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 Ornella Volta *
 Le piante vampiro

pianta vampiro - illustrazione di Ezio Savazzi
È opinione diffusa che sia stata la parlantina di Sheherazade, oltre alla sua grande bellezza, a salvarla dalla decapitazione. Tutti conoscono la storia: tradito dalla moglie, il re Scharar aveva deciso di punire inesorabilmente da allora in poi tutte le donne che gli sarebbero passate per le mani e in particolare di giustiziare ogni mattina all’alba la vergine che avesse passato la notte precedente con lui. Il progetto del vendicativo monarca andò liscio per un po’ di tempo finché l’arrivo di Sheherazade non venne a guastargli le uova nel paniere. Per mille notti, infatti, la loquace fanciulla riuscì coi suoi racconti a puntate a tenere tanto desto l’interesse del re, che questi cominciò col rimandare il suo supplizio da una notte all’altra e finì per dimenticare la triste esperienza passata e sposare alla milleunesima notte la narratrice.
Così per lo meno credevano tutti fino al giorno in cui Edgar Poe, - consultando un’antica opera ignota ai più, l’enciclopedia Ditemiunpo’ Senonècosì - non scoprì che le cose erano andate molto diversamente. Di fantasia inesauribile, certo, ma evidentemente anche priva del senso della misura, Sheherazade la milleeduesima notte non seppe star zitta: le era venuto il bisogno irrefrenabile di attribuire nuove avventure a Sindbad il marinaio e in particolare la scoperta di alcune meraviglie della natura (vulcani, atolli, foreste pietrificate) nonché di alcune ingegnose invenzioni dell’uomo (pila voltaica, telegrafo, dagherrotipo). Suscitò così una tale incredulità nel bizzoso re, che pure per mille e una notte si era bevuto le storie più inammissibili, da fargli decidere ipso facto di tagliare la testa a colei che insisteva a tal punto a prenderlo in giro.
Tra le meraviglie naturali che provocarono l’irritazione giustiziera del re, c’era la descrizione minuziosa di alcune piante-vampiro. Pare ad esempio che la Planta epizoa in particolare suscitasse nel suo cervello un po’ lento la più violenta reazione.
Eppure uno scrupoloso scienziato del primo Ottocento (i cui lavori Poe deve aver letto con avidità), il prof. J.B. William di Salem, riuscì coscienziosamente a descrivere uno strano bruco della Nuova Zelanda, da lui battezzato “il paniere”. Simile ad un cestino, infatti, questo bruco vive con una planta epizoa radicata, nella sua testa. Il “paniere” usa arrampicarsi, appena nato, sugli alberi, poi – arrivato in cima – fora la corteccia e rifà la strada a ritroso, stando però questa volta all’interno del tronco. Giunto alla radice, finalmente esce fuori, ma, esaurito dallo sforzo, si addormenta o addirittura muore. Man mano che il suo corpo si irrigidisce, senza peraltro decomporsi, la pianta sulla sua testa (che – per unico alimento – ha il bruco, in letargo o defunto che sia) si sviluppa e cresce.
Checché ne pensasse il re Scharar, le piante-vampiro sono in realtà numerosissime, a cominciare dalle parassite che vivono nutrendosi della sostanza di altri vegetali: la più notevole di queste è certo la Rafflesia Arnoldi dell’isola di Sumatra. Il suo fiore è il più grande al mondo (circa un metro di diametro), ha petali spessi e carnosi, contiene circa cinque litri di nettare e puzza di carne. Abita sulle radici di una vite, di cui si nutre, pare – però – senza mai ubriacarsi.
Un altro vampiro vegetale è l’Aristolochia Clematitis, che senza avere effetti letali, si limita a sfruttare al massimo l’insetto che gentilmente viene a fecondarla. Il reverendo Keith, appassionato botanico, ha osservato che l’Aristolochia Clematitis tiene quest’insetto prigioniero nei suoi pistilli come un topo in una trappola di ferro. Solo quando l’insetto è completamente ricoperto di polline, il fiore – finalmente soddisfatto – si ritrae leggermente, lasciando uno spiraglio perché l’altro possa uscire.
La vera pianta-vampiro tuttavia è quella che uccide la sua vittima. Nell’orto botanico di Lucca esiste un alberello carnivoro, da cui le madri, come allo zoo, usano tener lontano i bambini. E Herbert Gorge Wells in “The flowering of the strange orchid”, racconta di una certa orchidea delle isole Andamane in Australia, che si avvoltola alle gambe dei giardinieri trasformando i suoi rossi boccioli in bocche avide di sangue umano. Secondo Fred M. White, l’autore di “The purple terror”, a Cuba i cosiddetti “papaveri del diavolo” se ne stanno di giorno compostamente avviticchiati agli alberi circostanti e di notte si allungano paurosamente nella direzione in cui sentono la presenza di un deposito di sangue umano. Trasformate in terribili corde vegetali, costituiscono da sole un cappio capace di sollevare le vittime a mezz’aria. Le corolle vermiglie lasciano trasparire, protendendosi, lunghe spine aguzze che si indovinano capaci di sostituire in tutto e per tutto una vorace dentiera.
Dato che gli uomini e gli animali stan loro alla larga, sono però costrette di solito a cibarsi di mosche: «tutti sanno quanto sia difficile pigliare una mosca», ha osservato il botanico Adolphe Buyssens, «eppure per queste piante è uno scherzo da bambini». Tanto è vero che i coltivatori messicani piantano la Pinguicula caudata ai bordi delle serre di orchidee appunto per proteggere queste ultime dagli insetti nocivi e i portoghesi si tengono la Drosophilla in casa appesa al soffitto al posto della carta moschicida.
I sistemi per prendere le mosche usati da queste piante non sono tutti uguali. La Dionea muscipola, detta anche trappola di Venere, che si trova soprattutto in Florida e in Carolina, ha una foglia composta da due parti, come le valve di un’ostrica. La nervatura funziona da cerniera. Sulle valve c’è qualche peluzzo, orientato in precedenza verso l’interno che costituisce uno scivolo ideale per l’insetto imprudente che vi si posi. Appena la creatura è scivolata, i peli si intrecciano tra di loro e le valve si richiudono ermeticamente, premendo fortemente sul prigioniero per bene assimilarne le sue parti molli.
La Sarracenia purpurea ha invece delle foglie a forma di cartoccio, che contengono un liquido che attira gli assetati. Ma chi va lì per bere finisce in realtà con l’annegare. E l’annegato è automaticamente inghiottito e digerito.
Dello stesso tipo sono anche i Nepentes a Borneo, a Ceylon o sulla costa africana (scelgono sempre le località calde, dove è più facile provare la sete). Ogni loro foglia a sacchetto è provvista di una specie di coperchio, che, oltre a richiudersi a scatto sul primo malcapitato, ha anche la funzione, in caso di pioggia, di evitare che il liquido contenuto nella foglia trabocchi e si possa diluire.

La Urticularia vulgaris, cosmopolita, è invece acquatica e quel che più le piace sono i piccoli crostacei. Li cattura con certi piccoli otri di tre millimetri al massimo di diametro, che porta infilati in cima alle sue foglie, esili come ragnatele. Non li ingerisce, però, finché non si sono decomposti: interi risulterebbero poco digeribili.
I pesciolini piacciono anche all’Aldrovandia Vesciculosa, tanto che questa pianta acquatica addirittura naviga nelle acque dei fiumi del Bengala e dell’Australia, spostandosi come un pescatore esperto sempre verso le zone più pescose.
Ma le piante insettivore che meritano maggiormente la notorietà sono certo la Drosophilla e la Drosera. Nel 1923 lo scienziato Henry Imbert trovò un esemplare di Drosophilla in Cina, nella penisola di Lei–Tchu e con grande soddisfazione lo paragonò a un «ragno vegetale»: su ogni esemplare erano incollati almeno una trentina di insetti, tra i quali perfino qualche grosso moscone. I fiori della Drosophilla sono rosa pallido e si aprono secondo l’orario unico solo dalle 9 del mattino alle 2 del pomeriggio. Sulle foglie convesse, i tentacoli stanno allineati all’interno in ranghi paralleli, come soldatini pronti all’attacco, sempre provvisti in cima di qualche goccia di liquido vischioso allo scopo di paralizzare l’infelice che vi si avventuri.
L’odore della Drosophilla è stato paragonato a un porcile mal tenuto, ma è proprio quello che attira le mosche, di cui i gusti discutibili non sono un mistero per nessuno.
Non essendo di per se molto bella la Drosophilla cerca a volte di valorizzarsi, associandosi alla Drosera, la pianta cantata dai poeti. Questa sembra proprio un mazzolino di rose: al centro ha un grappolo di boccioli rosati, intorno numerose foglioline ovali dagli orli graziosamente arrossati, imperlate di goccioline che sembran di rugiada e che, in realtà, non sono altro che succo gastrico. Grazie ai suoi riflessi luminosi e liquescenti la Drosera ricorda l’arcobaleno e gli insetti ne sono attirati come allodole dagli specchietti.
La Drosera è così sicura di se che, quando le bestioline le restano addosso, invischiate, se ne rimane impassibile come, davanti a una vincita già scontata, un consumato giocatore di poker. Solo dopo 24 ore, le sue foglie pian piano s’incurvano a coprire l’insetto, costituendo una specie di stomaco provvisorio. La digestione è lunga e difficile. Solo dopo qualche giorno le foglie si ridistenderanno placate, riprendendo la loro posizione abituale, e al posto dell’insetto resterà una quasi impercettibile macchiolina nera: il suo scheletro.
Darwin ha notato che i tentacoli della Drosera agiscono con una violenza proporzionale all’energia dimostrata dall’insetto nel ribellarsi. Ripercotendosi su uno dei tentacoli, il gesto d’insofferenza delle vittime si propaga per contagio agli altri che la stringono di riflesso in una morsa, cosicché si può dire davvero che ogni ribelle ha la lezione che si merita.
Darwin aveva provato a posare sulle foglie materie diverse per vedere se i gusti della Drosera fossero o meno indipendenti dalle occasioni che le si offrivano. L’esperienza dimostrò che questa pianta non è affatto influenzabile e ha un’opinione precisa su tutto: il bianco d’uovo lo inghiottì con manifesto piacere, le bistecche invece le respinse con evidente disgusto.
Non sarebbe capitato lo stesso con l’erba scoperta dall’avventuriero Northwest Smith sul Pianeta sconosciuto. Racconta Caterine Moore in Sogno rosso come Northwest Smith, passeggiando con un’amica in quell’insolita campagna , si rende conto che il paesaggio ha qualcosa di strano, di convulso, di minaccioso. L’erba dei prati – composta di fili morbidi e corti, come la pelliccia di un animale, ma uncinati all’estremità – si agita in larghe onde continue, malgrado non ci sia ombra di vento. A un tratto la compagna di Northwest Smith lancia un gridolino: le sue caviglie sono crivellate da tante piccole macchie di sangue. Si sente uno strano sibilo crescente. Sono i fili d’erba che succhiano. Smith afferra la sua pistola nucleare e tira: una fiamma azzurrastra copre la prateria. La sensazione successiva di Smith ricorda un po’ quella provata da dante dopo aver strappato un ramo dell’albero- Pier delle Vigne: con orrore l’avventuriero dello spazio deve ammettere che, malgrado egli abbia colpito soltanto dell’erba, l’odore che gli sferza le narici è quello della carne bruciata.

Ornella Volta.




* Questo articolo è tratto da Horror N. 11, Gino Sansoni Editore, 1970.





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