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Fausto Cerulli
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Sono entrato da un'ora nel carcere di Secondigliano:
un fabbricato immenso, chilometri di cemento. Oltre la strada asfaltata
un quartiere alveare, orrendamente e premeditatamente moderno, carcere
più del carcere. Da quando sono entrato, per andare
a visitare un carcerato, che è una delle canoniche opere
di misericordia, ho visto solo guardie , centinaia di guardie,
affaccendate a spulciare tesserini di avvocati e permessi di colloquio,
ed a spiare in diecine di monitor i loro stessi movimenti: il cosiddetto
controllo del territorio.
I detenuti sono i grandi assenti: è il paradosso del
carcere, costruito per custodire persone ed impegnato a fare in
modo che i custoditi siano il meno possibile visibili.
Spiegazione elementare del paradosso: la reclusione tende d astrarsi
dalla sostanza fisica dei suoi protagonisti passivi, li rimuove,
li rinchiude in una gabbia senza vetri, in un circuito futuristico
invisibile; come accade per tutti i tabù che si rispettano,
e che secondo gli strizza cervelli post, para e meta freudiani,
si annidano nella parte più riposta della corteccia cerebrale.
Anche questo è il carcere: un cervello enorme e senza
pensiero, pieno di gangli che corrispondono alle porte: e le
porte conducono ad altri gangli sempre più complessi e sempre
più svuotati di senso: così più ti interni
nel carcere e meno ti senti sorvegliato, perdi persino la percezione
di essere controllato.
Infine arriva il tuo assistito, scortato da due o tre guardie, con
addosso una tuta, che è la divisa moderna dei detenuti, e
le scarpe da tennis: improbabili atleti di una gara contro il tempo,
contro la noia, contro l'essere sempre meno visibili, anche a se
stessi. Anche la loro sofferenza, in questo meccanismo di asepsi,
finisce per sembrarti banale: una regola del gioco, un tassello
scontato del mosaico: e non lo senti come un recluso, almeno non
lo senti più recluso di te. Anche il tuo conversare con lui
diventa grigio,quello che si verifica, adesso lo capisco, è
un crollo complessivo di tensione: E questo crollo è il fine
dell'Istitutizione, la sua ragione di essere, assoluta e coinvolgente:
Per questo, dentro il carcere, si assomigliano tutti, detenuti,
guardie, operatori: ed anche tu finisci per somigliare a questa
somiglianza assoluta.
A colloquio finito, ripercorri all'indietro i meandri di questo
inutile cervello automatico, e non è vero che ti senti diverso:
anche se fuori dell'ultimo cancello ti troverai nel mondo libero
dei liberi ti porti addosso come un odore di sottile spionaggio.
Quando ritorni a riveder le stelle, se hai un'anima, hai un'anima
ferita ma non troppo: Il traffico, davanti al carcere, è
furibondo: un raggio di sole a caso mi fa lo spettrogramma dell'aria
che respiro, avvelenata. Dove comincia, il carcere, mi chiedo, e
dove trova fine. Siamo in ballo già tutti, spiati da qualcuno
che non si accorge neppure di spiarci. E' il non senso brutale,
la brutalità del non senso.
Una cosa è sicura: carcere e giustizia non si incontrano
mai. Non date retta a chiacchiere: ci siamo dentro tutti, fino al
collo dell'anima.
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