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  racconti  

 Bevi, Fratello Mio
 Nicola Lombardi
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Bevi, Fratello Mio - 1997 


Il vento caldo che soffiava da Sud reclinava i lucidi ciuffi d’erba, e la distesa verde fluttuava sotto il sole come un inquieto lago di smeraldo. Bianche nubi lontane veleggiavano, all’apparenza immobili, sopra le creste scure dei monti, là dove i raggi accecanti che si riversavano dal cielo strappavano riverberi d’oro ai picchi di granito.
     L’uomo sembrava tranquillo, immerso nell’ombra, accovacciato contro il tronco del salice. La folta chioma nera si confondeva fra le ruvide striature del legno. Il calore aveva inciso aride rughe sopra il suo volto, infestato dai riflessi delle fronde, ed in quel volto duro scintillavano due pozzi d’ossidiana.
     L’uomo era immobile.
     Sembrava tranquillo.
     Ad intervalli quasi regolari, il placido silenzio che gravava tutt’intorno era spezzato dallo stridore rauco dei falchi, che planavano sui campi per risollevarsi sfrecciando nell’arsura senza fine.
     A tratti, un belare apatico si levava dal gregge, impegnato a sfamarsi del tesoro verde offerto da quel colle, e gli occhi dell’uomo vagavano stancamente sopra i dorsi lanosi simili ad una moltitudine di sporchi fiocchi sfuggiti alle nubi che si andavano avvicinando, all’orizzonte. Quegli occhi guardavano, ma non vedevano. Il pensiero che si dibatteva nelle loro profondità non stava indugiando sulle pecore, e li costrinse a spostarsi più avanti, più giù, verso valle. L’uomo cacciò con immenso fastidio il moscone che gli ronzava come un’idea nera attorno al capo, ed osservò il fratello lavorare, in distanza, al centro di un vasto appezzamento di terreno bruno.
     La zappa lontana si sollevava nel sole, si abbatteva fra le zolle, poi risorgeva, disegnando archi invisibili, facendo esplodere nugoli di stoppie e terra sbriciolata.
     L’uomo fissò per un poco, impassibile, l’alacre lavoratore, quei muscoli tesi luccicanti di sudore, quelle braccia infaticabili che colpivano, che lottavano. Per dimostrare il suo valore. Per ribadire, ancora e ancora, il suo diritto di primogenito al possesso di quelle terre, quando i loro genitori se ne fossero andati. Continuò a guardare; e come se il suo pensiero si fosse lanciato in una folle corsa lungo il pendio del colle per raggiungerlo ed aggredirlo, il fratello conficcò un’ultima volta la zappa nel terreno e si fermò. Un braccio gli solcò la fronte, rozzo aratro trainato fra le rughe, e minuscole stille di sudore piovvero ad irrorare il suo lavoro.
     Dall’ombra sotto il salice, l’uomo accovacciato sentì il proprio cuore gonfiarsi di un odio talmente feroce da trafiggergli il petto come la punta di una spina velenosa. Chinò un poco il capo, poi lo riportò violentemente indietro; scheggette di legno crepitarono dal tronco.
     Con gli occhi ridotti a due tremule fessure, tornò a guardare il suo gregge sparso a nutrirsi sotto il sole. Vide i velli impolverati, le zampe imbrattate di erba e feci, i musi molli striati di verde dai quali colavano filamenti di bava. Quello era il suo patrimonio. Quello era tutto ciò che il padrone gli aveva affidato, esigendo a scadenze regolari tributi scelti, gli agnelli migliori. Ed in cambio di cosa, poi? Di continuare a vivere, di continuare ad essere un pastore, di continuare a macerarsi di domande e sfinimento in quella terra maledetta sulla quale suo padre e sua madre erano stati esiliati. Conficcò le mani nel terriccio attorno alle radici e serrò i pugni, scavando due profonde ferite nel suolo.
     Fissò nuovamente il fratello, ancora immobile in mezzo al campo deturpato. Ora, stava guardando in direzione del gregge, sul piccolo colle. Stava guardando il salice.
     Stava guardando lui.
     L’uomo digrignò i denti. Tu sia dannato!
     Alzò un braccio, come per salutare il fratello lontano. Nella mano stringeva una pietra, una pietra bianca, ma l’altro non avrebbe potuto vederla. L’uomo con la zappa ricambiò il gesto e si mosse in direzione del colle, quasi avesse interpretato quel cenno come un invito ad avvicinarsi, a raggiungere un po’ di frescura all’ombra del grande albero.
     Vieni. Ti aspetto.
     L’uomo addossato al tronco scrutò ancora una volta le pecore, desiderando incendiarle con lo sguardo. Poi levò gli occhi al cielo, cercandolo al di là delle fronde, ed infine abbassò le palpebre.
     Rimase così, immobile, per un tempo che gli parve l’eternità. E durante quei secondi egli provò l’inebriante sensazione di essere assolutamente, inconfutabilmente padrone di sé stesso, del mondo intero. Preso dal suo sogno sentì i nervi di tutto il corpo vibrare, percepì i muscoli del braccio flettersi e rilassarsi, flettersi e rilassarsi, mentre le dita contratte erano ormai divenute tutt’uno con la pietra che continuavano a stringere. Il fratello si stava avvicinando. Lo sentiva, ma non con l’udito. Lo sentiva con il cuore. Era quasi giunto ai piedi del colle, e si apprestava a salire.
     Continuò a tenere gli occhi chiusi, i denti stretti, il pugno serrato come l’artiglio del falco attorno alla preda. Questa volta l’avrebbe fatto, sì, l’avrebbe fatto davvero. Troppe volte si era cullato in vane illusioni, per poi ritrovarsi a stagnare, ancora, in quello stato di perenne schiavitù, di detestabile inferiorità. Non gli importava del dolore che avrebbe arrecato a suo padre e a sua madre. Loro era la colpa se lui ora esisteva, se era condannato a stare . Né gli importava di ciò che avrebbe fatto il padrone. Poteva riprendersi tutto il gregge, poteva cacciarlo, poteva ucciderlo, anche. Non sarebbe stato in fondo un destino peggiore di quello che da troppi anni stava patendo. Il momento, il suo momento, era arrivato.
     Un ramoscello spezzato. Passi sull’erba.
     Eccolo.
     Con infinita calma, respirando a fondo, l’uomo riaprì gli occhi, e si volse ad osservare il fratello mentre muoveva gli ultimi passi fino a portarsi a pochi piedi da lui. La pietra fremette nel suo pugno.
     “Fratello mio,” gli disse, “avvicinati. Voglio confidarti un segreto. Nessuno ci deve sentire. Nemmeno il padrone...”
     Con un sibilo poderoso, improvviso, il manico della zappa recise un semicerchio nell’aria. Lo spezzone d’osso affilato legato all’estremità incontrò la fronte dell’uomo accovacciato, e non si fermò. Proseguì invece la sua corsa fino a penetrare a fondo nel tronco del salice; solo allora si placò.
     Un’esplosione di sangue inondò le radici che spiavano dal terreno.
     Il corpo dell’uomo a terra fu scosso da sussulti scomposti. La mano che stringeva la pietra bianca prese a sollevarsi e a calare colpi morenti al suolo, in rapida successione, mentre una porzione di cranio si staccava vibrando dalla lama d’osso per scivolare sopra una spalla del disgraziato.
     Gli occhi, quelle braci infossate nelle piccole tane buie sopra gli zigomi che si andavano rigando di rivoli rossi, rimasero inchiodati, increduli, contro quelli del fratello. Un’ira folle, appannata dall’ineluttabile arrancare della morte, continuava ad ardere nell’assurdo sforzo di opporre l’odio al destino, di tenere in vita quel misero corpo. Ma già densi grumi di materia cerebrale straripavano oltre l’orlo del cranio spaccato, indugiando curiosi a studiare le rughe che tagliavano le guance prima di rovinare con tonfi osceni sul terreno, pulsanti ancora di sgomento.
     Un odore acre si levò nell’aria ora immota, ed a quel richiamo rispose il moscone di velluto. L’insetto sorvolò la testa distrutta disegnando cerchi concentrici sempre più stretti, sempre più vicini; poi si tuffò, ingordo, a lordarsi fra gli zampilli scuri che irrigavano ogni solco su quella pelle luccicante.
     Un’ultima volta, ancora, il braccio sollevò, più in alto, la pietra, esitando, tremando, sorretto da un anelito di morte e distruzione. Infine, le zanne fetide della corruzione troncarono con un morso deciso il filo di quella vita che non riusciva ad accettare la sconfitta, e braccio e pietra ricaddero in una pozzanghera di sangue.
     Caino rimase immobile per alcuni istanti, fissando con occhi di belva il corpo del fratello che si accasciava. Il petto era un mantice che pompava sbuffi di respiro rovente attraverso le fessure fra i denti.
     Ecco. Tutto era compiuto.
     Indietreggiò di qualche passo, contemplando come ipnotizzato quel simulacro sempre più rosso che era stato Abele. Ed il disprezzo non tardò a riprendere il sopravvento. Suo fratello non aveva mai fatto altro se non curarsi di ingrassare il suo gregge, e scegliere i doni migliori per compiacere il padrone. Non aveva mai saputo, lui, cosa significasse la vera fatica, curvo su di una terra avida che faceva pagare i propri frutti con il sudore e con la sofferenza. Non aveva mai conosciuto la frustrazione, e la vergogna, quando il padrone non si premurava di celare il proprio sdegno davanti ai magri tributi che era in grado di offrirgli. Non aveva mai versato lacrime impotenti, nella notte, mordendosi le dita fino a farle sanguinare...
     Allontanandosi dal corpo esanime e dalla zappa rorida di sangue conficcata nell’albero, Caino si sentì finalmente libero dai fantasmi che da troppo tempo torturavano la sua anima, e salutò la sua nuova condizione levando ai cieli un urlo d’animale vittorioso.
     Le pecore, terrorizzate, fuggirono in tutte le direzioni, disperdendosi sui campi ora più scuri. I raggi del sole erano sbiaditi, ed in breve scomparvero, ingoiati dalla coltre di nubi livide accorse a coprire pietosamente quello scempio agli occhi dell’Universo.
     Un vento gelido prese a soffiare da Nord, trascinando con sé il lamento funebre di terre mai conosciute.
     Con i lunghi capelli e la barba tormentati dalle correnti, grovigli di serpi funeste, Caino gridò ancora, ancora, ancora, allargando le braccia a possedere il mondo. Nel suo sguardo già si dibatteva la consapevolezza della punizione, ma non gli importava, né la temeva. Aveva avuto più valore, per lui, molto di più, affermare la propria volontà di fronte ad un Creato che gli aveva sempre imposto di abbassare gli occhi. Anche se solo per un istante, per un’infinitesimale lacrima di tempo, lui era stato Padrone, e nulla sarebbe più stato come prima. Con quel semplice atto sentì di aver dato finalmente un senso a tutta la vita perduta alle sue spalle, già smarrita come un’inutile eco nel vuoto.
     Ed allora, a sancire la definitiva rottura con qualunque legame lo avesse fino ad allora intrappolato a quegli schemi di esistenza, d’istinto Caino si chinò sopra la pozza rossa che fluiva attorno ai suoi piedi, unì le mani a coppa annegandole nel liquido del peccato e bevve, bevve con l’avidità di un animale bruciato dalla sete. Ed era una sete profonda, che chiamava dagli abissi della sua anima, quella che gli impose di abbandonarsi a quel gesto al tempo stesso mostruoso e divino. Una seconda, una terza volta Caino raccolse il sangue del fratello, e con il viso ridotto ad un’orrida maschera grondante ruscelli di nuova vita si sentì rinascere, un essere nuovo, diverso, indomabile. Il fuoco della ribellione divampava nei suoi occhi, ora inchiodati alle nubi nere che ribollivano su quel mondo che aveva imparato ad odiare. Ma allora, non c’era differenza fra creare e distruggere? Suo fratello stava lì, davanti a lui. Distrutto. Ciò che altri avevano creato, Caino aveva potuto distruggere. E come Abele, così il mondo intero...
     Ruggì, gorgogliando per il sangue che ancora scorreva nella sua gola. Che sensazione meravigliosa, che sublime senso di incontaminata potenza percepiva fluire nel suo cervello ottenebrato! Era solo, sì, solo, pronto ad affrontare ogni maledizione. Ormai, era lui stesso una maledizione. Nulla peggio di sé lo avrebbe mai colto di sorpresa.
     Rimase lì, immobile, ritto sul colle. In attesa.
     Nel cielo le nubi in mastodontica processione rallentarono a poco a poco il loro incedere, ed in breve ogni cosa, sul mondo e tutt’intorno, si fermò. Un plumbeo silenzio, infinito, scese sulla terra, e su Caino, e sul cadavere di Abele.
     Caino strinse i pugni ancora lordi, aspettando senza timore il responso dell’Universo.
     Ma continuò il silenzio.
     Non una fronda si mosse, né un falco tagliò il cielo.
     Solo il respiro rauco dell’uomo osava sfidare quell’impossibile risposta del Padrone: il silenzio! Che vile beffa era quella? Niente tuoni, né voci, né terremoti? Silenzio...
     Poi, di colpo, il sangue di Abele in lui divenne lava. Colto da uno spasmo si accovacciò a terra, grugnendo, dilaniato da crampi improvvisi. E con gli occhi gonfi e spalancati per lo stupore, dietro un torbido velo di lacrime dolorose, Caino si trovò a contemplare inorridito le palpebre del fratello sollevarsi e lo sguardo spento fissarsi su di lui. Le sue vene parvero inaridirsi, come percorse da fiumi di sabbia rovente. Poi la lurida bocca di Abele si aprì, e sulla lingua morta scivolò una voce che gli si infisse per sempre nel cranio.
     “Vieni, fratello mio. E bevi, per l’eternità.”
     In quell’istante Caino comprese, con il cuore intriso d’ira, di essere stato ingannato. Stupido ingenuo! Non era mai stato padrone di nulla, né mai lo sarebbe stato. Tutto era previsto. Tutto era già scritto. Ciò che aveva fatto era esattamente quanto il Padrone si aspettava da lui! Non c’era mai stata libertà, mai.
     Spinto da una forza non generata dalla sua volontà Caino si avventò, bestia assetata, sul corpo del fratello, ed aprendo varchi con le unghie e con i denti non si fermò fintanto che l’ultima stilla di sangue non colò in lui per placare la sua sete.
     Quand’ebbe terminato, rimase a fissare il demone dentro gli occhi di Abele, il proprio volto riflesso nei bulbi senza vita. Si sentiva meglio, adesso. Il dolore era scomparso. Ma la sua anima era già una piaga spalancata alla dannazione.
     Lentamente si sollevò, a fatica, come sotto il peso di un fardello immane. Studiò con aria vacua ciò che restava di Abele, rabbrividendo al sapore amaro dell’invidia per la liberazione che il fratello aveva raggiunto. Non seppe mai che avrebbe potuto essere libero al posto suo, affrancato da quella vita, se soltanto avesse atteso qualche secondo in più prima di colpire...
     Lercio del sangue che pareva trasudare da ogni poro della sua pelle, Caino ascoltò ancora per un poco il frastuono del silenzio, più insostenibile di mille condanne. Poi, con il cuore avvelenato e l’ombra di una bramosia insaziabile che non lo avrebbe mai più abbandonato prese a discendere il colle, correndo, ormai preda di una furia cieca ed insensata. Ricominciò a gridare, forsennato, ridendo e piangendo, smarrendosi in quella terra che con la sua progenie malata avrebbe infettato, nei secoli dei secoli.
     Il veleno della sua maledizione, di padre in figlio si sarebbe disperso lungo gli infiniti sentieri dell’umanità, così com’era scritto, e la sua stirpe ingorda d’ombre e sangue avrebbe per sempre accompagnato ognuno di noi, fianco a fianco, sussurrando la notte al nostro orecchio la malìa della sua tragica sete senza fine.
     “Vieni, fratello mio, figlio dello stesso Male. E bevi. Per l’eternità.”



    * dal sito Macabro Show (2001)