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  racconti  

 Sangue di Giornata
 Roger Zelazny
*

Dayblood - 1984 


Mi accovacciai nell’angolo della baracca, dietro la chiesa in rovina. L’umidità penetrò attraverso le ginocchia dei miei jeans, ma sapevo che la mia attesa stava per finire. Qualche filo di nebbia si alzò pittoresco dal terreno impregnato di acqua, per essere pigramente disperso dalla brezza che precede l’alba. Molto hollywoodiano...
    Guardai il cielo che si stava schiarendo, indovinando correttamente la direzione da cui sarebbero arrivati. Entro un minuto li vidi svolazzare: uno grosso e scuro, e un secondo più piccolo e pallido. Com’era prevedibile, entrarono nella chiesa attraverso un’apertura nel tetto, dove anni prima era crollato. Soppressi uno sbadiglio, controllando l’orologio. Entro quindici minuti si sarebbero sistemati a dormire, mentre il sole versava la mattina su tutto l’oriente. Magari anche prima, ma diamogli un po’ di margine. C’era ancora tempo.
    Mi stirai, feci schioccare le giunture delle mani. Avrei preferito essere a letto. Le notti sono fatte per dormire, non per fare da balia a un paio di stupidi vampiri.
    Proprio così, Virginia, i vampiri esistono. Non c’è da preoccuparsene troppo, comunque. È probabile che non ne incontriate mai uno. Non ce ne sono molti in circolazione. Anzi: sono praticamente una specie a rischio... cosa del tutto comprensibile, considerando il livello generale di intelligenza che ho riscontrato fra di loro.
    Prendete questo Brodsky, per esempio. Vive (pardon, risiede) vicino a una città con parecchie migliaia di abitanti. Potrebbe visitare una diversa persona ogni notte, per anni, senza mai ripetersi, lasciando i suoi fornitori (è il loro termine favorito, oggigiorno) con niente più che un piccolo dolore alla gola, una lieve anemia temporanea, e un paio di graffi al collo.
    Invece no. Si è preso una cotta per una bellezza locale, una certa Elaine Wilson, ex majorette. Tornava continuamente a succhiarla. Ben presto, lei è entrata nel solito coma ed è sopraggiunta la trasformazione in nosferatu. D’accordo, lo so di aver detto che non ce ne sono molti in circolazione, e personalmente sono del parere che qualche vampiro in più non farebbe male. Ma con Brodsky non si trattava di un’azione di ripopolamento, solo di stupidità e avidità. Nessuna finezza, nessuna pianificazione. E mentre io sono favorevole alla creazione di un altro membro della razza dei non-morti, sono talmente spaventato dalla avventatezza dei suoi metodi, da pensare a serie contromisure. Ha lasciato una traccia che quasi tutti sarebbero in grado di seguire; è riuscito anche a mettere in mostra tanti dei segni tradizionali, a lasciare tanti indizi che anche di questi tempi moderni una persona ragionevole avrebbe capito quello che stava succedendo.
    Povero vecchio Brodsky... vive ancora nel Medioevo, e si comporta come nei giorni della loro esplosione demografica. A quanto pare non gli è mai venuto in mente di considerare la progressione matematica di una cosa del genere. Succhia poche persone da cui si sente attratto, e questi diventano nosferatu. Se loro si comportano alla stessa maniera, questi vanno in giro e reclutano un altro po’ di fornitori. E così via. È come una catena di lettere. Dopo un po’ di tempo tutti sarebbero nosferatu, e non resterebbero più fornitori. E poi? Per fortuna la natura ha i suoi sistemi per arginare le esplosioni demografiche, anche a questo livello. Sta di fatto che un improvviso aumento delle reclute, in questa età di mass-media, potrebbe mandare davvero all’aria l’ecosistema sotterraneo.
    Ma basta con la filosofia. È ora di entrare prima che arrivi la folla.
    Presi la mia borsa di plastica e uscii dalla baracca, imprecando sotto voce quando andai a sbattere contro un palo, provocando una pioggia di polvere. Attraversai il campo, arrivai alla porta laterale del vecchio edificio. Era chiusa con un lucchetto arrugginito, che strappai e gettai nel cimitero.
    Una volta entrato, mi sedetti sulla balaustra cadente del coro e aprii la mia borsa. Ne presi l’album da disegno e la matita. La luce penetrava dalla finestra in frantumi dell’abside. Quello che rivelava erano soprattutto detriti. Non era una scena particolarmente affascinante. Comunque... cominciai a disegnare. È una bella cosa avere un hobby che serva come scusa per comportamenti strani, e per rompere il ghiaccio...
    Dieci minuti, pensai, al massimo.
    Sei minuti più tardi sentii le loro voci. Non che facessero molto rumore, ma io ho un udito eccezionalmente acuto. Erano in tre, come avevo immaginato.
    Passarono anche loro dalla porta laterale, furtivi e inquieti, guardandosi intorno senza vedere niente. All’inizio non videro neppure me che creavo arte, dove voci infantili avevano riempito le mattine domenicali con lodi stonate, molti anni prima.
    C’era il vecchio dottor Morgan, con parecchi pioli di legno che spuntavano dalla borsa nera (scommetto che c’era anche un martello; immagino che il giuramento di Ippocrate non si estenda ai non-morti: primum, non nocere, ecc.); e padre O’Brien, che stringeva la sua Bibbia come uno scudo, il crocefisso nell’altra mano; e il giovane Ben Kelman (il fidanzato di Elaine), con una pala sulle spalle e una borsa da cui doveva provenire l’improvviso odore d’aglio che avevo sentito.
    Tossicchiai, e i tre si fermarono di scatto e si voltarono, urtandosi a vicenda.
    - Salve, dottore - dissi. - Salve padre. Ben...
    - Wayne! - esclamò il dottore. - Cosa di fai qui?
    - Sto disegnando - dissi. - Sono nel periodo delle rovine.
    - Balle! - disse Ben. - Scusatemi, padre... Sei solo a caccia di un articolo per il tuo maledetto giornale!
    Scossi la testa.
    - No, davvero.
    - Be’, Gus non ti lascerebbe mai stampare niente su questa faccenda, e tu lo sai.
    - Te lo giuro - dissi - non sono qui per un articolo. Ma so perché siete qui voi, e hai ragione: anche se lo scrivessi non vedrebbe mai la luce. Credete davvero nei vampiri?
    Il dottore mi fissò con sguardo fermo.
    - Fino a poco tempo fa no - rispose. - Ma se tu avessi visto quello che ho visto io, figliolo, ci crederesti.
    Annuii e chiusi l’album.
    - D’accordo - dissi. - Sono qui perché sono curioso anch’io. Volevo vederlo con i miei occhi, ma non voglio scendere da solo. Portatemi con voi.
    Si scambiarono delle occhiate.
    - Non so... - disse Ben.
    - Non è una cosa per gente dallo stomaco debole - disse il dottore.
    Padre O’Brien si limito ad annuire.
    - Non so se è il caso che altri siano coinvolti - aggiunse Ben.
    - Quanti ne sono a conoscenza? - chiesi.
    - Solo noi, in effetti - spiegò Ben. - Siamo gli unici ad averlo visto in azione.
    - Un buon giornalista sa quando deve tenere la bocca chiusa - dissi io. - Ma è anche una creatura molto curiosa. Lasciatemi venire con voi.
    Ben alzò le spalle e il dottore annuì. Dopo un momento, anche padre O’Brien annuì.
    Rimisi album e matita nella borsa e scesi dalla balaustra.
    Li seguii attraverso la chiesa. Entrammo in un breve corridoio, superammo una porta aperta, sbilenca. Il dottore accese una torcia e fece scorrere il raggio su una scala malconcia, che spariva nel buio. Cominciò lentamente a scendere. Padre O’Brien lo seguì. Le scale scricchiolavano e sembravano muoversi. Ben e io aspettammo finché non arrivarono in fondo. Poi Ben infilò il suo sacco di puzzolenti verdure sotto la giacca e prese una torcia dalla tasca. L’accese e cominciò a scendere. Io ero proprio alle sue spalle.
    Mi fermai quando arrivammo ai piedi delle scale. Ai raggi delle loro torce vidi le due bare appoggiate ai cavalletti, e anche la cosa appesa alla parete, sopra quella più grande.
    - Padre, cos’è? - chiesi indicando.
    Qualcuno la illuminò con il raggio della torcia.
    - Sembra un ramo di vischio legato a una figura di cervo in pietra - disse lui.
    - Probabilmente ha qualcosa a che fare con la magia nera - suggerii.
    Lui si fece il segno della croce, e andò a staccarlo.
    - È probabile - disse, strappando il vischio e gettandolo sul pavimento, spezzando la statuina sul pavimento e prendendone a calci i frammenti.
    Io sorrisi e mi feci avanti.
    - Apriamole e diamoci un’occhiata - disse il dottore.
    Diedi loro una mano.
    Quando le bare furono aperte, ignorai i commenti sul pallore, la conservazione, le bocche insanguinate. Brodsky aveva il suo aspetto di sempre: capelli scuri, sopracciglia pesanti, pappagorgia e un po’ di pancetta. La ragazza invece era deliziosa. Più alta di quanto avessi pensato, con una lievissima pulsazione alla gola e una sfumatura quasi azzurra della pelle.
    Padre O’Brien aprì la sua Bibbia e cominciò a leggere, tenendo su di essa la torcia con mano tremante. Il dottore appoggiò a terra la borsa e ci frugò dentro.
    Ben distolse gli occhi, pieni di lacrime. Fu allora che gli spezzai il collo, silenziosamente, mentre gli altri erano occupati. Lo appoggiai al pavimento e mi avvicinai al dottore.
    - Cosa...? - cominciò lui, e questa fu la sua ultima parola.
    Padre O’Brien smise di leggere. Mi guardò da sopra la Bibbia.
    - Lavori per loro? - chiese con voce rauca, gettando un’occhiata alle bare.
    - Niente affatto - dissi io. - Ma ne ho bisogno. Sono il sangue della mia vita.
    - Non capisco...
    - Ogni cosa è preda di qualcos’altro, e ciascuno fa ciò che deve. È l’ecologia. Mi spiace, padre.
    Usai la pala di Ben per seppellirli sotto una parte del pavimento sterrata, con aglio, paletti e tutto il resto. Poi chiusi le bare e le portai di sopra.
    Mi guardai bene intorno mentre riattraversavo il campo e percorrevo la strada, fino al furgone. Era ancora relativamente presto, e non c’era nessuno in giro.
    Li caricai tutti e due sul retro, e li coprii con un telone. C’erano una cinquantina di chilometri per un’altra chiesa in rovina che conoscevo.
    Più tardi, quando li ebbi sistemati al sicuro nella loro nuova residenza, scrissi un biglietto e lo misi nella mano di Brodsky.

 

Caro B,
    ti serva di lezione. Devi smetterla di comportarti come Bela Lugosi. Non hai la sua classe. Sei fortunato a svegliarti questa sera. In futuro cerca di essere più circospetto nelle tue attività, altrimenti ti ritirerò io stesso. Dopo tutto, non sono il tuo servitore.

  Sinceramente tuo,         
W         
 

P.S. Il vischio e la statua di Cernunno non funzionano più. Perché sei diventato superstizioso all’improvviso?


    Guardai l’orologio mentre uscivo. Erano le undici e un quarto. Mi fermai a una stazione di servizio, poco dopo, e usai il telefono esterno.
    - Pronto, Kiela? - dissi quando sentii la sua voce. - Sono io.
    - Werdeth - disse lei. - È un po’ che non ti sento.
    - Lo so. Ho avuto da fare.
    - Con cosa?
    - Lo sai dov’è la vecchia Chiesa degli Apostoli, vicino alla statale 6?
    - Naturalmente. È sulla mia lista di riserva.
    - Troviamoci lì alle dodici e mezzo, e ti racconterò tutto mentre pranziamo.



    * da Fuoco e gelo (Mondadori, 1993)