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Nero Sovrano
dell’orrore e della paura, signore della confusione!
Tu, come afferma il tuo profeta,
Dispensi nuovi poteri agli stregoni dopo la morte,
E nella corruzione le streghe traggono un respiro proibito,
E intessono incantesimi ed illusioni
Quali soltanto le lamie possono usare:
E per il tuo volere i cadaveri putrefatti perdono
Il loro orrore, e amori nefandi si accendono
In cripte malsane da molto tempo oscure;
E i vampiri ti dedicano i loro sacrifici…
Facendo sgorgare sangue come se grandi urne avessero versato
Il loro fulgido contenuto vermiglio
Sui sarcofagi dilavati e tumultuosi.
Litania di Ludar in onore di Thasaidon |
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Secondo l’usanza dell’antico Tasuun, le esequie di Ilalotha, dama di compagnia della regina uxoricida Xantlicha, erano state occasione di baldorie e di festeggiamenti prolungati. Per tre giorni, in una bara di sete orientali multicolori, sotto un baldacchino rosato che avrebbe potuto degnamente coronare un letto nuziale, ella era rimasta, abbigliata di vesti di gala, nella gran sala dei banchetti del palazzo reale di Miraab. Intorno a lei, dall’alba al tramonto, dalla fresca sera all’aurora torrida, la marea febbrile delle orge funebri aveva turbinato continuamente senza attenuarsi. Nobili, funzionari di corte, guardie, sguatteri, astrologi, eunuchi, e tutte le dame, le ancelle e le schiave di Xantlicha avevano partecipato alla prodiga baldoria che veniva giudicata come il modo più adatto per onorare i defunti. Venivano cantati canti ebbri e distici osceni, e i danzatori vorticavano in vertiginosa frenesia al suono lascivo di instancabili liuti. I vini ed i liquori scorrevano a torrenti dalle anfore mostruose; sulle tavole fumigavano carni condite di spezie, in mucchi sempre rinnovati. I bevitori offrivano libagioni a Ilalotha, fino a quando le stoffe del suo catafalco si macchiavano delle tinte più cariche dei vini rovesciati. Dovunque, intorno a loro, giacevano coloro che si erano abbandonati alle licenze erotiche o a libagioni troppo abbondanti. Con gli occhi socchiusi e le labbra lievemente aperte, nell’ombra rosea del baldacchino, Ilalotha non pareva morta: sembrava un’imperatrice addormentata che regnasse imparzialmente sui vivi e sui defunti. Questo particolare, oltre allo strano accentuarsi della sua naturale bellezza, veniva notato da molti; e alcuni affermavano che ella pareva in attesa del bacio di un amante, più che dei baci dei vermi.
La terza sera, quando vennero accese le lampade bronzee dalle molte lingue, e i riti stavano ormai per concludersi, ritornò a corte il nobile Thulos, amante ufficiale della regina Xantlicha, che una settimana prima si era recato a visitare il suo feudo sul confine occidentale e non aveva avuto notizia della morte di Ilalotha. Ancora ignaro, egli giunse nella sala nell’ora in cui i saturnali cominciavano a rallentare, e il numero dei gaudenti caduti al suolo era più numeroso di quello di coloro che ancora si muovevano e bevevano e si davano alle baldorie.
Thulos scrutò con scarsa sorpresa il disordine della sala, poiché simili scene gli erano familiari fin dall’infanzia. Poi, avvicinatosi alla bara, riconobbe la defunta con un certo sgomento. Tra le numerose dame di Miraab che avevano attratto le sue attenzioni di libertino, Ilalotha era durata più a lungo di tutte; e si diceva che si fosse addolorata più appassionatamente di ogni altra quando era stata abbandonata da lui. Un mese prima era stata soppiantata da Xantlicha, che aveva dimostrato a Thulos il proprio favore senza ambiguità; e Thulos, forse, non l’aveva abbandonata senza rimpianto: perché il ruolo di amante della regina, sebbene vantaggioso e non del tutto sgradevole, era piuttosto precario. Xantlicha, a quanto si riteneva universalmente, si era sbarazzata del defunto re Archain per mezzo d’una fiala di veleno, scoperta in una tomba, che doveva la sua particolare sottigliezza e virulenza all’arte di antichi incantatori. In seguito, la regina si era presa molti amanti, e coloro che non le piacevano più avevano trovato una fine non meno violenta di quella di Archain. Xantlicha era esigente, capricciosa, e pretendeva un’assoluta fedeltà che per Thulos era intollerabile; e questi, adducendo a pretesto affari urgenti nelle sue lontane tenute, era stato ben felice di allontanarsi per una settimana dalla corte.
Ora, mentre stava accanto alla morta, Thulos dimenticò la regina e rammentò certe notti d’estate, addolcite dalla fragranza del gelsomino e dalla bellezza, candida come i gelsomini, di Ilalotha. Più ancora degli altri, egli stentava a crederla morta: perché il suo aspetto attuale non differiva affatto da quello che spesso aveva assunto durante la loro relazione. Per compiacere il suo capriccio, ella aveva simulato l’inerzia e l’abbandono del sonno o della morte: e allora egli l’aveva amata con un ardore non sgomentato dalla veemenza felina con cui, in altre occasioni, ella usava ricambiare o provocare le sue carezze.
Di momento in momento, come per opera d’una potente negromanzia, Thulos fu preso da una bizzarra allucinazione, e gli parve di essere di nuovo l’amante di quelle notti perdute, di essere entrato in quel pergolato, nei giardini del palazzo, dove Ilalotha lo attendeva su di un giaciglio cosparso di petali, giacendo con il seno immoto come il volto e le mani. Era completamente dimentico della sala affollata: le luci ardenti, i volti arrossati dal vino erano divenuti un parterre di fiori che oscillavano dolcemente nel chiaro di luna, e le voci dei cortigiani non erano altro che un fioco sospiro del vento tra i cipressi e i gelsomini. I caldi profumi afrodisiaci della notte di giugno lo avvolgevano: e come allora gli pareva che nascessero non soltanto dai fiori, ma dalla persona di Ilalotha. Spinto da un intenso desiderio, si chinò e sentì il fresco braccio di lei fremere involontariamente sotto il suo bacio.
Poi, con lo sbalordimento di un sonnambulo svegliato bruscamente, udì una voce sibilargli all’orecchio in toni sommessi e velenosi: - Hai dunque dimenticato chi sei, nobile Thulos? Per la verità non mi stupisco molto, perché molti dei miei cortigiani affermano che è più bella da morta che da viva. – Volgendosi da Ilalotha, mentre il bizzarro incantesimo si dissolveva dai suoi sensi, Thulos trovò Xantlicha al proprio fianco. Le vesti erano in disordine, i capelli sciolti e scarmigliati, e barcollava leggermente, aggrappandoglisi alla spalla con le dita dalle unghie aguzze. Le labbra carnose, rosse come papaveri, erano contratte da una furia volpina, e gli occhi gialli dalle lunghe ciglia erano accesi dalla gelosia di una gatta in amore.
Sopraffatto da una strana confusione, Thulos ricordò solo parzialmente l’incantesimo di cui era stato vittima; e non sapeva se aveva veramente baciato Ilalotha e aveva sentito la carne di lei fremere sotto la sua bocca. In verità, pensava, era impossibile: si era abbandonato per un momento a una fantasticheria. Ma era turbato dalle parole di Xantlicha e dalla sua collera, e dalle risate ebbre e furtive e dai mormorii ribaldi che udiva passare tra i presenti nella sala.
- Stai in guardia, mio Thulos – sussurrò la regina, come se la sua ira si stesse placando, - perché dicono che fosse una strega…
- Com’è morta? – chiese Thulos.
- Di una febbre d’amore, si mormora.
- Allora sicuramente non era una strega – ribatté Thulos con una leggerezza ben lontana dai suoi pensieri e dai suoi sentimenti. – Perché la vera stregoneria avrebbe trovato un rimedio.
- È stato per amor tuo – disse oscuramente Xantlicha. – E come sanno tutte le donne, il tuo cuore è più nero e più duro del diamante nero. Nessuna stregoneria, per quanto potente, potrebbe vincerlo. – All’improvviso il suo umore parve addolcirsi. – La tua assenza si è protratta troppo a lungo, mio signore. Vieni da me a mezzanotte: ti attenderò nel padiglione sud. – Poi, scrutandolo per un istante tra le palpebre abbassate, e pizzicandogli il braccio in modo che le unghie penetrarono nella stoffa e nella pelle come gli artigli di una gatta, si allontanò da lui per chiamare alcuni degli eunuchi dell’harem.
Thulos, non appena l’attenzione della regina si fu distolta da lui, si azzardò a guardare di nuovo Ilalotha, riflettendo nel contempo sulle strane osservazioni di Xantlicha. Sapeva che Ilalotha, come molte dame di corte, si era dilettata di incantesimi e di filtri: ma la sua stregoneria non l’aveva mai preoccupato, poiché egli non provava interesse se non per gli incanti di cui la natura aveva dotato i corpi femminili. E gli era impossibile credere che Ilalotha fosse morta di una passione fatale poiché, nella sua esperienza, la passione non era mai fatale.
Ma per la verità, mentre la guardava in preda a sentimenti confusi, fu nuovamente assalito dall’impressione che ella non fosse affatto morta. Non vi fu il ripetersi della bizzarra allucinazione del ricordo di un altro tempo e di un altro luogo; ma gli parve che ella si fosse spostata sul catafalco macchiato di vino, volgendo un poco il viso verso di lui, come una donna si volge verso l’amante atteso; e che il braccio da lui baciato, nel sogno o nella realtà, fosse leggermente più scostato dal fianco.
Thulos si chinò un poco di più, affascinato dal mistero e attratto da qualcosa che non avrebbe saputo definire. Ancora una volta, senza dubbio, aveva sognato o si era ingannato. Ma mentre il dubbio cresceva in lui, gli parve che il seno di Ilalotha si muovesse in un lieve respiro, e udì un mormorio quasi impercettibile ma agghiacciante: - Vieni da me a mezzanotte. Ti attenderò… nella tomba.
In quell’istante comparvero accanto al catafalco alcuni uomini dagli abiti sobrii e scuri dei sacrestani, che erano entrati nella sala in silenzio, senza che Thulos e gli altri se ne fossero accorti. Essi portavano un sarcofago dalle pareti sottili di bronzo brunito, appena saldato. Era loro compito prendere il corpo della morta e trasportarlo nella cripta funeraria della sua famiglia, situata nella vecchia necropoli, un poco più a nord dei giardini del palazzo.
Thulos avrebbe voluto gridare per trattenerli: ma gli si bloccò la lingua, e non riuscì a muoversi. Senza sapere se era desto o addormentato, vide gli addetti del cimitero collocare Ilalotha nel sarcofago e portarla rapidamente fuori dalla sala, senza che nessuno li seguisse, senza che i presenti, ebbri e insonnoliti, se ne avvedessero. Solo quando il mesto corteo se ne fu andato, Thulos riuscì a muoversi, accanto al catafalco vuoto. I suoi pensieri erano torpidi, pieni di oscurità e d’indecisione. Vinto da un’immensa stanchezza che non era innaturale dopo il lungo viaggio, si ritirò nel suo appartamento e subito piombò in un sonno pesante come la morte.
Liberandosi gradualmente dai rami dei cipressi, come da lunghe dita protese di streghe, una luna fioca e deforme scrutava orizzontalmente attraverso la finestra orientale, quando Thulos si destò. Comprese che si stava appressando la mezzanotte, e ricordò l’appuntamento che gli aveva dato la regina Xantlicha: un appuntamento cui non poteva mancare senza incorrere nella sua temibile collera. Inoltre, con singolare chiarezza, ricordò un altro appuntamento… alla stessa ora ma in un luogo diverso. Gli incidenti e le impressioni del funerale di Ilalotha che, sul momento, gli erano parsi così dubbi e simili a sogni, tornarono a lui con la forza profonda della realtà, quasi incisi nella sua mente da una mordente chimica del sonno… o dal rafforzamento di un incantesimo stregato. Sentì che Ilalotha si era veramente mossa sul catafalco e gli aveva parlato: che i sacrestani l’avevano portata nella tomba ancora viva. Forse la sua presunta morte era stata una sorta di catalessi: oppure ella aveva volutamente simulato la morte in un ultimo tentativo di riaccendere la sua passione. Questi pensieri suscitarono in lui la febbre ardente della curiosità e del desiderio: e vide davanti a sé la bellezza pallida, inerte, lussuriosa di lei, quasi presentata da un incantamento.
Profondamente sconvolto, scese per scale e corridoi bui verso il labirinto dei giardini rischiarati dalla luna. Maledisse l’intempestiva esigenza di Xantlicha. Tuttavia, si disse, era molto più probabile che la regina, continuando a trangugiare i liquori di Tasuun, avesse già raggiunto uno stato in cui non avrebbe né mantenuto né rammentato l’appuntamento. Questo pensiero lo rassicurò: e nella sua mente stranamente perplessa, presto divenne una certezza; e non si affrettò a dirigersi verso il padiglione sud, ma avanzò stordito tra i boschetti ombrosi.
Sembrava sempre più improbabile che vi fosse in giro qualcun altro, oltre lui: perché le lunghe ali buie del palazzo erano distese come in un vacuo torpore: e nei giardini c’erano solo ombre morte, e stagni di fragranza immobile in cui erano annegati i venti. E sopra ogni cosa, come un papavero pallido e mostruoso, la luna distillava il suo pesante sonno di morte.
Thulos, ormai dimentico del suo appuntamento con Xantlicha, cedette senza ulteriori riluttanze all’impulso che lo spingeva verso un’altra meta. In verità, era doveroso che visitasse le cripte e scoprisse se era stato o no ingannato nelle sue convinzioni riguardanti Ilalotha. Forse, se non fosse andato, ella sarebbe soffocata nel sarcofago chiuso, e la morte simulata sarebbe divenuta ben presto una realtà. Di nuovo, come se venissero pronunciate nel chiaro di luna davanti a lui, egli udì le parole che gli aveva bisbigliato dal catafalco: - Vieni da me a mezzanotte… ti attenderò… nella tomba.
Con il passo rapido e il battito accelerato del cuore di chi si avvia al giaciglio caldo e addolcito di petali d’una amante adorata, egli lasciò i giardini del palazzo passando da una postierla settentrionale, e attraversò il terreno erboso tra il parco reale ed il vecchio cimitero. Senza tremiti e senza sgomento, egli varcò quei portali di morte eternamente aperti, dove mostri di marmo nero, dalla testa di guúl e dagli occhi orribilmente butterati, stavano accovacciati davanti ai pilastri diroccati.
Il silenzio delle tombe basse, la rigidezza e il pallore delle alte colonne, la profondità delle ombre dei cipressi, l’inviolabilità della morte che si comunicava ad ogni cosa contribuivano ad accrescere la singolare eccitazione che accendeva il sangue di Thulos. Era come se avesse bevuto un filtro drogato con polvere di mummia. Tutto intorno a lui il silenzio mortale pareva ardere e fremere di mille ricordi di Ilalotha, insieme alle attese cui ancora non aveva dato immagini precise…
Una volta, aveva visitato insieme a Ilalotha la tomba sotterranea degli avi di lei: e ricordandone chiaramente l’ubicazione, raggiunse senza indecisioni l’ingresso dal basso arco di scuro legno di cedro. Le ortiche e le erbacce fetide, che crescevano fitte intorno all’ingresso poco usato, erano state calpestate da coloro che erano entrati prima di Thulos: e la porta arrugginita di ferro battuto vacillava pesantemente verso l’interno sui cardini smossi. Ai suoi piedi stava una torcia spenta, senza dubbio lasciata cadere nell’andarsene da uno dei sacrestani. Vedendola, Thulos ricordò che non aveva portato né una candela né una lanterna per esplorare le cripte, e gli parve che quella torcia provvidenziale fosse un segno di buon auspicio.
Reggendo la torcia riaccesa, cominciò a cercare. Non badò ai polverosi sarcofagi ammucchiati nella prima parte del sotterraneo; perché, durante la visita che avevano compiuto insieme, Ilalotha gli aveva mostrato una nicchia, nell’estremità più interna, dove a suo tempo lei stessa sarebbe stata sepolta tra i membri di quella stirpe decadente. Stranamente, insidiosamente, come il soffio di un giardino primaverile, il profumo ricco e languido del gelsomino salì verso di lui nell’aria muffita, tra le file dei morti: e lo attrasse verso il sarcofago che stava, scoperchiato, tra gli altri ben chiusi. E Thulos scorse Ilalotha, distesa nelle vesti gaie del funerale, con gli occhi socchiusi e le labbra semiaperte; e su di lei aleggiava la stessa strana, radiosa bellezza, lo stesso pallore voluttuoso e silente che avevano attirato Thulos con un incanto necrofilo.
- Sapevo che saresti venuto, Thulos – mormorò Ilalotha, fremendo lievemente, quasi involontariamente, sotto l’ardore crescente dei baci che scendevano dalla gola al seno…
La torcia caduta dalla mano di Thulos si spense nella fitta polvere…
Xantlicha, che si era ritirata di buon’ora nella sua stanza, aveva dormito male. Forse aveva bevuto troppo, o troppo poco, lo scuro vino ardente; forse il suo sangue era acceso dal ritorno di Thulos, e la sua gelosia era ancora turbata dal bacio appassionato che egli aveva deposto sul braccio di Ilalotha durante le esequie. L’inquietudine la dominava: e si alzò molto prima dell’ora dell’appuntamento con Thulos, e si accostò alla finestra della sua stanza, cercando il ristoro della fresca aria notturna.
Ma l’aria pareva riscaldata dall’ardore di fornaci nascoste; il cuore pareva gonfiarsi nel suo seno fino a soffocarla: e l’inquietudine e l’agitazione vennero accresciute anziché sminuite dallo spettacolo dei giardini sotto la luna. Avrebbe desiderato precipitarsi al padiglione: ma nonostante la sua impazienza, ritenne opportuno far attendere Thulos. Affacciata al davanzale, quindi, lo vide passare tra le aiuole e le pergole sottostanti. Fu colpita dalla fretta insolita e dalla decisione della sua andatura; e si chiese dove fosse diretto, poiché poteva essere avviato solo verso un luogo remoto da quello che ella aveva indicato per il loro incontro. Thulos scomparve al suo sguardo nel viale fiancheggiato dai cipressi che conduceva al cancello settentrionale dei giardini; e lo stupore della regina presto si mescolò all’allarme ed alla collera, quando non lo vide ritornare.
Xantlicha non riusciva a comprendere perché Thulos, o qualunque altro uomo, potesse osare di dimenticare l’appuntamento: e cercando una spiegazione, intuì che fosse probabilmente in gioco una tremenda e potente stregoneria. D’altra parte, alla luce di certi episodi da lei osservati e di molte dicerie, non le era difficile identificare l’incantatrice. Ilalotha, la regina lo sapeva bene, aveva amato freneticamente Thulos, e aveva provato un’afflizione inconsolabile, quand’egli l’aveva abbandonata. La gente diceva che avesse operato vari incantesimi inefficaci, nella speranza di riattirarlo a sé, ed avesse compiuto envoûtements vani e sortilegi di morte contro Xantlicha. Alla fine, era morta d’angoscia e di disperazione, o forse si era uccisa con un veleno misterioso… Ma, come si credeva in Tasuun, una strega che moriva con un desiderio insaziato, poteva trasformarsi in una lamia o in una vampira, realizzando così il compimento di tutte le sue stregonerie…
La regina rabbrividì, ricordando tutto questo e rammentando anche l’orrida, maligna trasformazione che si diceva accompagnasse la realizzazione di tali fini: perché coloro che usavano in tal modo del potere dell’inferno dovevano assumere il carattere e le sembianze degli esseri infernali. Xantlicha immaginò anche troppo esattamente la destinazione di Thulos, e il pericolo verso il quale era avviato, se i suoi sospetti erano veri. E pur sapendo di rischiare un eguale pericolo, decise di seguirlo.
Non fece molti preparativi, poiché non c’era tempo da perdere: ma prese dai serici guanciali del suo letto un pugnale a lama diritta, unto dalla punta all’elsa da un veleno ritenuto efficace tanto contro i vivi quanto contro i morti. Stringendolo nella destra, e reggendo nell’altra mano una lanterna che più tardi avrebbe potuto tornarle utile, Xantlicha si allontanò rapida e furtiva dal palazzo.
Gli ultimi fumi del vino bevuto quella sera svanirono completamente dal suo cervello, mentre si destavano vaghe e tremende paure che l’ammonivano come le voci di fantasmi aviti. Ma, incrollabilmente decisa, ella seguì il percorso su cui si era avviato Thulos, lo stesso seguito dai sacrestani che avevano portato Ilalotha al luogo della sepoltura. Aleggiando da un albero all’altro, la luna l’accompagnava come una faccia erosa dai vermi. Il suono rapido e lieve dei suoi coturni, infrangendo il bianco silenzio, pareva lacerare il velo di ragnatele che l’isolava da un mondo d’abominazioni spettrali. E sempre più chiaramente ella ricordava le leggende che parlavano di esseri simili a Ilalotha: e si sentiva tremare il cuore, poiché sapeva che non avrebbe incontrato una donna mortale, bensì una cosa suscitata e animata dal settimo inferno. Ma tra il gelo di questi orrori, il pensiero di Thulos tra le braccia della lamia era come un marchio rovente che le bruciasse il seno.
La necropoli si spalancò davanti a Xantlicha, e i suoi passi la portarono nell’oscurità cavernosa degli alti alberi funerei, come se passasse attraverso mostruose fauci buie, in cui i monumenti bianchi erano le zanne. L’aria divenne umida e pesante, quasi satura dell’alito delle cripte. La regina esitò, poiché le parve che neri, invisibili demoni malvagi si levassero dal suolo tutto intorno a lei, torreggiando più alti delle colonne e dei tronchi, pronti ad assalirla se si fosse avventurata più oltre. Tuttavia, poco dopo giunse al buio passaggio che cercava. Tremando, accese lo stoppino della lanterna; e trapassando la densa oscurità sotterranea con il raggio tagliente, entrò con un terrore mal represso e con una profonda ripugnanza nella dimora dei morti… e forse dei non morti.
Tuttavia, mentre percorreva le prime svolte della catacomba, parve che non dovesse incontrare nulla di più orrendo della muffa e della polvere filtrata dai secoli, nulla di più temibile dei sarcofagi chiusi allineati sui profondi ripiani di pietra: sarcofagi che erano rimasti silenziosi e indisturbati dal tempo in cui erano stati lì deposti. Certo in quel luogo il sonno di tutti i morti era ininterrotto, il nulla della morte era inviolato.
La regina quasi dubitava, ormai, che Thulos l’avesse preceduta lì: finché, volgendo al suolo il raggio della lampada, scoprì le impronte lasciate dalle calzature di lui, sottili e appuntite, nello spesso strato di polvere tra le orme di piedi rozzamente calzati dei sacrestani. E vide che le impronte di Thulos andavano in un’unica direzione, mentre le altre andavano e ritornavano.
Poi, ad una distanza indeterminata nell’oscurità, Xantlicha udì un suono in cui il gemito morboso d’una donna innamorata si mescolava a un ringhio, simile a quello degli sciacalli intenti a divorare la carne. Il sangue le riaffluì raggelato al cuore, mentre avanzava a passi lenti, serrando il pugnale nella mano levata, e tenendo alta la lampada. Il suono divenne più forte e più nitido; e poi le giunse un profumo di fiori in una calda notte di giugno: ma, quando avanzò ancora, il profumo si mescolò sempre più ad un fetore soffocante quale mai aveva conosciuto, sfumato dal sentore caldo del sangue.
Dopo qualche altro passo, Xantlicha si fermò, come se l’avesse arrestata il braccio di un demone: perché la luce della sua lanterna aveva inquadrato il volto riverso e la parte superiore del corpo di Thulos, che sporgevano dall’estremità di un nuovo sarcofago brunito, sistemato nel breve spazio tra altri patinati dal verderame. Una delle mani di Thulos stringeva rigidamente il bordo del sarcofago, mentre l’altra, muovendosi debolmente, pareva accarezzare una forma vaga protesa sopra di lui con le braccia che splendevano candide come gelsomini nel raggio sottile, e con le dita scure che affondavano nel petto di lui. La testa e il corpo parevano un guscio vuoto, e la mano pendeva esile e scheletrita sul bordo bronzeo: pareva esangue, come se avesse perduto più sangue di quanto apparisse evidente dal volto e dalla gola straziata, dalla veste intrisa e dai capelli sgocciolanti.
La cosa china su Thulos continuava a emettere quel suono che era per metà gemito e per metà ringhio. E mentre Xantlicha rimaneva impietrita dallo spavento e dal disgusto, le parve di udire dalle labbra di Thulos un mormorio indistinto, più d’estasi che di paura. Il mormorio cessò, e la sua testa si abbandonò ancora più inerte, così che la regina lo credette morto. Quella vista le ridiede il coraggio della collera, e la spinse ad avvicinarsi levando più alta la lanterna, perché, pur nel suo panico estremo, ricordò che con il pugnale intinto nel veleno stregato poteva uccidere ancora, forse, la cosa che aveva ucciso Thulos.
La luce salì vacillando, rivelando poco a poco l’abominio che Thulos aveva accarezzato nelle tenebre… strisciava verso il muro macchiato di cremisi, e l’orificio zannuto che era per metà una bocca e per metà un rostro… fino a quando Xantlicha comprese perché il corpo di Thulos era soltanto un guscio svuotato… In ciò che la regina vedeva non rimaneva nulla di Ilalotha, tranne le bianche braccia voluttuose, e un contorno vago di seni umani che si alteravano in seni non umani, come creta plasmata da uno scultore demoniaco. Anche le braccia cominciarono a cambiare e ad oscurarsi: e mentre mutavano, la mano morente di Thulos si mosse ancora, levandosi con un movimento carezzevole verso quell’orrore. E la cosa parve sentirlo, ma non ritrasse le dita dal petto di lui, e si protese sopra il suo corpo con le membra che ingigantivano enormemente, come per artigliare la regina od accarezzarla con gli artigli gocciolanti.
Allora Xantlicha lasciò cadere la lanterna e il pugnale, e con urla e risa stridule incessanti di demenza immitigata fuggì dalla cripta.
* da L’Universo Zothique (Nord, 1992)
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