vedere, uscendo dal portone, che l’assembramento davanti alla casa, per la maggior parte composto di persone con il viso incollato ai vetri, era assai numeroso.
    Credo che la mia brusca partenza li avesse sconcertati, perché per qualche tempo non distinsi nel silenzio della notte altro che il galoppo regolare del mio cavallo. Credevo già di potermi felicitare con me stesso per avercela fatta, quando, d’un tratto, sentii dietro di me un rumore simile a quello di un uragano che scoppi sulle montagne. Mille voci confuse gridavano, urlavano, litigavano tra di loro. Poi tutte tacquero, quasi per comune accordo, e sentii un calpestìo precipitoso, come se una truppa di fantaccini si avvicinasse a passo di corsa. Spronai il cavallo al punto di lacerargli i fianchi. Una febbre ardente mi faceva scoppiare le arterie, e facevo sforzi inauditi per conservare la presenza di spirito. Dietro di me, una voce gridava:
    «Fermati, fermati, caro, tesoro, amore! Ti amo più della mia anima, più della mia salute. Fermati, fermati, il tuo sangue mi spetta».
    Nello stesso tempo, un respiro gelido mi sfiorò le orecchie, e sentii Sdenka saltare sulla groppa del mio cavallo, alle mie spalle.
    «Cuore mio, anima mia», diceva, «non vedo che te, non sento che te, ma non sono più padrona di me stessa, obbedisco a una forza sovrumana, perdonami, amore, perdonami.»
    E allacciandomi con le sue braccia, cercava di rovesciarmi all’indietro e di mordermi la gola. Ingaggiai una lotta terribile. A lungo cercai disperatamente di difendermi, e infine arrivai ad afferrarle con una mano la vita e con l’altra le trecce e, drizzandomi sulle staffe, la gettai a terra. Subito dopo, le forze mi abbandonarono e fui preso da una specie di delirio. Mille folli figure mi inseguivano con orribili smorfie. Dapprima Giorgio e suo fratello Pietro mi raggiunsero correndo: si misero al mio fianco cercando di tagliarmi la strada, ma non ci riuscivano. Già me ne stavo rallegrando, quando, voltandomi, scorsi il vecchio Gorča che usava il suo palo come un’asta per fare salti immensi come i montanari del Tirolo quando devono superare i crepacci.
    Poi, anche Gorča restò indietro. Allora sua cognata, che si trascinava dietro i bambini, gliene gettò uno che il vecchio Vampiro raccolse sulla punta del palo. Servendosene come di una fionda, lanciò il bambino con tutte le sue forze contro di me. Evitai il colpo, ma, con un vero istinto da bulldog, il piccolo rospo si attaccò al collo del mio cavallo e durai gran fatica a staccarlo. L’altro bambino mi fu scagliato contro nello stesso modo, ma cadde al di là del cavallo, e fu schiacciato dagli zoccoli.
    Non so che cosa vidi ancora, perché quando tornai in me era giorno fatto, e mi ritrovai sdraiato sulla strada, di fianco al mio cavallo che era all’estremo.

Così finì, signore mie, un amore giovanile di tal fatta che avrebbe dovuto farmi passare per sempre la voglia di cercarne altri. Qualche coetanea delle vostre nonne potrà dirvi se fui più prudente in seguito.
    Fremo ancora, comunque, all’idea che, se fossi rimasto vittima dei miei nemici, sarei divenuto anch’io come loro un Vampiro. Ma il cielo non permise che le cose arrivassero a tal punto, e così, invece d’aver sete del vostro sangue, signore mie, non domando nulla di meglio, per vecchio ch’io sia, di versare il mio al vostro servizio.



    * da Storie di Vampiri (Newton & Compton, 1994)
    ¹ Specie di corta sciabola turca (N.d.C.).