Da un articolo di Lino
Pellegrini, pubblicato sull'« Europeo », togliamo i brani che si
riferiscono alla rievocazione della fine del caccia «Tarigo», che
affondando col suo comandante, colpì a morte colando a picco il
supercaccia inglese « Mohawk ».
Tarigo, 13 Aprile 1941, giorno di
Pasqua. Nel porto di Napoli, cinque navi di media mole stanno per
prendere il mare alla volta della Libia. Debbono trasportare a
Tripoli un contingente dell'Afrika Corps. Gli inglesi possedevano il
radar, com'è dimostrato dallo scontro di Matapan, avvenuto un mese
prima. Noi non solo non l'avevamo, ma non supponevamo che gli
inglesi lo avessero. I quattro supercaccia britannici ci cercarono e
ci trovarono col radar, quindi percepirono nei loro schermi le
sagome delle nostre navi ben prima di attaccare. Cominciarono col
disporsi in coda al convoglio.
Scelsero il favore della debole luce
lunare, cioè manovrarono in modo da aver la luna in faccia al
contrario di quanto avverrebbe col sole. Sapendo delle mine forse
attesero invisibili che il convoglio entrasse nella fase critica
della « linea di fila », fase in cui le forze dei tre caccia
dovevano necessariamente frazionarsi proprio mentre il convoglio,
allungandosi e riducendo la velocità a soli sei nodi (circa undici
chilometri l'ora), aumentava gravemente la sua vulnerabilità. Alle
ore due e venti del 16 Aprile, dal « Tarigo » si scorge verso la
coda della formazione una serie di vampe. Il convoglio è stato
attaccato. Da aerei? Da navi? Echeggia il segnale di « posto di
combattimento »; la gente si prepara alla battaglia; pochi istanti,
e l'attacco è definito per navale. I proiettili traccianti delle
mitragliere attraversano la notte. Poi i primi rombi delle
cannonate.
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Una scena
della leggendaria battaglia combattuta nelle acque tunisine
dal cacciatorpediniere «
TARIGO ». |
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Il Capitano di Fregata Pietro De
Cristofaro, comandante della nave capoconvoglio, porta la
responsabilità di tre navi da guerra, di cinque navi mercantili, e
di migliaia di uomini. Questo signore napoletano, ch'era stato
ufficiale d'ordinanza del principe di Piemonte, in seguito a un
incidente aereo aveva perso parzialmente il senso dell'equilibrio,
sicché aveva un'andatura un po' oscillante; di carattere dolce e
quasi timido, a un osservatore superficiale poteva dare
un'impressione forse più di delicatezza che d'ardimento. Deve
decidere immediatamente. Ha capito subito la disastrosa situazione.
Dice semplicemente, quasi sorridendo: « Be' andiamo all'attacco! ».
Sono esattamente queste le parole pronunciate nel buio della
plancia.
Per De Cristofaro, perfettamente
conscio, significavano: « Be', vado a morire ». E’ vero che il
ministero della Marina aveva categoricamente ordinato ai comandanti
di porsi in salvo se la loro nave fosse stata affondata. Ma simili
ordini, che mai nessun'altra marina ha avuto bisogno di impartire,
dicono chi fossero gli uomini posti al comando delle nostre navi da
guerra. Barra tutta a dritta. Si inverte la rotta per precipitarsi
in coda al convoglio, là dove sono gli inglesi. Macchine avanti
tutta. Ci si precipita verso il buio, rotto solo dalle vampe e dai
traccianti, mentre gli inglesi nel buio vedono a perfezione. De
Cristofaro è un signore nel senso antico dei termine: un signore
deve saper morire. L'accostata a dritta non è ancora finita che i
primi colpi nemici cadono a bordo. La sagoma d'una nave si profila;
il comandante ha un attimo d'esitazione: sarà forse il «Baleno »?
Contemporaneamente Bisagno grida: « Ha torre! E’ un incrociatore
inglese! ». Bisagno è ufficiale torpediniere, cioè addetto ai
siluri. Ordina: « Tubi di lancio, attenzione! ». L'incrociatore ha
aperto il fuoco contro, il « Tarigo » e il « Tarigo » risponde.
Fra le esplosioni che ormai imperversano
s'odono i dati di lancio pronunciati da Bisagno. Poi: «Fuori uno!
Fuori due! Fuori tre! ». Lanciare e fallire il bersaglio sarebbe
stato doloroso ma comprensibile. Invece, le cannonate
dell'incrociatore avevano già spezzato le trasmissioni: gli ordini
di Bisagno non arrivarono ai tubi, e i siluri non poterono nemmeno
partire! Questione di secondì: l'incrociatore è già fuori tiro.
Sugli altri due nostri cacciatorpediniere, più piccoli del « Tarigo
» (1200 tonnellate anziché 1900), la catastrofe è già in atto.
Poiché l'immediato scopo degli inglesi consisteva nell'eliminare la
scorta del convoglio, le due siluranti, attaccate inizialmente più
da vicino e per prime, si trovano sommerse da una valanga di fuoco
prima di sapere dove si trovi il nemico. Anche sul « Baleno », il
comandante, Capitano di Corvetta Giuseppe Arnaud, aveva deciso per
il proprio sacrificio, cercando di interporsi fra gli inglesi e il
convoglio in modo da difendere le cinque navi con una cortina di
fumo: naturalmente ignorava che gli inglesi lo avrebbero comunque
visto col radar. L'ordine di far agire i fumogeni era appena stato
dato, quando una salva britannica uccideva tutti gli ufficiali di
vascello tranne il sottotenente Guglielmo Succi.
Il « Baleno » s'incendia; immobilizzato,
e paralizzato nelle artiglierie, va alla deriva. Quanto al
«Lampo», ha tentato di balzare zigzagando all'attacco, di sparare,
dì lanciare siluri; ma riceve colpi tremendi, si trasforma in un
rogo. La sorte delle navi mercantili appare, se possibile, anche più
crudele. Armate solo con un paio di mitragliatrici, si trovano ormai
alla mercé dei cannoni inglesi. L'«Arta », incendiato e
sforacchiato ma ancora a galla, tenta la via della secca: è un
relitto carico di morti. L'«Adana» e l'«Aegina» stanno
affondando; la benzina del loro carico, incendiatasi, galleggerà,
trasformando la superficie della secca in un mare di fiamme. L'«
Iserlohn » stenta ad andare a picco; allora, da forse cinquanta
metri, uno dei supercaccia britannici gli scarica addosso
un'ulteriore bordata che provoca un'ecatombe tra i soldati tedeschi
imbarcati. Del « Sabaudia », nessun ufficiale scampò.
Rtorniamo al « Tarigo », dove si
continua a combattere. Il lancio dei siluri contro il presunto
incrociatore inglese non ha potuto aver luogo, ma la nostra nave
insiste nella manovra d'attacco. Tutti i suoi pezzi fanno fuoco,
sino a quando un complesso è ridotto al silenzio. L'interno della
plancia appare una sola rovina. Seduto per terra e appoggiato a una
paratia, il comandante: « Non ho più la gamba destra ». Ma la
mancanza d'una gamba non impedisce al comandante De Cristofaro di
comandare la sua nave. II signore dall' aspetto quasi timido, con
una gamba di meno e con un'emorragia simile, continua ad impartire
ordini d'attacco: « Venite a dritta. A dritta! ». La nave è colpita
dappertutto. Imbarca acqua. Comincia a sbandare. I complessi
d'artiglieria sono tutti fuori uso.
Un sergente silurista, l'astigiano
Adriano Mazzetti, ferito, coperto di sangue, raggiunge faticosamente
la poppa risparmiata dagli incendi, dove s'è radunato un piccolo
gruppo di superstiti: « Si vede un'ombra... »; e in così dire indica
una sagoma d'una nave inglese che sfila solo a mezzo chilometro dal
«Tarigo» immobilizzato e paralizzato, per meglio finirlo. Ettore
Bisagno, l'ufficiale torpediniere, è ferito seriamente: da due
grosse schegge conficcate in una coscia. Ma sale ugualmente sul
complesso dei tubi di lancio di poppa e toglie le sicurezze. Il
silurista Mazzetti brandeggia il complesso: la corrente manca da
tempo. I siluri saranno lanciati col ripiego della carica pirica. Da
poppa, non si vide dove finissero i siluri. La motivazione della
medaglia d'oro conferita alla memoria del comandante De Cristofaro
suppone invece ch'egli, morente, potesse vedere. E’ un'immagine che
s'accetta, anche se gratuita; del resto, noi non sappiamo dove
giunga la percezione dello spirito. Il « Tarigo » è alla fine.
S'incendia la nafta nelle caldaie. Esplodono le riservette in
coperta. Un ufficiale domina coloro che vorrebbero gettarsi a mare,
ordina l'attenti. «Non abbiamo ancora fatto tutto il nostro dovere.
Il comandante è in plancia senza una gamba ». Seguì un evviva all'
Italia, e sembra strano a pensarlo oggi, ma quell'« attenti » e
quell’ evviva » tranquillizzarono i superstiti. Solo allora fu messa
a mare una zattera. Il « Tarigo» sbanda sempre più. Sta per
affondare. I feriti vengono aiutati ad abbandonare la nave, i pochi
superstiti si gettano nell'acqua gelida. Ultimi a lasciare il caccia
sono, così come vuole la norma e la tradizione, i più anziani fra
gli ufficiali rimasti, cioè il tenente di vascello Miliotti e Balla.
Ed ecco che, in una nuvola di faville, il cacciatorpedinìere di De
Cristofaro s'inabissa col suo comandante. A breve distanza, un
proiettore inglese frugava le onde.
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Il comandante
Pietro De Cristofaro con la gamba mozzata da una cannonata,
sul cacciatorpediniere
«
TARIGO ». |
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Sino alla sera dei 16 Aprile i
superstiti del « Tarigo » rimasero su una zattera. Molti erano
scomparsi dopo l'affondamento; molti morivano per le ferite, o per
il freddo e per la spossatezza. Poi il gruppo sempre più scarno dei
sopravvissuti venne raccolto da una nostra nave mercantile,
l'«Antonietta Lauro », che più tardi li trasbordò sulla nave
ospedale «Arno».
Sull' «Arno», il colpo di scena. Agli
uomini del «Tarigo» viene comunicato che la scarsità dei fondali e
la trasparenza dell'acqua hanno consentito alla ricognizione aerea
di scorgere in fondo al mare, a mezzo chilometro dal rellitto del «Tarigo»,
il relitto d'un supercaccia inglese. Era il « Mohawk ». Quel «
Mohawk », silurato da una nave in procinto di colare a picco e da
due feriti, che la motivazione della medaglia d'oro conferita alla
memoria di De Cristofaro suppone sia stata l'ultima visione del
morente, spiegava perché mai un proiettore inglese si fosse acceso
mentre il « Tarigo » sprofondava. S'era acceso per il salvataggio
dei naufraghi inglesi; si spense, a salvataggio compiuto. Dopo, la
formazione britannica s'allontanò. Non osò finire né il « Baleno »
né il «Lampo » e nemmeno l’ «Arta » incendiati. La perdita del « Mohawk » doveva esser
riuscita stupefacente, dolorosissima, a chi, grazie al radar ed alla
superiorità di numero di tonnellaggio e d'armamento, poteva
affondare un intero convoglio nemico senza nulla rischiare.
Lino Pellegrini (da l'Europeo)
LA MEDAGLIA
D'ORO
Pietro De Cristofaro
CAPITANO DI FREGATA
« Ufficiale superiore di altissimo
valore. Comandante di silurante in servizio di scorta ad un
importante convoglio in acque insidiate dal nemico, prendeva tutte
le disposizioni atte a garantire la sicurezza del convoglio
affidatogli, Assaliti la scorta e il convoglio improvvisamente da
soverchianti forze navali nemiche la notte sul 16 Aprile 1941, con
serena e consapevole audacia conduceva immediatamente all'attacco la
nave di suo comando. Crivellata la sua nave da colpi nemici, colpito
egli stesso da una granata che gli asportava una gamba, rifiutava di
essere trasportato in luogo più ridossato e solo concedeva che gli
venisse legato il troncone dell'arto, non per vivere ma per
continuare a combattere. Così egli rimaneva fino all'ultimo, fermo
al suo posto di dovere e di onore e nella notte buia, illuminata a
tratti dalle vampe delle granate e degli incendi, i suoi occhi che
si spegnevano avevano ancora la visione di un'unità nemica che
sprofondava nel mare, colpita dall'offesa della sua nave. E con
questa egli volle inabissarsi, mentre i superstiti, riuniti a poppa
lanciavano al nemico il loro grido purissimo di fede. Esempio
sublime di indomito spirito guerriero, di coraggio eroico, di virtù
di capo, di dedizione alla Patria oltre ogni ostacolo e oltre la
vita ».
(Mediterraneo Centrale, 16 Aprite 1941)
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