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Lamento funebre artificiale.
Pisticci (Lucania)
Fonte: Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale, Bollati
Boringhieri Torino 2000
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Il culto dei morti è da sempre elemento
principale di tutte le culture sacre subalterne popolari e presente in
molti aspetti folkloristici tradizioni ancora attuali. Questa ricerca
sull’antropologia del lutto, ha lo scopo di individuare un archetipo
comune al rituale funebre del cordoglio e alle sue varie
manifestazioni.
Uno tra i più significativi rituali del cordoglio è quello della
lamentazione funebre le cui tracce si perdono nella notte dei tempi.
Per poter introdurci nel viaggio verso i sacri “lynos” dobbiamo
però partire dalle tradizioni lucane, forse la regione che più di
tutte ha conservato il ricordo di questo antico rituale.
Il lamento funebre lucano ed in particolare la “lamentazione
professionale”, è una pratica in via di dissolvimento o
praticamente già dissolta della quale rimane solo il vago racconto
delle anziane donne rivisitato in un’ottica di malcostume o
vergogna.
Ancora oggi accade che al dolore delle famiglie luttuate si unisca il
cordoglio di altre persone, soprattutto quelle che da poco son state
colpite a loro volta da un lutto, ma non si può parlare di vere
lamentatici con l’accezione arcaica del termine, è solo un modo per
rivivere e riproporre il proprio dolore personale o esprimere
cordoglio a persone che, anche se non strettamente legate da
parentela, erano comunque conosciute nel piccolo paese ove vivevano.
Del resto non possiamo dimenticarci il contesto geografico dal quale
parte questa ricerca: i paesi più interni della Basilicata ove
isolamento e arretramento fanno ancora avvertire al contadino la sua
stretta dipendenza dalle indomabili forze naturali(A. di Nola, 1976).
E’ proprio questo status vivendi che ha permesso il perdurare di
questi antichissimi ricordi, poi in parte trasformati dall’influenza
cristiano-cattolica in una forma sincretica che è tipica del
Cristianesimo locale ed autoctono e che si esprime in quel
cattolicesimo popolare intessuto di influenze ed elementi
“pagani”.
Le stesse formule
verbali mettono in evidenza una morte più simile a quella pagana che
a quella idilliaca e priva di corpo cristiana.
Così
il defunto anche nell’aldilà continuerà a condurre una vita non
molto dissimile da quella terrestre “ora ti debbo dire cosa ti ho
messo nella cassa:una camicia nuova, una rattoppata, la tovaglia per
pulirti la faccia all’altro mondo, due paia di mutande una nuova e
una con la toppa nel sedere, poi ti ho messo la pipa tanto che eri
appassionato al fumo”
La lamentazione funebre poi sembrerebbe
un rituale legato al mondo agreste
“…noi contadini e le persone per
bene andiamo al cimitero e piangiamo sulle nostre tombe…le persone
per bene vengono al cimitero ma non piangono…le persone ricche
piangono sì, ma non come noi pacchiani, noi che siamo villani e
contadini piangiamo di più….”
Un particolare che ci ritornerà utile
nel proseguo dello studio.
Tutto il rituale segue delle
ben precise regole che fanno della tradizione una vera e propria
“tecnica del pianto”.
La
lamentazione si presenta con un testo di cui “si sa già cosa
dire”, secondo modelli stereotipati. Normalmente non appaiono
elementi cristiani, invocazioni a Gesù, alla Vergine, ai Santi,
anzi…vi è quasi una forma di protesta nei loro confronti “oh che
tradimento ci hai fatto Gesù”
La prima fase è quella
del ricordo del defunto “o marito mio buono e bello, come ti
penso” poi il suo lavoro la lamentatrice fa sempre riferimento al
tema delle mani del morto
“sei morto con la fatica alle mani”,
poi il ricordo di tempi belli “quanne scimme a”
per poi inserire frasi sarcastiche del tipo “oh il vecchio
che eri” per persone giovani o “oh che male cristiane” per
indicare uomo d’abbene.Poi viene la descrizione della condizione in
cui viene a trovarsi la famiglia, così per la neo sposa il lamento
delle nozze non ancora consumate, per la vedova il duro lavoro che
l’aspetterà, per i figli la mancanza del padreper poi avere quasi
un piccolo rimprovero per la morte prematura “come mi lasci in mezzo
alla via con tre figli”
Si
passa poi al modulo “ora vien tal dei tali” che a sua volta
risponde “chi è morto” per
infine ricordare le vicende tra il defunto e questa persona “…non
ti verrà più a chiamare alle 3 del mattino…”
Particolare importanza acquista quella
che potremmo definire la mimica del cordoglio, l’oscillazione
corporea, perfettamente integrata al suono, come in moltissime
tradizioni sciamaniche afro-amerinde, con una funzione quasi ipnogena
( E. De Martino, 1959) molto simile anche a quella delle lamentatrici
palestinesi o arabe.
Interessante
è la mimica del fazzoletto agitato sul corpo del defunto per poi
essere portato al naso in una continua incessante ripetizione
dell’elemento gestuale.
Anche
questa gestualità avrebbe un atavico archetipo, così infatti la
ritroviamo tra le lamentatici egizie. Qui il “gesto” sembrerebbe
chiaramente destinato ad una forma di protezione dal defunto: Un solo
braccio è portato verso il capo mentre l’altro si distende avanti
con la palma della mano rovesciata. Gesto che poi ha assunto una
valenza di saluto più che di difesa.
Tradizioni rituali di questo tipo sono
presenti anche in altre parti di Italia, quasi ad individuare un
comune denominatore.
E’ così ad esempio simili tradizioni le troviamo in Sardegna o più
lontano in Brianza ove Il curato di Casiglio scrive come l'uso della
lamentazione funebre sia ancora ben presente nel suo borgo, ancora nel
XV secolo, benché proibito, e sarà lo stesso Carlo Borromeo che,
assistendo ad un funerale a Predama, in Val Varrone, rimase fortemente
sconcertato. Le
prefiche le ritroviamo nel leccese
ove sono chiamate “repite” e nell’area abruzzese molisana.
Tradizioni simili sono
presenti anche in Valtellina ed in Sardegna. Antonio Bresciani così
ci descrive l’usanza tra le donne sarde: “In sul primo entrare,
al defunto, tengono il capo chino, le mani composte, il viso
ristretto, gli occhi bassi e procedono in silenzio…oltrepassando il
letto funebre…indi alzati gli occhi e visto il defunto giacere,
danno repente in un acutissimo strido, battono palma a palma e gittano
le mani dietro le spalle…inverochè altre si strappano i capelli,
squarciano cò denti le bianche pezzuole c’ha in mano ciascuna [
altro particolare simile alla lamentazione lucana N.d.A.] si
graffiano e sterminano le guance, si provocano ad urli…a
singhiozzi…altre stramazzan a terra…e si spargon di
polvere…poscia le dolenti donne così sconfitte, livide ed arruffate
qua e la per la stanza sedute in terra e sulle calcagna si riducono ad
un tratto in un profondo silenzio…” (A.
De Gubernatis, 1869)
Nel napoletano era
praticato un “riepito battuto”, una lamentazione accompagnata da
un battersi rituale che terminava con l’avvicinarsi di alcune donne
alla vedova che, al suono di “ah misera te”, le strappano una
ciocca di capelli e la gettano sul defunto.
E’
da quest’area che deriverebbe l’antica filastrocca
fanciullesco-popolare
Maramao, perché sei morto?
Pane e vin non ti mancava,
l’insalata
era nell’orto
e una casa avevi tu.
Come si può notare, in questa strofa
sono elencate una serie di buone ragioni
materiali (di
indubbio retaggio pagano) per cui il morto non avrebbe dovuto morire,
con l’intento di esorcizzare o quanto meno stemperare il dolore e
l’angoscia attraverso un modulo letterario di lamentazione. Non solo
ma lo stesso nome “maramao” potrebbe essere una successiva
distorsione della frase “Amara me perché sei morto” con appunto
richiami ai discorsi protetti lucani.
Il Tema dell’Offerta
della Capigliatura
Nel corteo funebre era dunque uso per le
donne, una volta disciolte le chiome, accostarsi al morto
percuotendosi il petto con violenza e abbandonandosi in un primo tempo
a disordinate grida di dolore( E. De Martino, 1958). Il termine
francese di lutto, “deuil”, sembrerebbe
mettere bene in evidenza questo aspetto discendendo direttamente dal
latino “dolium” che corrisponderebbe a “dolere” e quindi al
battersi il petto. Era poi usanza incidersi le carni, graffiarsi a
sangue le gote e gli avambracci, percuotersi, stracciarsi le vesti e i
capelli.
Questi rituali altro non sono che l’atavico ricordo di antiche
usanze, così ad esempio in Grecia troviamo che “…le donne con le
chiome sciolte si accostano al morto e percuotendosi il petto con
violenza si abbandonano in un primo momento a disordinati gridi di
dolore, cui poco dopo fanno seguito i lamenti funebri
cerimoniali…”
Ancora in Geremia
“…ogni testa sarà calvata, ogni barba rasa, su tutte le
mani vi saranno incisioni…”, stessa tradizione che troviamo tra i
Mirmidoni per la morte di Patroclo, mentre nell’Alceste
di Euripide il Dio della morte è descritto mentre brandisce una spada
nell’atto di tagliare una ciocca di capelli al morto (Alceste Versi
75-78). Altre testimonianze le troviamo in Luciano che narra di
offerte di capelli da parte delle donne durante i festeggiamenti per
la morte di Adone.
L’intera operazione fin qui descritta,
la lamentazione, la gestualità, sembrerebbe nascondere, più che un
vero e proprio dolore verso il defunto, un’operazione apotropaica di
allontanamento della morte, una tecnica indirizzata a combattere il
ritorno del defunto. stessa come testimoniato da altre usanze come
quella di bruciare i vestiti del trapassato o l’apertura delle
finestre dopo il decesso, per terminare alle interessanti frasi di
chiusura del lamento funebre “non ho più niente da dirti, non ho più
niente da farti, statti bene e vieni in sogno a dirmi se sei contento
di tutto quello che ti abbiamo fatto” ( E. De Martino, 1959).
De Masticatione Mortorum
Tumulis – Il Cibo del Morti
Altra interessante usanza era quella di
deporre del cibo nel sepolcro per evitare che il morto, affamato,
tornasse tra i vivi per procacciarselo.
In India era uso porre due pale di riso o di farina nella tomba,
mentre i Persiani ponevano una dose di cibo utile per tre giorni dopo
i quali l’anima era completamente lontana dal corpo (A. De
Gubernatis 1969)
Spesso sulle tombe era offerto del pane,
sia come nutrimento che come simbolo di rinascita del morto nella sua
novella vita. Anche i greci e i latini commemoravano i propri morti
con offerte votive di cibo e vini sulle tombe (M. Caligiuri, 2001)
proprio per placare le anime, mentre i babilonesi e gli assiri
seppellivano vasi di miele. Che il cibo reale fosse davvero utilizzato
nei sepolcri è dimostrato da diversi testi come il “De Masticazione
Mortuorum in Tumulis” di Michel Raufft o la “Dissertatio
Historico-Philosophica de Masticatione Mortorum” di Philip Rohr. Qui
si descriveva come il morto, le cui scorte alimentari erano
insufficienti, iniziava a nutrirsi masticando il sudario e le sue
stesse carni.
L’Abate Calmet Agustin, parlando proprio dell’opera del Raufft
scrive che “E’ opinione comune in Alemagna che certi morti
mastichino nelle sue sepolture e divorino tutto ciò che hanno
intorno…Egli [ il Raufft N.d.A.] suppone che cosa provata e certa
esservi alcuni morti che han mangiato gli abiti ond’eran involti, e
tutto ciò che avevano vicino e per fino divorare le proprie carni.
Egli osserva come in alcuni luoghi dell’Alemagna, per impedire ai
morti di mangiare loro, mettono sotto il manto una zolla di terra che
in altri luoghi mettono loro in bocca una piccola moneta d’argento e
una pietra e in altri casi con un fazzoletto loro stringono fortemente
la gola”.
Sant’Agostino invece parla “del costume dei Cristiani di portar
su per i sepolcri della carne e del vino con cui si facevan i pranzi
di devozione” giustificando, ma non assecondando, questa
tradizione pagana facendola basare sul libro di Tobia “mettete il
vostro pane e il vostro vino sulla sepoltura del giusto e guardativi
di mangiarne e di bere in compagnia dè peccatori”.
Anche il cannibalismo diventa un modo
per assicurare la seconda morte al defunto, infatti lo stomaco diventa
suo definitivo sepolcro e sarebbe da questa interpretazione che
deriverebbero diverse espressioni popolari Italiane come “bere i
morti” o “mangiare i morti”(E. De Martino, 1959) e l’usanza
del banchetto funebre. Nel giorno dei morti, quasi riproponendo il
tema della necrofagia, in molti paesi della Penisola vengono preparati
strani dolcetti a forma di ossa chiamati appunto “ossa dei
morti”(A. Romanazzi, 2003) che vengono poi regalati ai fanciulli.
Varie usanze popolari sono strettamente connesse alle offerte di pane
al defunto. In Calabria e in Lucania si usava preparare delle fette di
pane per il morto. In particolare i calabresi usavano preparare
attorno al catafalco una tavola imbandita con pane, vino, uova e
legumi. Sempre in Calabria, a Celico, si usa porre accanto al morto un
pezzo di pane e dell’acqua (M. Caligiuri, 2001). Tradizioni simili
le ritroviamo in molte altre regioni italiane.
In Brianza, anche contro il volere del clero locale,fino al secolo
scorso si celebrava il cosiddetto pasto dei morti, una riunione
conviviale che radunava parenti e amici del morto.
Anche il pane “pro anima” tipico dell’area campana avrebbe una
funzione simile. L’alimento
è offerto spesso durante la veglia notturna, all’ingresso del
cimitero o della casa dei luttuati. In alcuni paesi della Provincia di
Bari veniva preparato direttamente sulla bara o sulle tombe. E’ in
questo sconcertante rituale di preparazione che ritroviamo una forma
mitigata di necrofagia. Cibarsi del pane preparato sul morto o venuto
a contatto con lo stesso altro non sarebbe che nutrirsi dello stesso
defunto, non solo, ma la cena serve anche un più atavico significato.
Secondo la legge della magia simpatica ben descritta dal Frazer, lo
stomaco è sepolcro del cibo, così come il cibo trova riposo in esso
il morto lo troverà nella terra.
Da qui le numerose tradizioni popolari legate alle espressioni
popolari bere i morti o “mangiare i morti”.
La scelta del pane come cibo rituale poi, oltre ad ascriversi al
tipico alimento del defunto, è legata anche ad una visione
rigenerativa dello stesso, in una stretta simbiosi con la morte e la
rigenerazione del frumento o in generale dei cereali di cui è
costituito.
Il Sesso e il Rapporto con il
Defunto
Interessanti sono anche le tradizioni legate al sesso. La morte
portava nella famiglia luttuata una forma di libido deficients,
quell’attanassamento(E. De Martino, 1959) con il quale termine è
conosciuto nell’area lucana, nella quale non poteva e non doveva
rimanere. L’idea di una incremento della pulsione libidica dopo la
morte ha così un duplice scopo: la riaffermazione della vita
attraverso l’accoppiamento ma anche un modo di sgomentare il morto
in questo modo che fosse avvertito della grande forza vitale che gli
viene contrapposta. Del resto l’esibizione oscena è un modo di
manifestare l’energia del vivente, Freud afferma che chi dice una
oscenità sferra un attacco, equivalente ad una aggressione sessuale
provocando nell’ascoltatore una reazione simile a quella che si
sarebbe generata da una vera e propria aggressione. Un atto aggressivo
che in questo caso è fatto contro il morto. Successivamente
dall’atto sessuale e dall’oscenità si passa al riso, una forma
mitigata dello stesso. Da qui la tradizione ancora oggi espletata di
raccontare durante le veglie funebri narrazioni oscene o a sfondo
sessuale che generano ilarità come attestato dai numerosi detti
popolari del tipo “il morto non può uscire senza il riso” o
ancora “non vi è morto senza riso”(A. Di Nola, 2003).
Nell’antichità si parla anche di danze funebri e forme di ilarità
e le danze che porteranno successivamente a quella tradizione
medievale definita “danza Macabra” raffigurata su moltissime
chiese e cimiteri. E’ il tema della morte che, suonando il flauto,
porta via i defunti, successivamente interpretata con l’idea della
democraticità della Nera signora. In realtà la morte prende il posto
del flautista pagano che apriva il corteggio funebre e che poi si
tramuterà in “danza birichina” attorno al feretro (A. De
Gubernatis, 1869).
Una traccia che ci fa intuire l’atavica origine della ricerca della
libido la troviamo anche nel mito de ratto di Proserpina quando Iambe,
serva del re Celeo ove Demetra era ospitata, per cercare di far ridere
la sua dea, si abbandona ad una esibizione oscena. Tema simile lo
ritroviamo nel mito di Baubo che, per raggiungere lo scopo di far bere
il ciceone, tipica bevanda del cordoglio, a Demeter ostenta i suoi
genitali generando in lei ilarità e dunque sconfiggendo la sua
inappetenza( A. Di Nola, 2003). Elementi osceni erano presenti in
molti culti dei morti. In Egitto le lamentatici spesso portavano i
seni scoperti(E. De Martino, 1959) sia in una visione di ostentazione
che come nuovo simbolo di rinascita essendo la mammella associata al
latte mammario e dunque alla novella vita. Questo particolare è
rimasto intatto fino al secolo scorso troviamo, nel lamento lucano,
l’ostentatio della madre al suo bambino in ricordo del latte avuto e
di quello perduto(E. De Martino, 1959). Moltissime poi sarebbero le
tradizioni di giochi erotico-sessuali durante la veglia funebre. In
Sardegna c’è addirittura una figura che ha lo specifico ruolo di
suscitare ilarità ed è chiamata la Buffona (F. De Rosa, 1899) mentre
giochi a sfondo sessuale, come quello della Pulce, sono segnalati dal
De Martino in molti paesi lucani.
Il Tema del Sangue e il
Defunto
Il tema del sangue è da sempre collegato al morto. Il
primitivo, osservando che la perdita del misterioso fluido da una
ferita comportava un progressivo indebolimento e successivamente la
morte, mise subito in relazione questo liquido con il principio vitale
umano. Ecco così che nel Deuteronomio
troviamo il passo “non ti nutrirai del sangue perché
il sangue e vita: e tu non devi mangiare la vita insieme alla
carne” e nella Genesi si dice “soltanto non mangerete la carne con
la sua vita, cioè il suo sangue. Del sangue vostro, anzi, ossia della
vostra vita, io domanderò conto”.
Il sangue è strettamente legato al morto anche perché simbolo della
vita che deriva dal fuido mistico-mestruale femminile, da qui
l’usanza di cospargere il defunto totalmente o in parte di
ocra rossa come testimonierebbero molte sepolture neolitiche e
paleolitiche o ancora l’uso del rosso dei sarcofagi egizi. In India
il rosso è il colore con il quale sono dipinte le statue delle
divinità della morte, e rossi sono gli abiti del lutto e il colore
dei fiori da offrire al morto, tradizione che ritroviamo anche
nell’antichità classica quando si doveva ricoprire le lastre
tombali con fiori freschi di questo colore o con delle violette che il
mito vuole sbocciate dal sangue di Attis evirato( A. Di Nola, 2003).
Era questo un tentativo di comunicare al defunto l’energia
vitalizzante del sangue in modo che non la richiedesse dai vivi. Anche
l’ecatombe compiuta da Achille per la morte di Patroclo, più che
come vendetta, potrebbe essere interpretata come tributo di sangue da
versare al morto per poterlo placare e così far cessare la sua sete
(E. De Martino, 1959).
Rituali Apotropaici e Timore
del Defunto: Il Primo Archetipo
Una prima spiegazione al lamento sarebbe
così quella di un vero e proprio “formulario magico” atto ad
allontanare definitivamente la presenza del defunto. Del resto lo
stesso termine “lutto” deriverebbe da “lugere” la cui radice
arcaica proverrebbe da “rompere”.
Il cordoglio dunque, e tutti i rituali ad esso annessi, è una
risposta ad una perdita, un tassello di quella vasta ed intricata
sfera religiosa che può
essere definita il “culto dei morti”. E’ con il passaggio
dell’uomo dal nomadismo all’agricoltura e alle attività
stanziali, e dunque con il seppellimento del defunto nelle vicinanze
dell’abitato, che nasce la necrofobia [ necros=morto e phobos=
paura] , e quindi i rituali atti a sconfiggerla. Secondo il
primitivo il morto, prima di raggiungere la sua patria nell’aldilà,
subisce una sorta di passaggio intermedio il cui superamento e il successivo raggiungimento di quella pace definitiva
dipende molto anche dai rituali funebri a lui riservati dai vivi, come
testimonierebbero anche le forme verbali tipiche della lamentazione.
E’ solo al termine del periodo di lutto che il morto può essere
considerato realmente tale. La lamentazione diventa così un
incantesimo per aiutarlo a raggiungere l’aldilà e così liberare i
vivi della sua enigmatica e ossessiva presenza. Ecco perché coloro
che non hanno avuto una degna sepoltura ed onoranze funebri
ritornerebbero in vita.
Tutte le arcaiche pratiche fin qui descritte non sono mai del
tutto scomparse anche se osteggiate dalla Chiesa., nel Sinodo di
Londra (1342), venivano messe al bando le forme di congiunzione
sessuale che si tenevano durante le veglie funebri e nel Sinodo di
Praga del 1366 si fa accenno agli atti di deboscia che avrebbero auto
luogo nella medesima occasione(E. De Martino, 1959). Altre
testimonianze le ritroviamo in molti sinodi locali italiani, così in
quello di Faenza del 1647 si proibisce la palmarum tensiones, in
quello di Trivento del 1686 il facies erompere e capillos evellere, e
in quello di Fermo (1775) il pugnis ora percuotere e il capillum manu
discindere.
Se dunque la lamentazione funebre e
l’intricato rituale del defunto potrebbero essere spiegate
attraverso la necrofobia, questa, a sua volta, è una successiva evoluzione di un archetipo ancor più atavico:
la morte e rinascita naturale.
I Prolegomeni del Rituale: La
passione della Vegetazione
In realtà la spiegazione potrebbe
essere ben differente e non risiedere nel timore verso il defunto,
idea solo successiva. Spirito
arboreo e divinità vegetazionali, rituali di fertilità e, sarebbero
questi i prolegomeni di ataviche tradizioni ancora presenti nel
folklore e nelle tradizioni italiane, l’Atavico ricordo di un mondo
che NON TEMEVA la morte ma la considerava elemento NECESSARIO alla
vita.
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Osiride vegetante
Fonte: Ernesto de Martino, Morte e Pianto Rituale, Bollati
Boringhieri Torino 2000 |
L’uomo dei primordi è
fondamentalmente cacciatore e raccoglitore, arare, seminare,
raccogliere, veder scomparire, erano questi i cicli che governavano la
vita dell’uomo antico, in un ciclo di forze la cui comprensione ben
sfuggiva all’uomo che la il timore che la rinascita natura possa non avvenire e che
dunque questa morte naturale si tramuti in morte della sua esistenza.
In quasi tutte le mitologie, in una stretta simbiosi con la scomparsa
e la rinascita naturale, è la divinità maschile a subire un ciclo di
morte e di resurrezione che da sempre è stato associato al sole. E’
l’idea della morte del “Dema” di Jensen, l’essere mitico
attraverso il quale i popoli agricoltori hanno avuto il dono
delle piante essenziali per la loro vita. Anche
la fine sempre violenta del Dema potrebbe così essere messa in
relazione con la “distruzione” da parte dell’uomo dei prodotti
dei campi, falciati, battuti e poi ridotti in polvere. La morte
della pianta diventa così la morte della divinità con tutta una
serie di rituali che dovevano avere il compito di rigenerare lo
stesso.
Pensiamo al Mito di Osiride o Dioniso, Tammuz od Adone, nelle cui
tradizioni funebri si usava piangere sugli orti senza ortaggi, sui
campi senza spighe, sui canneti senza canne, o a Lityerses che con il
nome indica anche il canto dei mietitori, per giungere ai Maneros, i
lamenti funebri egizi prendono il nome da maneros, simile od
identificabile con il lino.
Ecco che ritroviamo in questi antichi rituali i prolegomeni del rito
del cordoglio. Ecco la spiegazione allo strano ed indissolubile legame
tra il mondo agricolo e quello dei morti in una tradizione che
ritroviamo ancora oggi nel folklore e nella cultura popolare.
Se così la lamentazione funebre altro non è che i canti dei
mietitori antichi, anche lo
strapparsi i capelli non è solo un atto autolesionistico ma una vera
e propria offerta al defunto come sembrerebbe trasparire dalle
tradizioni e dal folklore. L’offerta della capigliatura in realtà
nasce dall’idea che essa era messa in relazione con la vegetazione
palustre.
Il
taglio era così simbolo di morte e rinascita proprio come
accadeva nel mondo vegetale.
Stessa idea è presente nelle offerte di
grano, pane e cereali al defunto, non un modo di assicurargli ciò che
non doveva procurarsi da solo tra i vivi, ma un modo per rappresentare
ancora una volta il ciclo di morte e rinascita. Stessa idea nelle
offerte di sangue, un modo di garantire perpetua energia vitale al
defunto.
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