L’OFFESA SUBACQUEA: L’INSIDIA DELLE MINE

LE PRIME FURONO USATE DAGLI INGLESI ALL’ASSEDIO DELLA ROCHELLE NEL SEICENTO. QUELLE CHE VENNERO LARGAMENTE INPIEGATE IN MARE DURANTE LA PRIMA G.M. (1915-1918) ERANO STATE INVENTATE DALL’ITALIANO ELIA

L’idea di colare a picco le navi nemiche facendo esplodere contro le loro carene ordigni esplosivi nasce qualche secolo fa. 'Si può addirittura farla risalire agli inglesi di Lord Linsay, nel settembre del 1628, all'assedio di La Rochelle. Vennero preparati dei recipienti metallici pieni di polvere, con un acciarìno da fucile tenuto da una molla che lo faceva scattare al minimo urto. Queste rudimentali mine, che galleggiavano sostenute da pezzi di legno, furono fatte andare alla deriva contro la flotta di Richelieu, di guardia alla grande diga che Luigi XIII aveva fatto erigere per bloccare La Rochelle, una delle ultime roccaforti degli ugonotti. Una di esse esplose, senza far danno, contro la boa di ormeggio di uno dei vascelli del re. Le altre furono ripescate e disattivate.

Già nel 1602, come ricorda Ettore Bravetta nel suo Sottomarini, sommergibili e torpedini (Fratelli Treves, Milano, 1915), il capitano delle galere pontificie Bartolomeo Crescenzio voleva porre recipienti esplodenti a guardia dei porti italiani contro le fuste dei pirati barbareschi. Ma il problema di tenere asciutto l'esplosivo non era ancora stato risolto. La mina subacquea viene attribuita a Davide Bushnell, studente di Yale, che nel 1777 aveva scoperto l'efficacia dell'esplosione in immersione: dato che l'acqua è incomprimibile, i gas debbono trovare uno sfogo nella parte più debole, cioè il fasciame di una nave, dall'altra parte del quale c'è l'aria. Esperimenti di vario genere, che non ebbero successo, vennero condotti anche da parte di Robert Fulton, americano (1765‑1815), colui che tra l'altro realizzò il primo sottomarino, il « Nautilus », e che più tardi inventò la navigazione a vapore.

 

Cosi' si presentava una mina austriaca venuta a galla

 

Congegno che provoca lo scoppio

 
Fulton però rìuscì a calcolare che sarebbe occorso almeno un quintale di esplosivo per far affondare una nave. E si era appena nel 1804. Ci si mise, fra il 1829 e il 1842, perfino Sarnuel Colt, il padre della rivoltella, che fece scoppiare una «torpedine» (come si chiamavano allora) nella rada di Nuova York, usando la corrente elettrica di alcuni elementi di pila. Nacquero cosk, i « gimnoti », le mine elettriche destinate a essere fatte saltare da terra, una volta scoperto un cavo assolutamente impermeabile. Mine furono impiegate nella guerra di Crimea dei 1854‑56, usando il percussore Jacoby, adottato ancor oggi: un «corno» che esce dal corpo della mina e che contiene una fiala di acido solforico; al minimo urto la fiala va in pezzi, l'acido scende su un miscuglio di zucchero e ciorato di potassa, che sviluppa una fiammata violenta e causa l'esplosione della carica.

Nel 1857 il colonnello austriaco Ebner caricò i « gimnoti » di fulmicotone e organizzò la difesa del porto di Venezia nelle due guerre dei 1859 e dei 1866, sbarrando i canali del Lido e di Malamocco con torpedini potentissime, cariche addirittura di 224 chili di esplosivo ciascuna. Avrebbero potuto affondare una corazzata dell'epoca, se fosse arrivata a tiro. Ma fu un italiano, il conte torinese Giovanni Emanuele Ella (1866‑1935), verso la fine del secolo scorso, a realizzare le mine che presero il suo nome, quelle sfere cornute munite di cavo di ancoraggio e di ancora che arriva a toccare il fondo del mare, e così frequentemente viste per lo meno al cinema.

Una invenzione italiana che gli inglesi usarono ampiamente durante la prima guerra mondiale e che per molto tempo ritennero loro, tanto da chiamare « Elaia » il modello, pronunziando all'inglese l'italianissimo nome Elia. F. Savorgnan di Brazzà, in un suo libro intitolato « Da Leonardo a Marconi », e citato da Vittorio Emanuele Bravetta in « Marinai d'Italia » (Ispi, Milano, 1942), ricorda l'incontro dei guardiamarina di fresca nomina Elia con l'ammiraglio Simone Pacoret di Saint Bon, alle manovre navali della Maddalena nel 1885. Al rapporto ufficiali, per ultimo fra tutti parlò il giovane guardiamarina.

Tutti si meravigliarono dell'ardire del giovanotto: l'ultimo venuto, così verde in età, osava chiedere la parola in un consesso di illustri « monumenti » dell'arte militare qual era quello riunito per le manovre navali? Tra essi, spiccava nientemeno che il glorioso Saint Bon, ormai una istituzione della flotta e della marina italiane: era stato un eroe di Lissa, aveva rivoluzionato la tecnica delle costruzioni navali con il suo genio anticipatore, aveva assunto il dicastero della Marina, nessuno avrebbe osato contrastarne la parola e nemmeno suggerirgli nuove idee o nuove proposte,. Ed ecco che questo guardiamarina sconsiderato pretendeva addirittura di avanzare proposte di testa sua, e a personaggi di tal fatta! Ma il giovane Elia non aveva timori reverenziali, convinto inoltre della bontà della propria tesi e confortato dai lunghi studi che aveva dedicato ad essa. Nel silenzio, fatto più di curiosità che di attenzione, subito formatosi, egli cominciò a parlare con voce ferma. « Perché non creare rapidamente » disse, « un arcipelago di banchi esplodenti, costituiti da torpedini in posizione nota a noi soli, per attirarvi il nemico e danneggiarlo gravemente, e allo stesso tempo, silenziosamente, creare queste insidie presso le coste nemiche, per obbligarlo ad azioni in condizioni per lui disastrose? ». Il famoso Saint Bon, carico di gloria e di onori, fissò con interesse il giovanotto e lo trattenne a colazione. Per molti anni Elia fece esperimenti e finalmente nel 1897 la regia nave « Washìngton »,  con a bordo appena venti marinai torpedinieri, eseguì in una sola ora lo sbarramento del, golfo di La Spezia. La mina Elia era

Una mina Elia con la cassa di zavorra che faceva da ancora. Il cavo era lungo mille metri e tutto il complesso scorreva su di un carrello.

 
costituita da una cassa a superfici curve, con una carica da 150 a 300 chili di esplosivo (si cominciava a usare il fulmicotone umido, che noi chiamiamo tritolo), capace di distruggere qualsiasi nave di superficie o subacquea. Dalla parte inferiore della torpedine si stacca una fune d'acciaio lunga fino a mille metri, terminante in un'ancora che mantiene fisso l'ordigno nel punto desiderato. La mina viene attivata da un piatto idrostatico che entra in azione a qualche metro di profondità. Il complesso mina-ancora è sistemato su un carrello che scorre su rotaie, e ogni torpedine cade in mare in cinque secondi. Una nave, filando a venti nodi, può in venti minuti stendere uno sbarramento di dodici chilometri costituito da mine a 60 metri l'una dall'altra.

Contro le mine la difesa più semplice è stata il dragamine: generalmente un motopeschereccio per la pesca a strascico, nel quale la rete è sostituita da un robusto cavo metallico. Nei primi tempi, il cavo veniva rimorchiato da due battelli naviganti di conserva, a una distanza di circa duecento metri: il loro cavo si impigliava in quello di ancoraggio delle mine, lo troncava oppure sollevava la zavorra d'àncora, e faceva salire a galla le mine; una volta a galla, venivano o fatte esplodere o perforate (e allora, piene d'acqua, affondavano egualmente), a colpi di fucile, mitragliatrice o cannoncino. Vi furono anche congegni minati che esplodevano se si disturbava l'ancoraggio delle mine, per cui
 questo lavoro senza gloria degli « spazzamine » è sempre stato difficile e ingrato. Le mine di deriva, usate dai tedeschi sono invece galleggianti, munite di antenne sensibilissime che affiorano appena sull'acqua, quasi invisibili. Molte mine normali venivano strappate dalle ondate al loro ormeggio, risalivano a galla ed erano trasportate dalle correnti. Sono sempre state un'arma insidiosa e pericolosissima nella guerra sui mari e molto giustamente, anche se con un pizzico di retorica, furono chiamate « le uova della morte ».

 

Da  Rivista Navale