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  racconti  

 «La Chenille»
 Algernon Blackwood
*

The Singular Death of Morton - 1910 


Stava scendendo la sera mentre i due uomini procedevano lentamente attraverso il folto bosco di pini e di abeti che copriva le pendici della montagna. Erano stanchi per la lunga camminata, non essendo più molto giovani, e inoltre quella giornata di luglio era stata particolarmente calda. La piccola locanda cui erano diretti sorgeva più lontano, nella valle, circondata dai frutteti che segnavano il confine fra la foresta e i vigneti.
    Non parlavano molto. Il più grosso camminava davanti, portando lo zaino, e il suo compagno, un omino minuto e più anziano, lo seguiva a piccoli passi, evidentemente era il più stanco dei due e, di quando in quando, inciampava su un sasso o su una radice. Un osservatore particolarmente acuto avrebbe notato che non era soltanto la stanchezza a farlo incespicare: infatti era immerso nei suoi pensieri e non prestava molta attenzione al sentiero che stava percorrendo.
    «Tutto bene?», chiedeva di quando in quando il più grosso, dandogli un’occhiata frettolosa.
    «Eh? Come?», rispondeva l’altro, perso in qualche fantasticheria.
    «Cammino troppo in fretta?»
    «No, no, sto arrivando». E poi aggiunse: «Se hai fame vai pure avanti, non tarderò a raggiungerti».
    Ma il suo massiccio compagno non mise in pratica il suggerimento e anzi rallentò l’andatura per permettere all’amico di seguirlo. A intervalli ripeteva la stessa domanda e una o due volte si fermò ad osservarlo.
    Giunsero così ai margini del bosco. La valle era immersa in un silenzio profondo e più in alto, sopra di loro, i crinali rocciosi su cui si erano faticosamente arrampicati rilucevano spettrali nel cielo vespertino. Il vento della sera sembrava accarezzare la luna, incantato dalla sua bellezza, e i raggi dell’astro, filtrando attraverso i rami, ordivano un fantastico ricamo d’argento sul muschio sottostante.
    Si erano fermati per ammirare il paesaggio notturno quando, improvvisamente, udirono il fruscio di un passo sul soffice tappeto d’aghi e l’omino, più arretrato rispetto al corpulento compagno, si volse di scatto come se qualcuno lo avesse chiamato per nome.
    «Ancora quella ragazza!», esclamò, e la sua voce esprimeva piacere, sorpresa e apprensione.
    In una piccola radura illuminata dalla luna passò la figura di una ragazza, guardandoli come se volesse fermarsi; poi rise piano e scomparve nelle tenebre circostanti. La luna aveva tratto uno strano riflesso dai suoi occhi e dai denti, mentre il resto della figura si confondeva con la penombra. Un effetto sorprendente, come se la testa e le spalle fossero sospese a mezz’aria, da sole. E quello smagliante sorriso, presto inghiottito dal buio...
    «Vieni qua, per amor del cielo!», gridò l’omone al suo piccolo amico. Il tono della voce esprimeva impazienza non scortesia. L’altro continuava ad ascoltare assorto, fissando intensamente il punto dove la ragazza era scomparsa. L’amico lo chiamò di nuovo e, poco dopo, i due sbucavano sulla strada che portava al vicino villaggio. Potevano già scorgere le prime luci e la foresta, alle loro spalle, era già coperta dal nero mantello della notte.
    Per alcuni minuti continuarono a camminare in silenzio e il più grosso si fermò ad aspettare il compagno che era rimasto indietro un’altra volta.
    «Francamente, questa valle del Giura mi sembra...Uhm, c’è qualcosa di misterioso, ecco», disse sistemandosi meglio lo zaino sulle spalle con un gesto vigoroso che esprimeva quasi un’inconscia ribellione a questa constatazione. «Sì, qualcosa di stregato o di soprannaturale», aggiunse riprendendo a camminare di buon passo.
    «E di tremendamente bello...»
    «Sembra attiri più te che me».
    «Qui sopravvivono ancora superstizioni pittoresche», osservò ancora l’uomo con lo zaino. «Riescono a turbarti a dispetto di te stesso».
    Seguì una pausa durante la quale l’omino cercò di allungare il passo. Evidentemente, per qualche ragione, l’argomento lo aveva innervosito.
    «Forse», rispose. «Ma credo sia soltanto un effetto della singolare solitudine di questi posti. Pensa, ci troviamo nel bel mezzo dell’Europa eppure sembra di vivere in un angolo dimenticato di mondo. È un contrasto sconcertante. Persino il rintocco dell’orologio del campanile, ormai siamo quasi arrivati al villaggio, ha un alcunché di irreale. Anche il tempo qui perde ogni significato». Sorrise quietamente, continuando su questo tono. L’amico, borbottando, annuiva con convinzione e, di quando in quando, si guardava furtivamente alle spalle. In lontananza, la montagna si stagliava nitidamente sullo sfondo del cielo stellato.
    «Curioso», disse, «ma non vedo quella fattoria dove ci siamo fermati a bere il latte. Eppure dovremmo vederla benissimo da qui».
    «Già. Con questo chiaro di luna. Era uno strano posto», soggiunse. Non poteva certo negare l’atmosfera misteriosamente suggestiva della zona, cercava semplicemente di trovare una qualche spiegazione. «Quella fattoria è un esempio calzante; non mi piaceva neanche un po’, eppure non saprei dirti perché. Mi faceva sentire a disagio, ecco. Ti ricordi come la ragazza è apparsa improvvisamente? Avremmo giurato che non ci fosse nessuno. E il suo silenzio era ancora più strano. Perché non ha risposto alle nostre domande? Sai, in fondo sono contento di non aver bevuto il latte. Mi piacerebbe sapere dove diavolo l’aveva preso, perché non c’era neanche l’ombra di una mucca o di una capra!»
    «Io invece il mio l’ho bevuto, anche se aveva uno strano gusto», rispose l’omino sorridendo dell’improvviso nervosismo dell’amico.
    Poi, d’un tratto, questi si volse fissandolo intensamente. Era un effetto del chiaro di luna o davvero era impallidito?
    «Senti, vecchio mio», gli disse con un tono grave e serio, «chi credi fosse quella ragazza? E perché diavolo ci ha seguiti?»
    «Penso stesse seguendo me», rispose calmo l’altro.
    Quelle parole, e l’accento convinto con cui erano state proferite, turbarono palesemente l’uomo con lo zaino, che già era dispiaciuto di aver parlato con tanta franchezza delle sue impressioni. Con un compagno tanto fantasioso, impressionabile e suggestionabile era stato poco saggio. Così accelerò l’andatura e raggiunse la locanda cinque minuti prima dell’amico che vi arrivò ansante e trafelato, come se avesse corso.
    «Sai, credo proprio che mi piacerebbe fare una puntatina in Svizzera domani o dopodomani», se ne uscì fuori quella notte, nell’oscurità della stanza a due letti che dividevano. «Non ti pare che ne abbiamo avuto abbastanza di questo posto? Eh? Che ne dici?»
    Dal letto vicino non giunse alcuna risposta perché il suo occupante dormiva della grossa.
    «Stanco morto!», borbottò fra sé e sé e si girò su un fianco per seguire il suo esempio. Ma non riusciva a prender sonno. Strani, inquietanti pensieri si insinuavano nella sua mente, impedendogli di dormire. Pensieri sgradevoli, che raramente l’avevano sfiorato in precedenza. Per quanto si desse dell’idiota, non c’era verso di dormire. Si rigirava nel letto, cercando di convincersi che non prendeva sonno perché troppo stanco.
    Le bizzarre sensazioni che lo tenevano sveglio forse non erano facilmente spiegabili, ma non aveva dubbi su un fatto: erano state provocate dall’immagine dello châlet disabitato, appollaiato sul crinale della montagna dove avevano sostato poche ore prima per ristorarsi. Era una piccola fattoria, cadente e sudicia, ed il suo nome spiccava in grandi lettere nere sullo sfondo celeste della parete sopra la porta: «La Chenille». Non avevano visto un’anima: porte e finestre erano sbarrate; dal camino non filtrava una voluta di fumo; ovunque sporcizia e disordine testimoniavano dell’evidente abbandono della casa.
    Poi, proprio quando stavano per andarsene, dopo aver vanamente bussato alla porta, per un istante era apparso un volto ad una finestra che aveva uno scuro aperto. Il suo compagno l’aveva visto per primo ed aveva dato una voce. Il volto annuì in risposta e subito dopo una ragazza era sbucata da dietro un angolo della casa, apparentemente da una porta sul retro, e si era fermata poco discosto da loro osservandoli.
    Proprio da quell’istante, per quanto rammentava, quegli strani pensieri si erano insinuati nella sua mente: una sensazione indefinibile di paura, diffidenza, apprensione. Ripensandoci al calduccio, nel suo letto, gli si rizzarono i capelli. C’era qualcosa in quella ragazza che gelava il cuore. Eppure era deliziosa, seducente e affascinante, ancorché i suoi occhi ed i suoi movimenti ricordassero vagamente quelli d’un serpente. Non rispose alle loro domande. Si limitò a sorridere quando le chiesero qualcosa per ristorarsi; anche senza proferire una sola parola, dava l’impressione di essere estremamente volitiva e sicura di sé, una persona che avrebbe potuto diventare assai temibile, se solo l’avesse voluto. Nonostante il suo innegabile fascino, la giovinetta evocava sensazioni sinistre. Anche lui le aveva rivolto la parola, ma essa aveva regalato un sorriso soltanto al suo amico. Lo fissava senza distogliere lo sguardo e, scivolata pian piano vicino a lui, gli aveva sfiorato un braccio.
    La cosa più buffa era che, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare com’era vestita, o di che colore fossero i suoi occhi ed i capelli. Era come se avesse sentito, piuttosto che visto, la sua figura aggraziata.
    Il latte - dopo essere sparita dietro l’angolo era ricomparsa con un bricco e due tazze di legno - era, beh, aveva un gusto talmente strano che non era riuscito ad inghiottirlo e lo aveva rovesciato a terra. Il suo amico invece aveva vuotato la tazza fino all’ultima goccia, bevendo in fretta per poterlo assaporare, mentre la ragazza lo fissava negli occhi.
    Da quel momento qualcosa nel suo amico era cambiato. Strada facendo, aveva fatto strani discorsi, insoliti per lui, parlando soprattutto della «Chenille», della ragazza, e di quel latte dal gusto delicato; ma le sue frasi suonavano in qualche modo bizzarre, poco familiari, perfino sgradevoli. Benché si sforzasse di ricordarle, gli sfuggivano, nonostante serbasse la precisa impressione del disagio e della vaga apprensione che gli avevano suscitato. E la notte accentuava questi ricordi spiacevoli.
    Poi la ragazza li aveva seguiti... Era pazzesco e assurdo pensarci ma non poteva farci nulla: cosa significava tutto ciò? Che la ragazza lo aveva spaventato; e il cambiamento sopravvenuto nel compagno era un altro segnale di pericolo. Più di questo non sapeva dire. Forse avrebbe trovato una spiegazione in seguito, ma per il momento desiderava soltanto andarsene da quel posto, portando via l’amico.
    Presa questa decisione, sprofondò nel sonno.
    Le finestre della camera erano spalancate e davano su un giardino circondato da un alto muro di cinta dove si apriva un cancello chiuso a chiave perché immetteva in una proprietà privata e in una stradicciola che portava al piccolo cimitero e alla chiesetta. Quand’era aperto gli ospiti della locanda se ne servivano spesso, pensando di raggiungere più rapidamente le pendici della montagna, ma invariabilmente finivano con lo smarrirsi fra campi e vigne, oppure, seguendo la stradina, si ritrovavano ben presto nel cimitero: allora raggiungevano il villaggio passando per la chiesa, che era sempre aperta, o bussavano alla porta posteriore di qualche casa vicina spiegando imbarazzati la loro situazione. Ecco perché il cancello restava sempre chiuso: in tal modo si evitavano tanti piccoli inconvenienti.
    Dopo aver dormito poche ore di un sonno inquieto e non ristoratore, l’uomo si svegliò. Si rigirò nel letto, si stiracchiò, e si tirò su appoggiandosi a un gomito, percependo l’afa soffocante che ristagnava nella stanza. E alla fievole luce delle stelle della notte estiva, si accorse che il compagno era in piedi e si muoveva lentamente. Ricordando che a volte camminava nel sonno, lo chiamò gentilmente:
    «Morton, vecchio mio», gli disse bisbigliando ma con tono autoritario, «tornatene a letto! Hai camminato che basta per oggi!»
    E la figura, obbedendo come fanno spesso i sonnambuli, attraversò la stanza scomparendo tra le ombre che celavano il suo giaciglio. Allora si lasciò cadere fra le coltri, cercando la posizione più comoda per riaddormentarsi, ma il caldo della stanza, il letto cui non era abituato, e la seccante interruzione del sonno precedente gli rendevano difficile rilassarsi. Si costrinse a non riaprire gli occhi, imponendo al proprio corpo una immobilità assoluta. Fu tutto inutile. Qualcosa lo rodeva come un tarlo e gli impediva di scivolare nel vero oblìo del sonno. Dormiva dunque con un occhio solo, come si suol dire. Dalla finestra aperta entrava il profumo del fieno, di fiori e della terra cotta dal sole, e insieme ad esso, di quando in quando, i suoni della notte - rumori ovattati che lo disturbavano senza essere tuttavia tanto forti da richiamare la sua attenzione.
    Dopo tutto, forse aveva dormito davvero per un po’ quando, improvvisamente, un pensiero gli attraversò la mente come un lampo e si ritrovò perfettamente sveglio. Stupì di non essersene reso conto subito: quella che aveva visto prima non era la figura dell’amico.
    Prima ancora di poter trarre qualsiasi conclusione o ipotizzare una qualche spiegazione, la paura lo attanagliava e il sudore freddo gli copriva il corpo. Cercò a tentoni i fiammiferi, senza riuscire e trovarli; poi, ricordando che c’era la luce elettrica, tastò la parete con le dita, finché non afferrò la peretta. Nella luce improvvisa che riempì la stanza vide subito che il letto dell’amico era vuoto. E la sua mente istintivamente, senza seguire alcun processo logico, riandò con la velocità di un lampo agli avvenimenti del giorno prima: la faticosa escursione, la cadente «Chenille», la tazza di latte, lo strano comportamento di Morton e poi la ragazza.
    Contemporaneamente si rese conto dell’odore che ristagnava nella stanza e che in precedenza aveva scambiato per il composito effluvio dei campi, dei fiori e della notte; in realtà era l’odore della terra smossa da poco. Subito dopo fece un’altra scoperta. I suoni ovattati che aveva udito poco prima non erano i soliti rumori della notte, il mormorio del vento o il ronzio di qualche insetto. No, erano passi furtivi sul sentiero del giardino.
    Si vestì rapidamente e vide la camicia da notte dell’amico sul suo letto; poi si accorse che la porta della camera era socchiusa. Ormai non aveva dubbi: effettivamente si era riaddormentato perché da quando aveva intravisto la figura misteriosa fino ad allora era trascorso un considerevole lasso di tempo. Scese quindi le scale cautamente e qualche minuto dopo aveva raggiunto il sentiero del giardino illuminato dalla luna. Mentre sostava incerto sul da farsi, gli tornarono in mente le storie che gli aveva raccontato il proprietario qualche giorno prima, leggende paurose, antiche superstizioni che sopravvivevano ancora in quella piccola valle dimenticata. Il pensiero della ragazza gli dava la nausea. Fuori, l’odore di terra appena smossa era ancor più pungente, quasi soffocante. Cercò di scacciare dalla mente il ricordo dei mostruosi racconti dell’oste, ma non poté impedirsi di rabbrividire mentre se ne stava lì tutto solo, nel silenzio della notte, nell’ora incerta che precede l’alba. L’atmosfera era tremendamente suggestiva e soltanto una mente priva di ogni sensibilità avrebbe potuto rimanervi indifferente.
    Setacciò il piccolo giardino: vuoto! Non c’era traccia di Morton. Si fermò davanti al grande cancello guardando attraverso le sbarre umide di rugiada: gli sembrò di scorgere qualcosa che si muoveva in lontananza. Un attimo dopo ne ebbe la certezza. Laggiù, a destra d’una macchia di alberi, nel cimitero, qualcosa si muoveva.
    Questa scoperta lo fece rabbrividire di paura e di disgusto. Pronunciò il nome dell’amico, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono. Qualche segreto istinto gli suggeriva di scappare, senza fare il più piccolo rumore. Invece, con un inaudito sforzo di volontà, si arrampicò sul cancello lasciandosi poi scivolare dall’altra parte sull’erba zuppa di rugiada. Quindi, badando a rimanere nascosto dietro le basse siepi e i tronchi degli alberi, corse furtivo verso il cimitero. Strada facendo, senza sapere bene perché, raccolse un grosso bastone; subito dopo si acquattò accanto al muretto che separava i campi dal cimitero.
    Qui, fra le pietre tombali ornate di detestabili corone metalliche e di serti di fiori appassiti, riconobbe la figura dell’amico: sembrava inginocchiato o accovacciato a terra vicino a due grandi tassi. Non era solo; un’altra figura - sottile, evanescente, spettrale - era china su di lui.
    Questa volta l’uomo trovò la forza e il coraggio di chiamarlo: «Morton, Morton!», gridò. «Per l’amor del cielo, cosa stai facendo? Cosa...»
    In quel momento la sottile figura che nascondeva parzialmente il corpo di Morton si volse verso di lui. Vide un volto pallido in cui risaltavano gli occhi e i denti scintillanti; il chiaro di luna accentuava il pallore di quel viso orribile, irreale, stregato, e dalle sue labbra colava sul mento qualcosa che sembrava sangue.
    Quindi la figura scivolò via con un movimento bizzarro e furtivo, come se si spostasse a mezz’aria anziché camminare, e scomparve fra le tombe in direzione della chiesa. Il pesante bastone, scagliato con rabbia, colpì una croce metallica e cadde a terra con un rumore sordo, e l’uomo che lo aveva tirato corse a perdifiato verso la sagoma raggomitolata dell’amico, registrando inconsciamente il grido sottile e lamentoso che aveva gettato la figura prima di scomparire. Notò appena che alcune tombe, evidentemente scavate da poco, recavano tracce di manomissione e che l’odore di terra smossa si era fatto più ripugnante. Tutta la sua attenzione si concentrava sulla figura prostrata ai suoi piedi.
    «Morton, amico mio, tirati su! Svegliati, per l’amor di Dio! Hai camminato nel sonno e...»
    Ma le parole gli morirono sulle labbra. La posizione innaturale delle spalle dell’amico e il modo in cui la testa pendeva all’indietro scoprendo il collo lo colpirono come un pugno allo stomaco. Morton era immobile. Sollevò il corpo e se lo caricò sulle spalle e incespicando, con il cuore che pareva scoppiargli in petto, riuscì a raggiungere l’albergo.
    Sembrava un incubo spaventoso, un incubo che avesse allungato i suoi tentacoli mostruosi nella vita d’ogni giorno. Il proprietario della locanda e la moglie si affaccendavano attorno al letto, poi giunse il medico del paese e l’uomo massiccio, invecchiato di colpo, balbettò una confusa e febbricitante descrizione di quel che aveva visto: sì, Morton era sonnambulo, il letto vuoto e tutto il resto. Ma non realizzò la verità finché non osservò la faccia del dottore che aveva esaminato a lungo il corpo di Morton.
    «Volete svegliarlo?», si sentì chiedere, «O lo lascerete dormire fino a domattina?». L’espressione del medico, anche se non avesse risposto, non lasciava alcun dubbio. Gli disse la verità. «Ah, monsieur, il vostro amico non si sveglierà mai più, temo! Il cuore, capite. Ahimè, collasso cardiaco!»
    Le scene finali della piccola tragedia che aveva improvvisamente posto fine alla sua vacanza non meritano d’essere descritte perché irrilevanti rispetto a questa strana storia. Ma uno o due dettagli curiosi, venuti alla luce in un secondo tempo, sì. Ci fu dunque chi sottolineò che da qualche tempo alcune tombe venivano prese di mira da vandali notturni, specialmente le sepolture più recenti. Le autorità avevano cercato invano di risalire al necrofilo o ai necrofili autori di atti tanto sconvenienti. Un altro dettaglio singolare fu la traccia, costituita da macchie di sangue che lordavano il pavimento della chiesa, che partiva dalla porta sul retro finendo al portale d’ingresso: fu scoperta la mattina successiva alla morte di Morton. Quella stessa settimana in chiesa fu celebrata una funzione speciale per purificare l’edificio sacro da ogni maligna impurità: i paesani, assai superstiziosi, avevano dichiarato infatti che nessun essere umano avrebbe potuto lasciare una simile traccia. Soltanto un vampiro, disturbato nel cuore della notte nel bel mezzo delle sue empie attività, poteva lasciare quell’inconfondibile segno della sua presenza.
    Ma, a parte queste chiacchiere, l’amico di Morton non poté non tener conto di altri sgradevoli dettagli che gli si impressero indelebilmente nel ricordo. Ebbe infatti una breve conversazione con il dottore che lo turbò profondamente. Il medico, uomo intelligente poco incline a prestar fede a dicerie superstiziose, lo interrogò a lungo sulla vita recente e le abitudini di Morton. Ascoltò con malcelato stupore la descrizione della loro sosta alla «Chenille».
    «Ma un simile châlet non esiste!», esclamò. «Non c’è proprio nessuna “Chenille”. Molto tempo fa, diciamo una cinquantina d’anni, esisteva uno châlet simile a quello che mi avete descritto, ma fu fatto demolire dalle autorità a causa della pessima reputazione delle persone che ci vivevano. Per completare l’opera, quanto restava della casa fu quindi dato alle fiamme. Non ne è rimasto più nulla, salvo qualche mozzicone di muro e delle fondamenta».
    «Pessima reputazione...?»
    Il dottore si strinse nelle spalle. «Che volete, vi erano spariti dei viaggiatori e anche qualche contadino del posto», rispose. «Ci viveva una vecchia con la figlia e pare avvelenassero il latte...»
    «Avvelenavano il latte...?»
    «Già. Ma i vicini le accusarono di qualcosa di peggio di “semplici” omicidi...»
    «Che volete dire?»
    «Mah, dicevano che la ragazza era un vampiro», sospirò il dottore. E dopo un attimo di esitazione aggiunse:
    «Sapete, sul collo del vostro amico c’era un forellino, minuscolo come una puntura di spillo, ma profondo. E, ve l’ho detto?, era completamente dissanguato».



    * da Il Sangue e la Rosa (Reverdito Editore, 1988)