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Approssimativa
ricostruzione del castello di Dracula eseguita seguendo le
tracce di documenti dell'epoca.
Fonte: Corriere della Paura n. 1 - 1974 |
In un cantone dell’Ungheria, nella prima metà
del ‘700, un contadino di nome Arnold finì stritolato sotto un carro di
fieno. Un mese dopo, quattro paesani morirono fulmineamente della morte orribile
di coloro che, secondo la tradizione dei luoghi, vengono dissanguati dai
vampiri. Scattò l’allarme, vennero riesumati alcuni cadaveri di recente
sepolti. Fra questi, quello di Arnold che recava inconfondibili le note
caratteristiche del vampirismo. Il corpo era fresco, integro, non recava traccia
di decomposizione; i capelli, le unghie, la barba erano cresciute, le vene piene
di sangue fluente che inondava il lenzuolo in cui era stato avvolto alla
sepoltura. Un magistrato, al cospetto del quale l’esumazione era avvenuta,
ordinò che venisse immediatamente piantato un paletto appuntito nel cuore di
Arnold: dal corpo partì un grido straziante, come fosse stato in vita. Poi fu
decapitato e dato alle fiamme: così, del vampiro, non si sentì più parlare…
Questa e decine di altre analoghe cronache si possono leggere nell’opera che
l’abate Dom Augustin Calmet pubblicò nel 1749, dal titolo «Dissertazioni
sulle apparizioni degli spiriti e dei vampiri», in cui sono raccolti numerosi
racconti, molti dei quali inediti, di apparizioni e incursioni vampiresche in
paesi dell’Europa centro-orientale. Questa macabra figura fu introdotta nella
cultura dotta dell’occidente verso il 1600, da alcune relazioni di viaggio in
Grecia e nei Balcani: ma sarà nel ‘700, secolo diviso fra razionalismo e
mistero, illuminismo e tradizioni occulte che il vampiro diventerà un
personaggio, o un incubo se vogliamo, per gli europei occidentali. Voltaire
osservò che fra il 1730 e 1735, non si fece altro che vedere vampiri. Non si
trattava, però, solo di una moda del secolo, perché il vampiro è molto più
antico.
Ne parlano documenti dell’antica Cina, di babilonia, Caldea, Assiria, Egitto.
In una tavoletta di scongiuri proveniente dalla biblioteca di Ninive, la
tredicesima formula insegna a combattere «il fantasma, lo spettro, il vampiro».
La credenza che il corpo di un morto possa desiderare il sangue è presente
anche fra i greci: in «Ecuba», Euripide rappresenta Achille nel suo sepolcro,
placato dal sacrificio di una vergine di cui beve il sangue. E un vampiro,
secondo le cronache dell’epoca, fu esorcizzato dal grande mago Apollonio di
Tiana, contemporaneo di Cristo.
una tradizione, comunque, tipica dell’oriente europeo, dal quale proviene lo
stesso nome: vampyr in magiaro, upiery in polacco, upiry in
russo. «Si dettero questi nomi – scrive Collin de Plancy nel suo celeberrimo
«Dizionario infernale» - ad uomini morti e seppelliti da parecchi anni o
almeno da parecchi giorni, i quali si facevano vedere in corpo ed anima,
parlavano, camminavano, succhiavano il sangue dei lor parenti, li sfinivano ed
infine lor cagionavano la morte. Non si troncava il corso delle loro visite e
delle loro infestazioni che dissotterrando i cadaveri, impalandoli, tagliando
loro la testa e bruciandoli… i giornali di Francia e dell’Olanda parlarono
dal 1693 al 1964 di vampiri che si mostrarono in Polonia e soprattutto in Russia».
A dimostrazione di come il fenomeno fosse preso tremendamente sul serio, dal
Medioevo in poi in questi paesi, non stanno soltanto l’imponente numero di
cronache e tradizioni, ma anche le complesse pratiche magiche e rituali, nonché
i provvedimenti giuridici volti a difendere la comunità dall’attività del
vampiro.
Non è un caso quindi che l’irlandese Bram Stoker, padre del più celebre
vampiro della cultura moderna, avesse ambientato in Romania e segnatamente sulle
montagne della Transilvania il romanzo «Dracula» (1897) che originò una
rinascita del genere vampiresco, che dura ai giorni nostri grazie anche a
capolavori cinematografici come «Nosferatu» di Mornau del 1922 e «Vampyr» di
Dreyer del 1932
Dracula nasce in Transilvania perché ancor oggi i contadini di quelle regioni
vivono nel terrore di vampiri e licantropi e formano croci con pezzi di aglio
per proteggersi da sgradevoli visite notturne. Pochi anni fa, nel 1968, una
zingara rumena raccontò al professore del Boston College, Raymond Mc Nally, di
aver trafitto con un paletto il corpo del padre nella bara perché convinta che
fosse un vampiro.
Quella di Stoker non fu solo fantasia, perché un conte Dracula in quei luoghi
è esistito veramente. Lo hanno ritrovato il già citato Mc Nally e Radu
Florescu, un altro docente del Boston College di origine rumena. La descrizione
fatta da Stoker del castello è perfetta, dicono i due studiosi; e in quel
castello, a riprova della sua reale esistenza, affermano di aver trovato anche
il ritratto del terribile Dracula. Di lui, però, i contadini transilvani non
parlano come di un vampiro. «Furono confusi quando chiedemmo loro di Dracula
come vampiro – riferisce Florescu – sebbene lo conoscessero come un crudele
dominatore».
Dracula, dunque, non avrebbe mai morso un collo, ma l’esistenza di un signore
sanguinario in una terra dove è così radicata la paura e la tradizione del
vampiro ha fornito a Stoker lo spunto per il romanzo.
Il Dracula storico nacque nel 1431 con il nome di Vlad, figlio di Vlad Drakul
principe di Valacchia: di qui il patronimico Dracula, nome intriso di
significati occulti poiché «drakul» in rumeno significa demoni… E demoniaca
fu la sua vita perché dominò la Valacchia dal 1456 al 1462 con incredibile
efferatezza, prima di venire ucciso nel 1476 dai turchi. Nella zona si dice che
la sua maledizione è ancora viva e a farne le spese furono gli stessi
ricercatori guidati dai professori di Boston. Lo zio di Radu Florescu, durante
l’ispezione del castello, cadde in un burrone e si ruppe un’anca. Tre
studiosi rumeni impegnati nelle ricerche morirono misteriosamente. Per i
contadini transilvani la spiegazione c’è, anche se ripugna alla ragione:
erano andati a frugare fra i segreti di Vlad l’Impalatore, il Dracula
maledetto, che non perdona anche dopo cinque secoli.
Ma chi era e cosa fece per meritarsi tanta abominevole fama?
Si dice che portò le torture quasi a raffinatezze artistiche. Fra tante
mostruosità, preferiva il supplizio del «palo», da cui l’appellativo di «Tepes»,
«impalatore» (è col paletto appuntito che si uccidono i vampiri e forse in
questa predilezione per i pali sta una delle ragioni che associarono Dracula
alla tradizione vampiresca).
Secondo le informazioni raccolte da Mc Nally e Florescu, impalava la vittima di
persona, di solito lentamente, interrompendo di tanto in tanto il supplizio, per
poterla ingiuriare in visite seguenti. Ma amava anche le impalature
spettacolari. «Una volta – racconta Mc Nally – fece una foresta di 20 mila
turchi impalati. In un’altra occasione la sua efferatezza si manifestò verso
i sudditi: riunì i malati e i mendicanti in un palazzo, vi diede fuoco e li
lasciò bruciare vivi, per far sì che il suo popolo fosse sano e benestante».
Gli studiosi cercano le cause di tanta aberrazione, che si estrinsecava talvolta
in atti maniacali come quando – secondo la relazione di Florescu – fendeva
gli ombelichi delle sue amanti se restavano incinte. La spiegazione sarebbe in
un episodio della sua infanzia: a 13 anni era stato catturato e tenuto
prigioniero dai turchi e fu vittima di un’aggressione sessuale da parte del
Sultano. Di qui sarebbe partita la sua depravazione: in carcere Dracula
ragazzino chiedeva ai secondini di portargli topi e uccelli per impalarli e
strappar loro le piume. Secondo gli studiosi di Boston, dopo l’esperienza col
sultano sarebbe diventato omosessuale e ciò spiegherebbe il maltrattamento
delle amanti e l’uso dei pali, probabilmente come simbolo di potenza.
Dracula morì in combattimento contro i turchi nei pressi di Bucarest. Prima di
essere seppellito a Snagov, proprio fuori dalla capitale, il cadavere – che
continuava a incutere paura – venne decapitato.
Con questa sepoltura finisce la vicenda terrena del conte Vlad l’Impalatore,
figlio di Drakul, detto Dracula. E qui comincia la leggenda, la letteratura che
lo vuole principe dei vampiri, celebrato da libri, film e fumetti. Non era un
vampiro, perché forse di vampiri non ce ne sono mai stati, a dispetto delle
cronache popolari e del buon abate Dom Calmet, ma certamente fu un personaggio
sinistro, la cui fama raccapricciante è dovuta al sangue che ha versato se non
a quello che ha succhiato: il Dracula «storico», insomma, è altrettanto «nero»
di quello letterario.
Si dice che il mito vampiresco crebbe intorno a lui a causa dei pipistrelli che
infestavano la zona dove abitava. La tradizione rumena parla di pipistrelli,
probabilmente idrofobi, che volavano dal castello, attaccando e mordendo
chiunque si avvicinasse. È stato facile, quindi per la fantasia popolare,
associare un così malefico signore alle caratteristiche dei ripugnanti volatili
a forma di topo che ne costituivano la corte minacciosa in agguato sui torrioni
del maniero.
Sanguinario e impalatore attorniato da volatili vampiri: è la spiegazione del
mito romanzesco. C’è una notizia, però, che ridà qualche speranza a chi si
rifiuti di accettare la realtà storica di Dracula come semplice, sia pur
efferato signore transilvano e non come essere che sorgeva dalle tombe per
succhiare il sangue dei vivi.
Quando, nel 1931 a Snagov, vicino a Bucarest, fu aperta la cripta in cui era
stato sepolto Vlad Tepes cinque secoli prima, la tomba fu trovata vuota: il
conte Dracula non c’era più. I ricercatori di Boston hanno dato una
spiegazione: l’empia fama di quel cadavere avrebbe indotto alcuni monaci,
timorosi che i resti potessero dissacrare il terreno di sepoltura, a traslare
segretamente la salma altrove. È la spiegazione forse più logica, ma non è
certa né documentata, per cui chi ama pensare che Dracula sia uscito dalla
tomba, con mezzi propri, per andare in giro di notte a succhiare sangue dai
colli è sempre nel suo diritto. Le ipotesi sono ipotesi: i fatti dicono che il
Conte Dracula, nella sua tomba, non c’era più.
Resta da chiarire perché il mito del vampiro, così vivo nelle terre
insanguinate da Dracula, si sia trasmesso intatto dalla tavoletta di Ninive a
Dom Calmet, alla cultura moderna. È un mito che nasce da un bisogno ancestrale
dell’uomo: quello di continuare ad esistere al di là della morte, di
perdurare nel tempo, di essere immortale.
Così un mondo contadino emarginato, lontano dai dogmi religiosi
codificati, senza una precisa nozione del trascendente ha creato la figura
dell’essere che si ribella alla morte e trova il modo di sopravvivere
attraverso un atto materiale, l’assimilazione di linfa vitale, di sangue che
ridà una sorta di vitalità all’etere cadaverico. È una forma rozza,
terrena, di fede nella rinascita, presente in tutte le società primitive e che,
in alcune, assume l’incarnazione del vampiro. Una fede confinata nel ghetto
del male, perché le classi più evolute avevano più sofisticate forme di
sopravvivenza da proporre alla massa, in paradisi angelici ed eterei nirvana. Il
vampiro dei contadini resta una creatura di ordine differente, di classe
inferiore rispetto al fantasma dei castelli aristocratici e perciò la cultura
evoluta lo detesta, lo condanna come simbolo delle forze del male che si
agitano, in una specie di vita, quando muore la luce del sole.
Il morto dissanguato dai canini del vampiro diviene vampiro a sua volta: egli
trasmette agli altri, con il suo morso malefico, il beneficio dell’immortalità.
I contadini che agghindano di collane d’aglio le porte di casa, i montanari
che tramandano agghiaccianti racconti nell’Europa orientale, inconsapevolmente
amano questa loro sanguinaria creatura perché, se esistesse, sarebbe la prova
palpabile della loro immortalità, la prova che si può vincere la morte: una
prova più vicina del confuso “al di là” spiegato dai dotti.
La prova che si può diventare immortali, com’era stato per il contadino
ungherese Arnold, vampiro da un mese, prima che un magistrato crudele,
rappresentante del potere costituito, non avesse fatto distruggere con un
paletto appuntito la sopravvivenza larvale che aveva raggiunto.
* Questo articolo è tratto dal Corriere
della Paura N. 1, Editoriale Corno,
Giugno 1974.
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