C’ero una volta io. Ero un Principe, ma non di quelli che fanno sfoggio della loro avvenenza dall’alto di
un cavallo bianco. Io ero un principe pelato, con la faccia da topo,
vestito di stracci.
Abitavo nella palude di Versailles, il luogo più ingrato di
Francia, un deserto di sabbia semovente in cui nessuno aveva fegato
d’avventurarsi. C’erano con me altri quindici vampiri, tutti di
nobili origini e tutti ugualmente calvi e malridotti. Stirpe guerriera
la nostra che aveva conosciuto gloria e ricchezza, conquistando
castelli e distese infinite di terra. Ma gli uomini, ingrati, ci
chiamavano Condottieri quando annientavamo i loro nemici, e Tiranni
quando esigevamo il prezzo della vittoria.
Decidemmo di vivere in un orgoglioso esilio. Avevamo scavato le nostre
tane in una collina seminascosta da un canneto, proprio nel mezzo di
un putrido stagno. Pur rimpiangendo la vita di un tempo, avevamo
imparato ad apprezzare i vantaggi della palude: lì nessuno sarebbe
giunto a sorprenderci durante il sonno o a interrompere i lunghi
conversari notturni durante i quali rievocavamo le nostre imprese e la
nostra Età dell’Oro. A ogni risveglio, dopo aver innalzato odi alla
Luna nostra Regina, il primo canto era per il principe Varney, il
Grande Pipistrello fondatore del nostro Ordine in antico. Una canzone
ricordava l’uccisione di Attila Re degli Unni, al termine di un
giorno di battaglia. E faceva così:
«Tant
a feru, tant a maillé
Qu’il se sent las et travaillé
Qu’à force le couvient suer;
Si print son vis à essuier
Et ainsi comme il s’essuia
A Varney il se livra
Un
bruit d’ailes effleura son cou
Et le Grand Roi Attila mourut.»
(Tanto ha colpito, tanto
ha straziato
Ch’egli si sente stanco e affaticato
E comincia a sudare molto;
sì che prende ad asciugarsi il volto
così mentre si asciugava
a Varney si consegnava…
prima che Attila se ne fosse accorto
frusciarono le ali ed era morto). |
Tra noi non c’erano donne. Chi cercava una compagna era sempre libero di
andarsene in un’altra comunità. Il nostro era un Ordine
rigorosamente maschile. Le donne dividono
Al sorgere d’ogni luna
nuova, quando più forte si faceva il richiamo del sangue, ci
trasformavamo in pipistrelli e volavamo a Parigi. C’era un tacito
patto di non aggressione tra noi e gli abitanti dei villaggi intorno
alla palude. E poi Parigi era ricca di prede facili e appetibili.
Centinaia di vedove e donne sole non attendevano altro che spalancarci
le braccia e quasi sempre si trovavano neonati negli androni bui o
alla porta della Cattedrale. Noi volavamo a loro cantando:
Hé
Ahé, Hé Ahé
Les enfants Je vais retirer
Les enfants oubliés.
Hé Ahé, Hé Ahé
Vado a riscuotere i
bambini
I bambini abbandonati. |
Le strade, non ancora
rischiarate dall’illuminazione notturna, erano il teatro ideale
dei nostri assalti. Piombavamo all’improvviso sulle carrozze degli
aristocratici e attaccavamo briga coi moschettieri, incuranti del
numero, uscendone sempre vittoriosi.
Si rientrava alla palude
gonfi di sangue fresco, felici d’esserci riconfermati guerrieri e
di poter scegliere da soli il momento della battaglia e quello della
tregua. Che ci serviva di più? Case, ricchezze, armi, servi…
tutto ciò non valeva la libertà.Era una buona vita. Fino a quel
cupo giorno di dicembre del 1661. Ricordo che mi svegliai in
allarme. Udivo gli sciacquii cadenzati di molti passi nel fango, tra
gli avvisi di chi indicava il cammino più sicuro. E subito, alti si
levarono i richiami dei camerati. Un grido stridulo e prolungato:
“C’è qualcosa.” Un grido più breve seguito da un altro più
basso di tono: “Aduniamoci.”
Rapidi sbucammo dalle tane. Saranno stati cinquanta o sessanta tra
moschettieri e gendarmi. Avanzavano disordinatamente tra un ciuffo
d’erba e l’altro, sprofondando nella mota fino al ginocchio,
confusi da una nebbia bianca e densa che strisciava sulla superficie
del pantano. Si fermarono all’altezza d’un salice morto che
pendeva tutto obliquo sullo stagno, quasi che una mano invisibile ne
avesse miracolosamente arrestato la caduta, e ci videro, creature
pallide e minacciose tra i giunchi.
Quantunque ci dividesse ancora
molto spazio, snudarono le spade e levarono le picche a difesa,
cercando di raggrupparsi. Ma un uomo con una lunga palandrana nera
si fece largo tra loro e ci gridò: “Io sono il Giardiniere del
Re, André Le Nôtre. Chi siete voi che mi sbarrate il passo?”
Risposi con grande
fermezza: “Avete di fronte i sedici Principi dell’Ordine del
Grande Pipistrello. Viviamo in pace nelle nostre terre e non
chiediamo che d’essere lasciati tranquilli. Se nutrite propositi
bellicosi, recedete immediatamente o vi stermineremo tutti.”
Allora il Giardiniere del Re, incredulo davanti a tanto ardimento e
vedendo i propri uomini intimiditi e insicuri, cercò parole più
prudenti.
“La gente dei villaggi mi ha parlato del vostro Ordine. Vi
dipingono come uomini valorosi usi a sopportare ogni disagio. Dicono
anche che vivete di notte e che sapete veder nel buio. E alcuni si
spingono a conferirvi un’aura demoniaca… Ora, consentitemi, io
trovo una tribù male in arnese e dovrei concluderne che il popolo
è infaticabile nel creare leggende. Sappiate comunque che non è
nostra intenzione nuocervi. Anzi, se vorrete aggiungere i vostri
sforzi ai nostri sarete ben compensati. Un nuovo destino si prepara
per queste terre desolate. Il Re intende stabilire qui la propria
residenza e sorgeranno palazzi dove ora son baracche e spianeremo le
colline e pianteremo alberi altissimi e scaveremo canali, finché
questa triste palude non sia mutata nel più grande e magnifico
giardino che la Francia e il mondo abbiano mai conosciuto.”
Questo disse André Le Nôtre perché ci ritenessimo avvisati e poi,
senza attender risposta, se ne andò con i suoi uomini.
Quella notte il Principe Lambert, Custode dei nostri riti, raccolse
in un bacile di bronzo dell’acqua di palude. La offrì alla Luna e
pronunciò queste parole:
“Io vengo davanti a te, o Regina, a contemplare la tua raggiante
bellezza! Guarda, le mie braccia sono levate in adorazione. Specchia
il tuo volto nel fango, qui dove Hum e Ni si mescolano. E guarda Hum
che è il grande Nero da cui tutto nasce, e guarda Ni che è il
Giallo d’argilla da cui creasti gli uomini.”
E dopo che ebbe parlato gettò un pugno di sabbia nel bacile e
subito la melma si spartì dall’acqua, e quella gialla e pesante,
si aggrumò al centro, e questa, nera e vischiosa, si depositò
tutt’intorno.
Allora il Principe Lambert chinò il capo, corrucciato, e
comprendemmo che il presagio era infausto.
Per molte lune non vedemmo
riapparire il Giardiniere del Re, ma i segni della sua presenza
erano ovunque. Nel casino di caccia del Castello si andava radunando
un gran numero di uomini arruolati a forza nei villaggi e altri
giardinieri e inventori di macchine prodigiose, capaci di separare
l’acqua dal fango.Di
nuovo ci riunimmo in consiglio e il Principe Honoré, che era il più
fiero, disse:
“Chiederemo ancora risposte agli oracoli? Ogni ulteriore indugio
ci condanna. Non abbiamo scelta. Le Nôtre che ne ha offerta una
sola: lavorare manualmente, e ciò offende la nostra dignità.
Dunque io dico: spargiamoci tra gli uomini e facciamone strage. E se
non dovesse bastare il terrore a fermarli, affrontiamo la morte a
viso aperto, in un’ultima grande battaglia. Noi sedici contro
l’intera Francia.”
“Vi sono altre soluzioni,” disse il Principe Lambert, “ed è
bene considerarle tutte per non prendere decisioni avventate. Vi dirò
subito la prima: andarcene.”
“Di’ piuttosto fuggire!” tuonò il Principe Honoré. “E fino
a quando, fin dove? Abbiamo difeso la terra altrui e non sappiamo
difendere la nostra?”
“Potremmo rifugiarci a Parigi.”
“Valutammo anche questa possibilità, in silenzio. Poi il Principe
Alain espresse il comune sentire.
“Vivremo allora tra il fetore delle case, in quartieri dove i
gendarmi non osano spingersi, diventeremo familiari di puttane da
strada che ci schizzeranno addosso il rivolo della fogna vomitando
volgarità. E chi di noi dovesse essere catturato sarebbe recluso
nei manicomi o in pozzi invasi dall’acqua. Piano piano cercheremo
salvezza divisi. Ciascuno troverà la sua vedova e avrà un tetto,
un asilo sicuro, forse anche dei figli. È questo che vogliamo?
Nessuno lo voleva. Io meno degli altri.
C’era stato un tempo in cui la solitudine m’era diventata un
fardello insopportabile. Allora io vivevo in un palazzo sontuoso,
assistito da ventotto domestici. Avevo due carrozze, dodici cavalli,
potevo disporre pienamente del mio tempo e lo passavo a intristire.
Così si insinuò nel mio
animo una donna. Mi fu facile averla, non fece nulla per difendersi.
Non mostrò mai paura né odio. Aveva trovato una casa.
E io la guardavo attraversare le stanze, oggetto seducente e
detestabile, sicura in ogni cosa facesse, e se qualcosa o qualcuno
le mancava, non lo dava a vedere. Sfiorava una fruttiera d’oro, il
dito sul margine, e io pensavo che l’apprezzasse, ma lei diceva:
“Le pere non sono ancora mature.” Scostava le tende di taffettà
porpora di Cina e diceva: “È notte, vuoi uscire?” Le rispondevo
che desideravo solo la sua compagnia e lei mi derideva chiamandomi
bugiardo. Se ne soffrivo, trovava il modo d’avvilirmi
maggiormente, se la sfidavo mi puniva con la sua indifferenza.
Finché una notte penetrai nella sua camera: l’avevo sentita
rientrare da poco e già dormiva con un incredibile sorriso sulle
labbra. Finalmente potevo vederla appagata e felice. Poi sentii il
profumo del sangue. La sua veste ne era intrisa. Le unghie
stringevano un ciuffo di capelli macchiati.
La mia stessa razza! Lei era come me, lo era da prima che la
incontrassi. Per questo motivo, solo per questo, avevo saputo
resistere alla tentazione di morderla e contagiarla: la sua carne
era morta e un’atavica repulsione mi impediva di farla
compitamente mia. Del tutto cieco, avevo scambiato quella repulsione
per rispetto e quel rispetto per amore.
Lei me l’aveva lasciato credere, non si era mai svelata. E così
mi aveva avvinto e fatto sua preda. Aveva fatto questo a me,
Principe guerriero e cacciatore! Potevo tollerare quell’onta?
Divelsi una colonnina dal letto e le trapassai il seno con le
schegge appuntite. Poi abbandonai la casa e gli averi, deciso a non
ricader mai più nell’errore.
I Principi attendevano le mie decisioni. Tutti avevano parlato
e i più sospiravano una morte gloriosa.
Ma io dissi: “Se un esercito verrà a contrastarci noi lo
combatteremo. Ma ora abbiamo un altro nemico. Egli non si mostra e
scava e corrode la terra senza bisogno di conquistarla. È il suo
lavoro che dobbiamo fermare. Dunque resterete a presidio della
palude mentre io, io solo, volerò a Parigi e al mio ritorno vi
recherò la testa di André Le Nôtre.”
I camerati allora intonarono il Canto dell’Eroe, che dice:
“Apri
le ali, Grande Pipistrello,
E spacca, spacca il cranio al nemico
E spezza, spezza il collo all’importuno!”
|
Trovare André Le Nôtre fu molto semplice: tutta la città sapeva
che abitava alle Tuileries. Sorvolai i giardini guardandoli con
occhi nuovi perché mi svelassero qualcosa dell’uomo. Dall’alto
sembravano un enorme tappeto orientale… ricami di fiori, aiuole
perfettamente disegnate, grandi fontane, giochi d’acqua segreti…
mai ordito fu più preciso, persino gli amanti che si inseguivano
lungo i viali e quelli che si appartavano tra i cespugli, senza
saperlo obbedivano a un movimento regolato e prestabilito.
Rintracciai subito lo studio di Le Nôtre. Era una stanza molto
ampia con quattro finestre. Pochi mobili semplicissimi, senza
dorature, e alcuni grandi tavoli da lavoro ingombri di disegni e di
calcoli.
Riacquistai forma umana davanti a una scrivania a otto piedi, al
centro della stanza. L’intero ripiano era occupato da una carta
della campagna tutt’intorno al Castello Reale, tracciata in
inchiostro nero e divisa in linee perpendicolari e riquadri formati
da spilli di diverse dimensioni e colori. Corrispondevano a questi
riquadri molte tavole di dettaglio, fitte di indicazioni e
proporzioni e di calcoli algebrici pressoché indecifrabili. Mi
inoltravo in un esame sempre più accurato e come per incanto vedevo
sorgere laghi e canali e boschi ombrosi sotto quell’intrico di
spilli e mi dicevo: “Ti sbagli. Non può essere. Non si può
trasformare a tal punto la palude se non nei secoli.”
Il lucore di una lampada annunciò Le Nôtre. Era in veste da
camera, senza parrucca. Non sarebbe stato particolarmente eroico
ucciderlo. Lasciai che si sfogasse.
“Chi siete? Come ardite presentarvi a quest’ora? Andatevene o vi
farò cacciare dai servi.”
“Vengo ora perché è stanotte che il mio Ordine ha deciso.”
Mi guardò come si guarda un pazzo, poi ricordando, poggiò il lume
rassicurato: “Ah, voi siete di quella tribù nella palude…
Sbrigatevi, ditemi che intendete fare.”
Indicai la carta e dissi: “In verità signore, son le vostre
intenzioni a essere oscure. Pretendete di mutare la melma in solida
terra, volete erigere statue dove il peso di un solo uomo
sprofonda… La palude inghiottirà i vostri disegni.”
“Sono molto stanco,” rispose illuminandomi la strada, come per
congedarmi, “non voglio discutere. Sappiate comunque che qualunque
decisione abbiate preso, in quattro o cinque anni vi cambierà il
mondo intorno. È un’impresa ciclopica, ma la compiremo. Lotteremo
giorno per giorno, senza interruzione, finché la natura domata non
si piegherà al nostro volere. E io disegnerò prati e sentieri
dov’era solo fango. Perché è là che voglio disegnare, queste
son carte che volano.”
Avrei potuto ucciderlo ora. Mi accompagnava alla porta misurando i
passi, le spalle curve, la nuca scoperta…
Continuò: “Comprendo le vostre esitazioni. Avete conosciuto una
vita grama e certo si è spenta in voi ogni speranza di migliorarla.
Ma vi ripeto: se saprete aiutarmi, ne ricaverete grandi privilegi.
Il vostro Ordine sarà stimato come uno dei più nobili di Francia,
sarete riconosciuti da Re medesimo e ammessi a Corte. Se però avete
in odio il mio progetto o non siete in grado di giocarvi parte
alcuna, allora più nulla dipenderà da me o da voi. La Reggia di
Versailles esisterà perché deve esistere.”
Mi salutò con rispetto e restò sulla soglia a farmi luce. Mi
trovai fuori come un idiota a chiedermi perché non avessi agito.
Potevo ancora farlo…
“Le Nôtre!” esclamai, “tu non potrai mai realizzare il tuo
sogno senza di noi. Neppure sai quanto ti siamo necessari. Purtroppo
per te i riconoscimenti di Corte non ci interessano affatto. Noi
siamo già un Ordine e siamo liberi. Tuttavia, se potremo disporre
delle tue squadre come padroni assoluti, allora sì, a quest’unica
condizione noi ti garantiamo che allo spuntare d’ogni alba vedrai
il paesaggio mutato.”
Faceva freddo là fuori, eppure Le Nôtre non mostrava più alcuna
fretta di ritirarsi.
“Intendete lavorare di notte? Per la verità parlate come un
millantatore, ma la vostra sicurezza mi sorprende.”
Sostenne il mio sguardo, ma fu il primo ad abbassare gli occhi.
“Va bene,” concluse, “vi metterò alla prova.”
Al mio ritorno dovetti fronteggiare la fiera opposizione del
Principe Honorè. Poco macò ch’egli mi desse del traditore. “Io
mi batto per la preservazione del nostro Ordine,” proclamai
orgogliosamente, “e qui ho sentito parlare solo di fuga, di morti
eroiche e di dissoluzione. È vero. Ho mancato al mio compito, non
ho ucciso Andrè Le Nôtre. Ma avreste dovuto vedere come io ho
visto, dispiegato davanti gli occhi, il suo progetto. Nulla si è
tentato di così grandioso dai tempi delle Piramidi. Da tutta la
Francia i nobili, i ricchi, i colti accorreranno alla nuova
Versailles, e porteranno con sé le lor dame e le femmine più belle
d’Europa. Non avremo più bisogno di respirare l’aria infetta di
Parigi, avremo qui il nostro diletto. Prenderemo piacere dalle loro
donne, decideremo dei loro destini politici, disporremo del loro
sangue. Camerati, edificheremo la nuova Reggia perché sia
nostra.”
Ah, non m’avessero dato ascolto! E invece si entusiasmarono. Il
Principe Honoré chinò il capo e piegò il ginocchio, gli altri
unanimemente asserirono di non aver mai dubitato di me e tutti
insieme intonarono canti di guerra mentre io li portavo alla rovina.
Gli uccelli lacustri insidiati
si alzavano in volo tra strepiti di canne spezzate e stridule grida
di folaghe risuonavano all’intorno come lamenti di gente
assassinata, mentre migliaia di operai e reggimenti di Svizzeri
avanzavano implacabili a prosciugare gli stagni. Persino il maestoso
airone ebbe spezzato il volo e fu trascinato via, la testa
penzoloni, le penne intrise di sangue, dal fiume vorticoso di fango
risvegliato dalle possenti macchine idrauliche.
Il lavoro non conosceva
soste, se qualcuno cadeva ce n’erano due a sostituirlo. Di notte
si accendevano lunghi filari di lampade appese alle pertiche e
dondolavano all’aria e alla terra, sussultante all’urto delle
zappe come cosa viva.
Noi comandavamo sedici squadre di trenta uomini l’una. Li
sceglievamo ogni giorno, un’ora dopo il tramonto, con estrema
attenzione. Diffidavamo dei contadini troppo esperti nell’arte di
misurar le forze e di far apparire grandi dei risultati modesti,
come anche dei soldati svogliati e incapaci, e dei delinquenti
sempre pronti a coalizzarsi per resistere alle intimazioni.
Cercavamo giovani validi che s’appagassero nel dar prova di forza,
e borghesi dei villaggi vicini i quali credevano nell’impresa,
confidando che la nuova Versailles avrebbe incrementato le loro
fortune. E ancora sceglievamo ciechi faticatori abbandonati al
proprio destino infelice, disposti ad accettare anche la morte.
Non formavamo mai le squadre con gli stessi uomini e alla fine
d’ogni turno di lavoro li spedivamo a dormire in capanne sempre
diverse e separate le une dalle altre, perché non si creassero
solidarietà inopportune.
Il cibo era scarsissimo: zuppa collettiva, due libbre di pane di
segala, quattro castagne e una tazza di caffè d’orzo a testa. Chi
si era distinto riceveva una libbra di pane in sovrappiù, ma la
assegnavamo di rado affinché non concludessero che uno di loro
l’avrebbe comunque guadagnata.
Al principio fu necessario vincere con ogni mezzo la loro naturale
ritrosia ad immergersi fino ai fianchi in quelle intricate matasse
d’erbe scure e gelatinose, che incessantemente risalivano alla
superficie e li avviticchiavano con tentacoli infetti, pullulanti di
sanguisughe. Se uno cadeva in quella vegetazione infida,
difficilmente ne usciva. E noi impedivamo in ogni caso che gli si
portasse soccorso. In questo modo evitavamo il proliferare di falsi
malori e inutili sospensioni del lavoro. I più timorosi li
minacciavamo di castrazione e presto non avemmo più bisogno di
ripeterlo: erano gli stessi compagni a ricordarglielo, memori dei
primi esempi ed eccitati dalla nostra ferocia.
Unica consolazione dei nostri uomini era la piena, assoluta licenza
di bestemmiare contro tutti i Santi del cielo e contro lo stesso Re
e la Corte. Con quanto gusto profittavano di quella libertà! Dal
pantano si levavano possenti cori d’ingiurie, litanie sacrileghe
che ci riconfermavano padroni di quella terra.
Per riposare indisturbati avevamo ottenuto che ci fosse assegnata
una collina lontana, a più di tre leghe da Versailles. Dapprima
l’avevamo semplicemente presa, ma Le Nôtre presto volle recarci
di persona un atto di notazione con il marchio regale a esternarci
gratitudine, perché i progressi erano stupefacenti e le notti
rendevano più dei giorni. Egli non si curava affatto della nostra
insolenza e neppure del fatto che molti dei nostri operai trovassero
la morte. Era pressoché inevitabile al buio. Quanto alle ferite,
allo strano aspetto di certi cadaveri (le membra ritorte, come
prosciugate del sangue…) tutto ciò egli lo imputava ai vivai di
sanguisughe e alle bisce nascoste nella melma del fondo. Ci sollecitò
dunque a continuare con quel ritmo, rallegrandosi vivamente della
nostra opera.
Il Principe Alain fu incaricato di livellare la nostra vecchia
collina in grandi terrazzamenti proporzionati. Si trattava in primo
luogo di scavar canali per dissestare il terreno. In quelle fosse
mulinava acqua limacciosa, permanentemente agitata da grosse bolle
affioranti. Con dolore vedemmo il salice, strappato alle sue radici,
cadere giù risucchiato dall’immenso gorgo nero, crollare uno dopo
l’altro i macchioni di canne, franare le nostre antiche tane,
mentre dal fondo si levavano cupi muggiti, quasi che l’anima della
stessa palude si rivoltasse.
Il Principe Alain, consumato dall’ansia, mi disse. “Non lo senti
anche tu? È come un’implorazione. V’è qualcosa qua sotto,
un’esistenza che rifiuta la morte.”
Sommessamente recitai un canto che avevo appreso dal principe Varney
III, nella nostra antica lingua:
Oh terra,
grande terra
oh terra profonda,
ingorda terra,
chi sta in agguato
con artigli come uncini di ferro?
Chi ara il suo campo a rovescio
scavando solchi dagli abissi infiniti?
Suona come irrisione la sua eco.
Oh terra, grande terra
oh terra profonda, ingorda terra.” |
Gli uomini continuavano il lavoro di drenaggio e gli ultimi rospi sguazzavano via atterriti
e le libellule si spargevano in ogni direzione, mentre la melma si
gonfiava gorgogliando. Abbandonati gli arnesi, i lavoranti si
ritraevano sbigottiti. Alcuni gridarono: “Bourrus! Bourrus!”
Salì a galla un animale sgraziato, tutto collo e coda. Liberò le
squame dal fango e si rovesciò sul ventre di lucertola, morto. Gli
uomini come ebbri trassero a secco quel povero mostro e lo fecero a
brani, esultando.
Il Principe Alain li lasciò festeggiare fino all’alba, covando
disgusto. La notte successiva pretese per sé la stessa squadra e
quantunque io non giudicassi affatto saggio contravvenire alle
regole, non provai neppure a dissuaderlo, per non offenderlo.
Egli spinse gli uomini a raddoppiare gli sforzi per recuperare il
tempo perduto e quelli, sfiancati, cadevano ripetutamente. Finché
uno, che si credeva il più scaltro e era il più idiota, uscì dal
gruppo e sostenendo d’aver perso un ciondolo nel fango, chiese il
permesso di poterlo cercare. Lo chiese a voce alta, mettendosi in
vista e già l’intera squadra ne aveva tratto pretesto per sostare
e valutare la reazione del principe. Con grande sorpresa di tutti,
il Principe Alain accondiscese.
L’uomo saltò nella fossa appena scavata e cominciò a cercare. I
compagni lo solleticavano: “È là No, da quell’altra parte, non
vedi come luccica?” Finché comprese che la beffa volgeva al
peggio: il silenzio del Principe lo inquietava e il canale era
troppo viscido. Disse che rinunciava, ma il Principe Alain gli
impose di continuare finché non rinvenisse ciò che credeva
d’aver preso.
La squadra assisteva immobile, si era fatto un gran silenzio…
giungeva da lontano come un ribollire della campagna.
“L’acqua!” gridò qualcuno. “Hanno aperto le chiuse!”
tutto tremante, l’uomo nella buca cercò di trarsi fuori e il
principe lo ricacciò giù. “Cerca, continua a cercare.”
Alcune lanterne rovinarono a terra e la fossa tremò accogliendo un
fiume schiumante di melma che travolse l’uomo del ciondolo e due
compagni che gli porgevano aiuto per uscire.
Quindi il principe ordinò che si riprendesse il lavoro e la squadra
obbedì senza protestare. Avevano appreso.
L’incidente che avvenne qualche notte dopo confermò le mie
peggiori supposizioni. Mentre dirigeva la squadra dall’alto di un
grosso mucchio di ghiaia, il Principe Alain perse misteriosamente
l’equilibrio e ruzzolò giù sulle punte aguzze delle pietre.
Ferito, tentò di rialzarsi sul bianco tappeto franoso e subito un
altro mucchio di ghiaia gli si rovesciò addosso.
I lavoranti si misero a scavare nella più totale confusione, finché
lo trassero alla luce. Una pietra gli aveva spaccato il cranio.
Anche se non potevamo provarlo non avevamo dubbi: i lavoranti
avevano cominciato a rivolgere contro di noi l’odio che prima
riservavano alla palude e al Re.
Ci riunimmo a consiglio e prevalse l’avviso di non punire la
squadra, ma i suoi singoli componenti. Li dividemmo in altri gruppi
e li uccidemmo, uno alla volta, di stenti e di maltrattamenti non
senza averli costretti a lavorare oltre ogni limite umano. Questo
era il nostro primo scopo e anche la vendetta doveva congiurarvi.
Anche a tarda notte giungevano a Versailles gli alberi. Arrivavano
su lunghi carri di legno e di ferro trainati da buoi. Arrivavano
coricati, imprigionati dalle funi, con le chiome ribelli. E i nostri
uomini si interrogavano a gran voce: “Che sarà quello?” “un
tiglio di Compiègne!” “un faggio di Fiandra!” Ne erano
incantati perché la più parte di loro non aveva conosciuto che i
boschi della zona, poveri d’alberi d’alto fusto e senza varietà
di specie.
Per due leghe intorno la campagna era ormai un intrico di canali che
rubavano l’acqua agli stagni, ai pozzi, ai fiumiciattoli dei
dintorni. Duecentoventitrè pompe lavoravano incessantemente
portando fino a noi l’acqua della Senna. Tutto ciò non poteva
esser fatto senza pagare un alto prezzo di vite. Vedevamo vicina la
fine dei nostri sforzi e li raddoppiavamo esigendo l’impossibile
dalle squadre.
Morirono, o furono uccisi, anche il Principe Lambert e il Principe
Armand. Mi mostrarono i loro corpi stritolati da una macchina
idraulica. Le Nôtre era lì. Disse che non avrebbe tollerato altri
“incidenti”. Mi chiese di sospendere il lavoro per una notte e
di recarmi a colloquio da lui.
Dovetti rassicurare i camerati. Se Le Nôtre intende venir meno ai
patti e toglierci il potere di vita e di morte sulle squadre, allora
vi prometto che non lo risparmierò una seconda volta.” Così
dicendo consegnai il comando al Principe Honoré e volai
all’appuntamento.
Il giardino aveva preso forma, ma conservava qualcosa d’irrealizzato.
Tutte le simmetrie dei boschi e dei parterres convergevano su
un lungo confine, un varco verde che divideva in due il parco. Quel
vuoto inquietava.
André Le Nôtre attendeva sulla grande terrazza davanti al
castello, avvolto nella sua gualdrappa nera. Non mi sentì arrivare
e sobbalzò quando mi vide al suo fianco in forma umana.
“Voi comparite sempre all’improvviso,” protestò debolmente.
“Ma sono lieto che siate qui. Vi prego… guardate il parco e
ditemi se vi soddisfa.”
“V’è un ragno che costruisce trappole simili a questa,”
risposi. “Sistema tutt’intorno alla sua tana un labirinto di
fili d’erba e in mezzo lascia uno spazio aperto, irresistibile
attrattiva per gli insetti. Essi vi corrono, felici di trovare il
terreno sgombro, ma proprio in fondo a quel sentiero, il ragno è in
agguato.”
Le Nôtre sorrise.
“Voi prendete la vita troppo tragicamente. Vi sono trappole in cui
val la pena di cadere perché nascondono delizie.”
“S’accorse subito che non ero lì per scambiar facezie e proseguì
in tono accorato: “Non sottovaluto quanto state facendo. Il lavoro
non sarebbe progredito così speditamente senza di voi. Ma spero
condividiate le mie preoccupazioni. Già tre dei vostri sono morti,
e potrebbe accadere anche ad altri. Volete che con l’opera si
compia anche il vostro destino?”
Era alla mia mercé, nella solitudine del parco, senza una sola
guardia nelle vicinanze, ma giocava con me come il gatto col topo.
“Seguitemi,” disse con un lieve inchino, “ho qualcosa da
mostrarvi.” Giunti accanto alle vetrate, mi invitò ad entrare. Ma
prima aggiunse: “Questo non basterà certo a sdebitarmi, ma è
perché sappiate che il tempo della sofferenza è finito. Credetemi.
Io voglio il vostro bene.”
Chiuse la porta dietro di me, discretamente. Mi ritrovai in uno dei
saloni della Grande Galerie, pervaso da una lieve brezza proveniente
dalle numerose finestre a foggia d’arco quasi tutte spalancate. La
luna baciava i pilastri di marmo, le arcate e i capitelli di bronzo,
da ogni parte nel buio brillavano soli, corone e gigli dorati. Gli
dei, sui loro piedistalli infiorati a ghirlande, invitavano a una
sorta di mollezza smemorata.
Al centro dell’ambiente, in evidenza, un gruppo mal collocato,
quasi fosse stato scaricato lì in attesa di trovar la sua nicchia.
Sulla sinistra un alto basamento di marmo, sulla destra circondato
da sei Ninfe bellissime, Apollo, divinamente indifferente.
Percepii una presenza… un passo leggerissimo, una lieve
alterazione dell’aria, per pochi attimi, ma sufficienti a destare
in me l’istinto del cacciatore. Era vicina, molto vicina, sentivo
il suo profumo d’ambrosia, udivo il suo respiro, perché non
riuscivo a scorgerla?
Giochi di luna animavano il viso di Apollo. Ora il gruppo marmoreo
mi pareva diverso. Passai in rassegna le Ninfe… una versava
l’acqua sulla mano del Dio, un’altra raccoglieva amorosamente
quella che gli scivolava dal corpo, due gli lavavano i piedi, una
quinta sollevava un’anfora rivelando la nudità dei seni.
L’ultima fremeva in disparte, timida, ansiosa… l’ultima che
ero sicuro d’aver già visto. Ma ora ce n’era una settima,
figlia di un’immaginazione licenziosa, completamente nuda.
Ah, la luna non poteva eguagliare la lucentezza del suo corpo e
nessuno scultore avrebbe saputo tornire quelle braccia, ricamarne i
pori, imitare la fragranza dei suoi seni…
Si animò, e come Pigmallione potei infine sentirla viva accanto a
me, smaniosa di provocarmi ai godimenti d’amore.
Per tutta la notte mi trattenni con quella sconosciuta cortigiana e
la esaltai e la tormentai, finché ella stessa mi implorò di
prendermi il mio piacere. Allora le poggiai le labbra sul collo e la
morsi lentamente fino a farle sgorgare il sangue.
Ed ella si inebriava cospargendosi i seni del suo stesso sangue per
eccitarmi a continuare, così la succhiai ancora e ancora e ancora,
godendo nel sentirla morire tra le mie braccia.
Sorgeva l’alba e mi avvidi che le arcate davanti alle finestre
erano tutte ornate di specchi. Se non trovavo immediatamente un
nascondiglio ero perduto. Inoltre realizzai che se avessero scoperto
il cadavere della cortigiana, gli uomini avrebbero avuto un nuovo
motivo per scatenare la vendetta contro di me e i miei camerati.
Trascinai la vittima al basamento delle statue e la coricai sul
fondo. Poi, celatomi là dentro anch’io, feci scorrere la pesante
lastra del coperchio sui nostri corpi distesi. Irrigidito in quella
bara di pietra, accanto a colei che avevo ucciso, dormii a lungo
senza coscienza e senza sogni.
Il risveglio fu angoscioso. Sentivo che qualcosa di terribile stava
succedendo. Risuonava in me il richiamo dei camerati, ma com’era
fioco! Dapprima imputai la cosa al letargo. Cercavo di sollevare il
coperchio, ma per quanti sforzi facessi non ci riuscivo, ormai ero
desto, il nuovo sangue pulsava nelle mie vene… perché dunque la
lastra non si muoveva? Finalmente intuii la verità. Ci avevano
trasportato nel parco e avevano collocato il gruppo marmoreo sotto
il basamento!
Una fitta acutissima mi squarciò il petto. Ogni ferita inferta ai
compagni era un’amputazione della mia stessa carne… sì, essi
morivano, ora ne ero certo.
Piansi lacrime di rabbia spingendo il coperchio, raspando la pietra
con le unghie, maledicendo la mia impotenza. Poi urtai qualcosa col
piede: un chiodo, un lungo chiodo appuntito. Provai con quello, là
dove sentivo più sonante la pietra. Mi ferivo le mani e continuavo,
spronato dall’odore del sangue, finché riuscii ad aprire un
varco, una spaccatura triangolare non più larga di un palmo.
La sgualdrina al mio fianco cominciava ad agitarsi, i seni le si
sollevavano nel respiro di una nuova vita. Presto si sarebbe
risvegliata. Fui tentato di piantarle il chiodo nel petto… basta!
Non c’era tempo per pensare a lei, dovevo correre dai fratelli.
Un raggio di luna filtrò dall’apertura e mi colpì il cuore. Le
mie costole si piegarono e dissi: “Vengo Luna, vengo Regina, se
pure non potrò salvare i Principi, dammi la forza di morire con
loro.”
Mi trasformai in pipistrello e volai fuori.
Non ravvisavo i luoghi. Cos’era quella gran massa d’acqua, quel
fiume sorto dal nulla, dov’era più la nostra collina? Rasa al
suolo, ridotta a un’isola di fango. Le Nôtre aveva voluto altra
acqua perché il progetto si compisse e l’aveva rubata all’Eure
sommergendo le terre da lui stesso assegnateci, senza il minimo
scrupolo d’onore.
Almeno cento tra soldati e operai si accanivano contro l’ultimo
superstite, il Principe Honoré. Lo vidi cadere sotto i colpi delle
zappe, vidi le sue braccia spiccate dal corpo e ancora gli uomini
infierire.
Il vento spirava attraverso la mia gola gelandomi l’anima. Neppure
il ricordo delle antiche cacce valeva a liberarmi dalla prostrazione
della sconfitta. Volai lontano da quei luoghi funesti come se
volessi consumarmi in volo. Fendevo la superficie delle nuvole,
rilucenti come un lago di fuoco, e imploravo che il sole si
affrettasse a dissolvermi.
Un corridoio d’aria mi sospinse fuori.
Ecco apparire una grande roccia nera dalla superficie compatta,
liscia, senza sentieri né pendii che l’uomo potesse valicare.
Appena entrai nella sua ombra il vento mulinò con un sibilo
sottile, inabissandomi per una stretta fenditura. Precipitai come un
baccello vuoto.
Discendevo in un pozzo profondissimo con le pareti ricoperte di
muschio e di alghe stillanti, costretto in cunicoli sempre più
angusti, verso la fine più disonorevole per un vampiro:
imprigionato nella roccia, soffocato dall’acqua di una vena
sotterranea come uno stupido topo.
Invece sbucai in un’enorme caverna dalle volte rotonde, tra
fantastici massicci rocciosi affacciati su un lago immobile. La luce
era solo un pallido raggio spiovente che rendeva più azzurra la
superficie.
C’era un terribile puzzo d’ammoniaca che stordiva i sensi. Poi,
contro la volta, il battito di migliaia di ali.
Gli abitatori della grotta avevano avvertito la mia presenza e si
erano fatti inquieti. Volavano in cerchio, lasciando cadere una
fittissima pioggia di urina. Non si spargevano a caso, seguivano un
cerimoniale: una decina di essi calarono giù e appena mi furono di
fronte cessarono di squittire. Mi studiavano, dubitando se
accogliermi o uccidermi.
Avevo già fatto simili incontri, ma era la prima volta che mi
capitava di fronteggiare una tribù così numerosa. Si aprirono al
mio passaggio, temendomi come si teme una specie estranea.
Mi venne incontro il capo, un pipistrello gigantesco dalla faccia di
cane, con gli occhi neri e lucenti come capocchie di spillo.
Cambiò direzione all’improvviso, con un rapido colpo d’ali, e
si preparò all’attacco facendo echeggiare contro la volta il suo
fischio di sfida. Poi piombò giù come una saetta.
Acquistai le sue stesse dimensioni, di colpo, spaventandolo. In due
battiti d’ala gli fui sopra e gli mangiai la testa.
Gli altri continuarono a volare in cerchio, mandando striduli
squilli di vittoria. Salutavano in me il nuovo capo.
Una nuova vita, un nuovo Ordine… migliaia di pipistrelli sopra
Versailles… pioggia di piscio sulle vesti di broccato e sulle
ridicole parrucche dei cortigiani… e per me il sangue delle dame,
di Le Nôtre, del Re stesso. La vendetta, finalmente!
Per qualche tempo il mio animo accolse grato questa stupida
illusione che lo sgravava dall’onta del fallimento. Ma non avrei
mai potuto comandarli. La natura dettava loro comportamenti
immutabili.
Partecipai alle cacce notturne, scoprii l’ebbrezza dei voli
radenti sull’acqua, dei fantastici inseguimenti alle lucciole,
stupii della loro perizia nel buio: riuscivano ad evitare anche una
canna, un filo d’erba, emettendo segnali che mi era impossibile
imitare. Io ero più rapido, ma dovevo vedere e volere per muovermi.
Quando scoprirono che non sapevo dirigerli, si disinteressarono di
me. Mi riguardavano come un dio: libero da ogni regola del gruppo,
ma schiavo della sua differenza. Ero solo, angosciosamente solo.
“Dimmi, o Regina,” chiesi alla luna, “che devo fare di me? Se
vuoi che torni uomo per combattere ancora, muta la mia forma. Se
invece mi assegni la pena di una vita da pipistrello a espiazione
del mio tradimento, allora lasciami come sono.”
La luna si nascose in una nuvola.
Accettai la condanna. Per dieci interminabili anni respirai il puzzo
dell’ammoniaca e sopportai i trilli d’esultanza di quelle
stupide bestie che rientravano appagate d’aver vissuto un’altra
notte identica alla precedente, com’era sempre stato, come sempre
sarebbe stato.
I pipistrelli conducevano un’esistenza miserabile, cibandosi
prevalentemente di farfalle e di insetti. Alcuni predavano la
frutta, i più sanguinari assalivano le rane.
Una sola usanza era degna d’essere apprezzata: ingravidavano le
femmine e poi le abbandonavano al loro destino. Solo pochi maschi
restavano a proteggerle, o come mi parve più probabile, a
sorvegliarle. La moltitudine contendeva ad altre tribù nuovi
terreni di caccia, senza curarsi di tornare.
Imparai a contentarmi di poco, sopportai asceticamente la più
assoluta separazione dall’altro sesso. E per fortificarmi mi
tentavo, tendendomi dei tranelli: a volte mi spingevo fino ai
villaggi degli uomini, accosto alle case. Spiavo attraverso i vetri
candori di cosce, ombre di corpi allacciati, turbandomi al ritmo
inconfondibile degli ansiti, e quando la sete minacciava di
sormontare la mia volontà, mi costringevo ad assalire una vacca o
una pecora, affinché il gusto del sangue mi ributtasse.
Eppure, mentre sorvolavo boschi selvaggi , stagni irregolari, poveri
agglomerati di case inerpicate sulle rocce o sperdute nel mezzo di
grandi distese di terra arida, non era la sete a tormentarmi, ma il
ricordo di quel giardino civilizzato, perfettamente simmetrico che
era stato la tomba dei miei camerati. Che senso aveva avuto il loro
sacrificio se non era servito a farne un grandioso casino di caccia
per la nostra stirpe?
E lentamente, dietro questo pensiero cominciò a insinuarsene un
altro. Forse non ero solo, c’era una remota possibilità che lei
avesse trovato il modo di liberarsi e fosse là ad attendermi. Se
avessi saputo vincere la mia repulsione per le femmine della mia
stessa razza, avrei trovato una compagna di caccia…
Ero incoerente? Di più: stavo smarrendo ogni principio, deliravo
sopraffatto dalla solitudine, e inesorabilmente i miei voli si
avvicinavano sempre più a Versailles.
Finché, al cadere del mio decimo anno di vita con i pipistrelli,
non seppi più resistere al richiamo.
All’orizzonte vortici di scintille multicolori liberarono una
saetta che esplose in cielo e ricadde in cento grappoli di stelle.
Non conoscevo i fuochi d’artificio e vedendo quelle grandi corolle
di luce, germoglianti l’una dall’altra come nei sogni dei
mistici, pensai di trovarmi di fronte a un prodigio. Restai a
distanza finché le esplosioni non si consumarono in pochi lampi
accecanti.
E una nuova magia animò la notte: una musica dolcissima di viole,
un adagio ipnotico che a tratti come in un sussulto febbrile si
apriva a brevi arie di danze, sì che si sarebbe detto un
accompagnamento per feste d’amore, ma su un fondo melanconico e
malato.
Non riuscivo a togliermi di lì, nonostante m’avesse spaventato
vivamente veder apparire sotto di me un’immensa croce luminosa e
m’abbassai ancora attratto da quell’incredibile spettacolo. Ecco
a cosa era servita l’acqua! Il grande vuoto che divideva in due il
parco era diventato un canale risplendente traversato
perpendicolarmente da un altro canale le cui braccia conducevano a
due palazzi illuminati. Lungo le rive, statue rischiarate da fuochi
azzurrini e alte più di venti piedi riflettevano i loro corpi
nell’acqua e in quella galleria navigavano gondole condotte da
servi vestiti di damasco e di seta.
Guidava la processione la gondola della famiglia reale, seguita da
quella dei musicisti che secondavano coi loro strumenti lo scivolare
lento sull’acqua immobile. Dietro a loro la Corte, con le languide
dame chinate a carezzare le trasparenti immagini degli dei sul
morbido specchio dell’acqua.
Navigavano tra il carro di Nettuno circondato dai Tritoni e quello
di Apollo che inseguiva le Ore, correvano oltre mille giochi
d’acqua e di luce, senza affrettarsi, verso un’imponente reggia
di fuoco ornata da una folla di statue.
Poi vidi, a pochi metri da me, un’incantevole, piccola falena
d’argento con una Y disegnata sulle ali. Giocava a celarsi nel
buio e riapparire attraverso esili riflessi di luce. Il mio arrivo
pose fine a quella danza ed essa volò via atterrita.
Non ero lì per correr dietro alle farfalle. Mi tolsi dal Grand
Canal cercando la grotta di Teti ov’era collocato il gruppo di
Apollo con le Ninfe. Mentre mi avvicinavo sentivo il cuore pulsare
più forte. Inutile mentirsi: speravo ardentemente che lei fosse là
ad attendermi.
La spaccatura alla base del monumento era stata restaurata. “Cosa
cerco ancora?” pensai deluso. “Ella non è più che ossame secco
e sbriciolato.”
Ma in quell’istante udii distintamente una voce sottile invocare
Dio. “Salvami, o Signore,” implorava, “allontana da me quel
pipistrello, non farmi morire così!”
Era viva! Era vicina, ma dove? La falena d’argento sgusciò tra le
braccia delle Ninfe. La sua ansia mi indicò con certezza che era
umana. “Rassicuratevi!” le dissi. “Non sono qui per recarvi
offesa.”
Al che, postasi sul capo di Apollo, la farfalla timidamente mi
chiese chi fossi e se per caso non ero vittima della stessa
stregoneria che la imprigionava.
“Vivo tra i pipistrelli per mia scelta. Gli uomini mi ributtano.
Ma voi, perché siete in codesta forma?”
“Ahimè, la mia è una storia infelice,” gemette la falena,
“ma è tale il piacere di poter parlare con un essere umano che ve
la racconterò senza vergognarmene. Sappiate dunque che Yvette,
voglio dire colei che cero un tempo, viveva a Parigi e aveva degli
amanti. Solo pochi erano pagatori: gli uomini pensavano ch’io
fossi troppo magra e pallida. Non lo dicevano, ma non era difficile
capirlo. Da una cortigiana si esige abbondanza e carni rubiconde.
Potete dunque capire quale fu la mia contentezza quando fui ammessa
a Versailles grazie all’intercessione di un mio parente,
giardiniere di Le Nôtre. Ora avevo la grande occasione e siccome
non ero stupida né priva di fantasia, pensai che avrei trovato il
modo di farmi stimare da quella compagnia tanto più raffinata dei
miei vecchi amici parigini. Scoprii presto che i nobili erano in
genere assai grossolani, ma alcuni, i più maliziosi o i più
anziani, avevano bisogno di sognare e io allora potevo dispiegare il
mio talento approntando per loro sempre nuove trappole d’amore. Un
giorno Le Nôtre mi promise che m’avrebbe fatto incontrare un
Principe, e cosa non dovetti fare per strappargli quella
concessione! Finalmente la notte tanto attesa arrivò. Fremevo dal
desiderio dell’incontro per il quale avevo preparato un gioco che
mettesse in rilievo il candore della mia pelle, sì che il difetto
fosse mutato in pregio. Così gli apparii tra queste statue, nuda,
con i capelli trattenuti da una sottile fettuccia d’argento.
Quant’era diverso quel Principe dall’uomo che avevo sognato! Ne
fui subito atterrita. Mi si avvicinò trascinando le gambe, seminudo
come un selvaggio, le gote scavate, la testa calva. Non poteva
essere un nobile quello, tranne forse che per le mani, lunghe e
morbide. Vi sono momenti in cui alle donne piace esser trattate un
po’ bruscamente, ma credetemi egli mi prese con una violenza del
tutto insana, fino a farmi cadere svenuta tra le sue braccia. Non
dirò altro, solo il ricordo mi spaura. Quando tornai in me ero
chiusa in un sarcofago. Sentendomi coperta di sangue rappreso,
pensai che m’avessero creduta morta e seppellita. Vincendo
un’estrema debolezza gridai con quanto fiato avevo, ma nessuno
venne a soccorrermi. La luce della luna filtrava attraverso una
piccola spaccatura. Guardai fuori. Non vedevo altro che ombre di
fronde, perlomeno non avevano interrato il sarcofago. Presto o tardi
qualcuno sarebbe arrivato. Mentre facevo queste riflessioni, fra
mille angosce, una falena si posò proprio sul margine della
spaccatura. Una piccola Y d’argento brillava sulle sue ali. Y come Yvette! Così pensai: ‘Ah,
come vorrei essere questa farfalla e volar via libera incontro alla
luna!’ Prima che potessi rendermene conto mi ritrovai mutata in
farfalla. Capite? Le Nôtre mi aveva consegnato a un essere
spaventoso, un Mago. E costui per qualche incomprensibile motivo
m’aveva scagliato addosso una maledizione. Ecco perché mi trovo
in questa forma.”
Le chiesi se avesse mai provato a riacquistare la forma umana ed
ella rispose: “Quante volte l’ho desiderato con tutta me stessa,
ma invano! Vivo così, di fiori e di cardi.
Non era mai ricorsa al sangue! Non si conosceva affatto, pensava
addirittura di non esser mai morta! Decisi di non rivelarmi subito.
Dissi che anch’io ero vittima di un sortilegio opera di una donna
e solo ritrovandola speravo di potermene liberare.
“Vedete?” disse la falena, “siamo così simili! Perché dianzi
l’avete negato? Solo le forme sono diverse. Voi avete avuto in
sorte un destino peggiore del mio. I vostri accenti vi rivelano per
gentiluomo, e siete stato mutato in un animale ributtante! Ah, se
conosceste le meraviglie della società delle lucciole! Esse sanno
parlare con la luce, capite? E le falene, quali profumi ineffabili
riescono a cogliere e se ne inebriano e pare quasi che perdano il
volo…”
“perché dunque desiderate tornar donna se amate tanto le vostre
compagne?”
La sua voce si fece triste e più si avviliva, più mi irritava.
“Le mie compagne muoiono. A migliaia, continuamente. E ogni notte
ne nascono di nuove. Vivo in nuvole di luce senza coscienza, tra
creature fragili e indistinte, e soffro del mio isolamento.”
“Anche voi vivete senza coscienza. Vi perdete tra i fiori e non
sapete che solo il sangue conta.”
Ero certo che provava l’istinto della caccia, ma ostinatamente
rifiutava di capire. Si era costruita una vita di sogno, non ne
voleva un’altra. Mostrandosi spaventata dalle mie parole, volle
cambiare discorso e lo fece con intollerabile svagatezza.
“Voliamo insieme al Grand Canal, non turbiamo questa notte che ci
vede amici. Udite? I nobili si divertono. Quando le nuvole coprono
la luna essi perdono ogni ritegno e il fiume risuona dei loro
sospiri.”
Volammo a rimirare ancora il corteo di gondole. Yvette aveva ripreso
a danzare come una stupida. Ma io guardavo e capivo. La crudeltà di
Le Nôtre era maggiore della mia. Egli aveva messo in scena ciò che
io avevo sognato di realizzare nel sangue: specchi d’acqua
immobile, deità scomparse, immensi alberi malati… Versailles era un cimitero dove la Corte rappresentava la propria morte; non
c’era bisogno di pipistrelli che li aggredissero, di vampiri che
li azzannassero, bastava regolare il flusso del loro movimento e da
soli sarebbero andati incontro alla fine sulle loro gondole dorate,
lungo la croce luminosa al termine della quale li attendeva un
palazzo di fuoco, abitato da cortigiani muti in tutto simili agli
dei.
Quella notte io vidi sorgere davanti a me l’astro di una tirannia
ignota al mondo, più forte di quella dei vampiri, più astuta di
quella degli uomini. Non più Principi e Re, ma Progetti. Progetti
inesorabili che nessuno avrebbe potuto arrestare.
Passò una nube di lucciole, lontana. Yvette non sapeva più se
raggiungerle o fermarsi al mio fianco. La tentai: “Vi dolete
veramente di sentirvi diversa dalle vostre compagne?”
Ella rispose con quel suo tono lacrimoso: “Non sapete quanto io
pianga la loro fine precoce! A volte preferirei morire con loro, pur
di non trovarmi così sola.”
E io le dissi: “Questo desiderio posso esaudirlo. Mi autorizzano a
tanto gli altri quindici Principi dell’Ordine del Grande
Pipistrello. Addio Yvette.”
Così aprii la bocca e la ingoiai. Poi tornai umano, avendo sceso
l’ultimo gradino della mia espiazione.
* da Ultimi
Vampiri (Universale
Economica Feltrinelli, 1988)
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