Questa era la logorante esistenza dei sommergibilisti: in lotta contro
l'ossessione di vivere, rinchiusi in scatole di ferro, sprofondati negli
abissi, braccati dal nemico, troppo spesso mai conosciuti dall'opinione
pubblica.
La grande guerra
risultò il banco di prova per i sommergibili, l'arma subacquea che
non era mai stata impiegata con razionalità e su vasta scala durante
i precedenti eventi bellici. Per la verità, l'idea di navigare e
quindi anche di combattere sott'acqua risaliva ai tempi antichi.
Leonardo da Vinci era stato un precursore in questo campo.
Storicamente, la prima applicazione pratica dell'idea originale
appartiene agli stati americani con l'American Turtle, un piccolo
battello a forma di doppio guscio di tartaruga, con scafo di legno e
propulsione manuale, che fu usato contro la fregata britannica Eagle
(1776).
Nel secolo successivo
gli esperimenti si moltiplicarono in vari paesi. I battelli via via
nuovi, corazzati, costruiti dapprima con scafo semplice quindi
doppio, furono dotati di tre armi: cannone, siluro, mina. Dal motore
a vapore a quello a benzina alla innovazione definitiva: il Diesel
per la navigazione in superficie, il motore elettrico per la
navigazione durante le immersioni. Infatti il Diesel funzionava con
l'ossigeno dell'aria, mentre il motore elettrico sfruttava la carica
degli accumulatori che venivano ricaricati, una volta ritornati in
superficie, mediante collegamento ai motori termici. In Italia si
imposero, Giacinto Pullino, l'ispettore dei Genio navale che
progettò il Deffino, uscito dagli arsenali di La Spezia nel 1895, e
il maggiore Cesare Laurenti, che nel primo decennio del Novecento
progettò 40 battelli per diverse marine straniere: da noi ne furono
costruiti 38, base della nostra flotta subacquea. Alla vigilia della
grande guerra ogni nazione aveva i suoi mezzi, variamente definiti.
Sommergibile in italiano. Unterseeboot in tedesco, submarine in
inglese, sous‑marin in francese.
Ma la capacità
offensiva era, per tutti, straordinaria. La prima dimostrazione
pratica avvenne all'alba dei 22 Settembre 1914 quando Otto Weddigen,
comandante dell'U‑9 (U da Unterseeboot: battello sottomarino),
intercettò tre incrociatori britannici che pattugliavano le acque
tra l'Inghilterra e l'Olanda. il comandante tedesco centrò con i
suoi siluri dapprima l'Aboukir, quindi l'Hogue e il Cressy, accorsi
in aiuto della nave sorella ritenendo che fosse incappata in una
mina galleggiante. Nel volgere di un'ora, era stata affondata
l'intera « Forza esplorante C » britannica, navi e uomini (60
ufficiali, 2000 marinai). Proprio con questa nuova arma, dalla
capacità distruttiva enorme specialmente nei confronti dei naviglio
mercantile, la Germania fu sul punto di sconfiggere gli alleati tra
il 1914 e il 1918, mandando a picco i rifornimenti verso
l'Inghilterra e tra gli Stati Uniti e l'Europa. |
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Nel Maggio 1915,
entrando in guerra, l'Italia aveva in totale 20 sommergibili
efficienti che furono dislocati a Venezia con la forza navale
dell'Alto Adriatico. In rinforzo giunsero dalla Francia altri 9
sommergibili, uno dei quali andò presto perduto. Il 29 Dicembre era
in pieno svolgimento la gigantesca operazione navale di soccorso e
recupero dell'esercito serbo in ritirata verso il mare. Un gruppo
navale austriaco sorprese nelle vicinanze di Cattaro il sommergibile
francese Monge, che partecipava all'operazione in appoggio alla
marina italiana. Il Monge non fece in tempo a immergersi e fu
speronato dall'incrociatore austriaco Helgoland: il comandante,
messo in salvo l'equipaggio, seguì volontariamente la sorte dei suo
battello, inabissandosi con lui in omaggio alla retorica marinara
ottocentesca.I sommergibilisti
italiani operarono prevalentemente in Adriatico tra mille disagi e
con scarsi risultati. La lontananza dalla base, il particolare
segreto che circondava ogni missione, la consapevolezza di poter
restare per sempre imprigionati in una bara d'acciaio, |
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La vita sui sommergibili era assai dura e i
pericoli continui e drammatici. |
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l'estenuante
attesa di uno scontro che magari non si sarebbe mai verificato.
Basta un esempio: il citato Delfino, capostipite della flotta
subacquea, ormai vecchio (aveva un motore a benzina di 160 HP),
compì ben 44 agguati in 3 anni lungo le coste venete senza entrare
mai in contatto con il nemico. Guerra insidiosa, logorante,
estenuante, colma di pericoli e avara di gloria, mentre i veloci Mas
sfidavano i giganti nemici a viso aperto, cogliendo successi
spettacolari. Mentre i « colleghi » tedeschi deglì U‑boot passavano
di vittoria in vittoria (alla fine: affondati 100 unità da guerra e
6.394 bastimenti mercantili per un totale di oltre 12 milioni di
tonnellate di stazza lorda). Agli oscuri eroi della nuova arma
toccava affrontare esperienze inusitate, al limite della
sopportazione psicologica. Rinchiusi, a decine, dentro uno scafo
lungo una cinquantina di metri e largo 6. Ammassati gli uni sopra
gli altri, con lo spazio ridotto al minimo e la certezza di avere
non molte ore di autonomia di respirazione (massimo: 90) in caso dì
immersione forzata, mentre le navi nemiche lanciavano bombe
dall'alto. |
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Il problema dell'aria all'interno delle unità in immersione veniva
risolto mediante riserve di ossigeno contenute in bombole e
apparecchiature capaci di mantenere il biossìdo di carbonio al di
sotto del livello di pericolosità (due per cento). Risolto per modo
di dire. Gli « inconvenienti » tecnici non erano rari proprio a
causa della novità dei mezzi e delle situazioni. E’ vero che la
marina non lesinava sforzi per migliorare e potenziare la sparuta
flottiglia del periodo iniziale della guerra. Alla fine, oltre ai
sommergibili danneggiati o affondati, l'Italia schierava ben 43
battelli in perfetta efficienza. Però mancava, sul fronte interno,
il supporto |
Un
nostro sommergibile scende in laguna dal cantiere di Venezia. |
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di un'opinione pubblica consapevole. Perfino le donne e i bambini
restavano ammirati dalle imprese dei Mas o degli aeroplani (Baracca
era un idolo), pochì mostravano di apprezzare i rischi affrontati
dai sommergibilisti. Il marinaio capitato a casa per una breve
licenza stentava a rendere partecipi i familìari delle sensazioni
provate durante le immersioni dentro il mare sempre più buio e
silenzioso. Gli abissi marini restavano ancora, in quell'epoca, un
mistero. |
Usura, anziché gloria, drammi dai contorni sconoscìuti. Tra i
primissimi, quello che ebbe per protagonista il Nereíde,
appartenente alla classe « Nautilus ,, che dislocava 300 tonnellate
ed era armato con due tubi di lancio da 450 millimetri e con un tubo
di lancio brandeggiabile in coperta. Questo battello giunse all'alba
dei 5 Agosto 1915 nelle vicinanze di Pelagosa, l'isola a 28 miglia
dal Gargano che era diventata terra di nessuno, né austriaci né
italiani. Il Nereide, con 19 uomini a bordo al comando di Carlo Del
Greco, fu affondato in rapidissimo duello dall'U‑5 del tenente di
vascello Von Trapp. Scomparve, fulmineamente, in fondo al mare. Era
stato centrato dalle cannonate, dai siluri? L'enigma rimase a lungo
senza risposta. Le famiglie dei 19 marinai ricevettero soltanto una
comunicazione laconica: «Disperso». Alla memoria di Carlo Del Greco
venne concessa la medaglia d'oro al valor militare. Soltanto 57 anni
più tardi, il 10 giugno 1972, il Nereide sarà recuperato dalla
marina jugoslava e trainato nel porto di Spalato. Custodiva appena 9
salme. E le altre? |
Il primo sommergibile di medio dislocamento (728 tonnellate) della
nostra flotta subacquea era stato impostato nel 1913 dalla FIAT S,
Giorgio di La Spezia e varato nell'agosto 1915 col nome di «
Balilla». Già ordinato dalla marina imperiale germanica, veniva
requisito nel giugno 1915 e adibito alla lotta nell'Alto Adriatico.
Un gioiello, nel suo genere. Lungo 56 metri, sviluppava una velocità
massima di 14 nodi in superficie (9 in immersione). Era azionato da
un motore FIAT di 1300 HP (motore elettrico della Savigliano 450 Kw).
Autonomia: 3500 miglia. Disponeva di due tubi di lancio, a prora e a
poppa, di 450 mm. e di due cannoni da 76/40. Il « Balilla » non ebbe
un destino di gloria. Dopo una serie di missioni prive di risultati
ricevette l'incarico di recarsi in agguato presso Lissa, l'isola
croata che nel 1866 aveva visto la munita flotta dell'ammiraglio
Persano decimata dalla meno numerosa flotta austriaca di Tegetthoff.
Il « Balilla » ebbe la sfortuna di emergere tra due torpediniere
austriache: accettò coraggiosamente il combattimento, ma venne
centrato dal tiro incrociato delle artiglierie. Scomparve con tutto
l'equipaggio che si era battuto con estrema determinazione. In
questo periodo entrarono in azione ben 21 unità della classe « F »,
che erano in pratica i primi sommergibili costieri italiani.
Dislocavano 262 tonnellate in emersione (319 sott'acqua), erano
armati di un cannone e di due tubi |
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« AMICHEVOLI SALUTI » è stampato ironicamente sulla cartolina
emessa durante la prima guerra mondiale per conto della flotta
sottomarina tedesca. |
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lanciasiluri, avevano mediamente 26 membri d'equipaggio. Parteciparono tutti
agli eventi bellici, uno di essi speronò un sommergibile austriaco
al culmine di un drammatico combattimento. Tra i modelli risultati
più efficienti furono i « Pacinotti », simili agli Uboot
germanici: tonnellate 720/870, velocità 15/9 nodi, 5 lanciasiluri.
Nel complesso, una concomitanza di circostanze contribuì a
conservare un'atmosfera tra diffidente e misteriosa nei confronti
dell'azione dei nostri sommergibilisti. Causa principale, oltre
alla scarsa conoscenza e popolarità della nuova arma che durante
la seconda guerra mondiale ebbe invece l'onore di una canzone
assai diffusa, fu la tragedia di Nazario Sauro. ltalianissimo ma
austriaco d'anagrafe, perché nato a Capodistria, Nazario Sauro era
ufficiale della marina di Francesco Giuseppe.
Arruolatosi prima
della guerra in quella italiana, era considerato dall'Austria
disertore di fronte al nemico: sicché quando fu catturato sul
sommergibile « Pullino » incagliatosi all'isola di Galiola, presso
le coste dalmate, fu impiccato. L'evento, drammatico e umanamente
sconvolgente, ebbe profonda eco nell'opinione pubblica. Una
vicenda emblematica. Anche in quella circostanza il nostro
bollettino propagò la laconica comunicazione: « Un sommergibile
non è rientrato alla base ». Poche, scarne parole che potevano
celare molti destini diversi: inabissato per sempre, superstite e
naufrago, prigioniero delle onde, preda del nemico.
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