Ritorno al mio paese natale

di Predrag MatvejeviÊ
 

Predrag MatvejeviÊ, scrittore e drammaturgo, è nato a Mostar nel 1932 da madre croato-bosniaca e da padre russo. Nel 1991 ha abbandonato il suo paese, la Jugoslavia, per trasferirsi a Parigi vivendo fra "asilo ed esilio". Esperto di Mediterraneo e di geopolitica europea ha sempre combattuto i nazionalismi ed appoggiato dissidenti del calibro di Sakharov e Solzenicyn con le sue "lettere aperte" diventando a sua volta lui stesso dissidente.
E’ stato professore all’Università di Zagabria ed alla Sorbona di Parigi, ora insegna Letterature Slave presso l’Università La Sapienza di Roma. Lo abbiamo incontrato a Trieste, durante l’edizione di "Alpe Adria Film Festival 1997" in occasione di un dibattito su "L’onda nera jugoslava", dove erano presenti altri dissidenti del "vecchio" e dei "nuovi regimi", come ama definirli lui.
Quello che segue è il suo racconto.

***

Nell'autunno mi sono diretto alla volta del mio paese natale, pieno di speranza. Ne sono tornato con i brividi addosso. Sono stato a Mostar e Sarajevo, in Bosnia Erzegovina. Con me c'erano degli amici: una ventina di scrittori e giornalisti italiani collegati alla Fondazione Alberto Moravia, che insieme al "Circolo 99" di Sarajevo ha organizzato il viaggio.

Eravamo nel 1997: il dopoguerra sembrava altrettanto duro quanto la guerra stessa.

Ci siamo imbarcati ad Ancona, abbiamo attraversato l'Adriatico. Da Spalato con un pullman siamo andati verso Mostar. Erano giorni insolitamente chiari, come se l'estate li avesse conservati per donarli al primo autunno. Il mare in questa stagione è maturo, per essere stato a lungo esposto al sole. Sono passato molte volte per questi luoghi, mi sembra di conoscere ogni insenatura ai piedi del Mosor e di Biokovo, da Spalato fino a Dubrovnik. Ci siamo fermati a Makarska, davanti all'immagine del canale di Lesina: mi scopro a contemplare la lunga punta dell'isola di fronte; il blu molto forte fra le due rive; vecchie funi sommerse.

Dalmazia.

Perlustriamo l'estuario della Neretva, i piccoli e grandi rami del fiume dove ho remato nelle "trupce", le barchette del luogo. Ci fermiamo dinanzi alle rocce di PoËitelj: paesino musulmano, la moschea senza minareto, l' "hamam" orientale senza fontana. All'ingresso c'è un grande crocifisso nuovo, e ce n'è un altro, più piccolo in cima alla fortezza turca: segni che questo posto appartiene alla fede cristiana e non a quella islamica, alla "Herceg-Bosna" e non alla Bosnia Erzegovina. Incontriamo dei pellegrini venuti per inginocchiarsi davanti alla Madonna, nel santuario di Meðugorje, vicino a questi luoghi. Si troverà qualcuno che gli spieghi perché è stato distrutto il tempio musulmano e chi ha messo quel crocifisso all'entrata in PoËitelj? E chissà se vogliono sentirselo dire o possono capirlo.

Gli amici con cui viaggio chiedono spiegazioni e io cerco di dargliele nella forma più semplice, avvertendo che ogni mia risposta è insufficiente.

Nello spazio che stiamo attraversando lo scisma ha spaccato l'Europa e il Mediterraneo. Ha diviso i cristiani ortodossi dai cattolici. In questi luoghi il cristianesimo e l'islam si sono incontrati e scontrati. La diversità delle fedi si è andata trasformando in contrapposizione, la contrapposizione in intolleranza, l'intolleranza in odio. Questa guerra non è di religione, ma alle sue radici, oltre al resto, stanno anche differenze e contrapposizioni collegate alla fede. I più primitivi hanno ereditato l’intolleranza e l’odio.

E tuttavia la maggioranza degli abitanti di questo territorio non si odiavano fra loro. Vivevano e morivano gli uni accanto agli altri, per lo più in pace e comprensione. Siamo affini per origine, parliamo la stessa lingua, ci assomigliamo. Questa guerra l'hanno cominciata i "serbi ortodossi", l'hanno continuata i "croati cattolici". Metto gli uni e gli altri fra virgolette: non si tratta infatti né di serbi né di croati e ancora meno di ortodossi e cattolici.

Essi sono per me solo fascisti.

Siamo passati accanto a Zitomislici, dove è bruciato il vecchio monastero ortodosso. Era sopravvissuto alla prepotenza turca, non a quella odierna. Non c'è nessuno che sia in grado di dirmi se le icone contenute nella sua raccolta siano state messe al riparo prima dell'incendio. Neppure le chiese cattoliche sono state risparmiate. E le moschee musulmane sono state distrutte dai cristiani dell'una e dell'altra confessione.

Nei pressi di MetkoviÊ passiamo il confine e la dogana (che prima in quel punto non c'era). Entriamo nella Bosnia Erzegovina che è sotto controllo della Herceg-Bosna. Ci imbattiamo in grandi tabelloni con le scritte della Comunità democratica croata: "Restiamo uniti e insieme". Cerco di spiegare ai miei compagni di viaggio il significato dell'espressione: restiamo "insieme" nella Croazia, ci stacchiamo dalla Bosnia indipendentemente dal fatto che anch'essa sia stata riconosciuta dalle Nazioni Unite, malgrado gli accordi di Dayton che riguardano appunto la sua integrità e che sono sottoscritti dai rappresentanti di tutte le nazionalità presenti in questi luoghi. Un giornalista osserva che l'America non glielo perdonerà. (Qualche giorno più tardi verremo a sapere che il presidente croato, appunto sotto pressione americana, ha consegnato al tribunale dell'Aja alcuni combattenti bosniaco-erzegovini, accusati dei più gravi delitti. I serbi proteggono ancora i loro criminali di guerra.)

L'entrata a Mostar mi ha scosso. Non ci venivo più da sette anni. Sapevo che metà della città era distrutta, ma non potevo credere che fosse proprio così. Sollevo da terra schegge di pietra, sbriciolate e sparpagliate. Tasto muri, crepati e squarciati. Passo le dita su quelle superfici ruvide come fossero ferite, e non credo ai miei occhi. "Le immagini della realtà" che abbiamo guardato per tanto tempo hanno due dimensioni: la realtà stessa ne contiene molte di più. Nei quartieri più distrutti, sono scomparsi i segni e i connotati dei luoghi e degli spazi. Dove mi trovo, com'è questo, e qui prima c'era? Mi tradisce quella topografia interiore che ci formiamo nell'infanzia, ma forse sono io a tradirla.

O mia città, sei proprio tu?

C'era gente di ogni sorta qui come altrove, soprattutto nei dintorni, che non aveva saputo avvicinarsi alla città o per contro la città non aveva potuto attirare. Ma nonostante tutto non c'era ragione alcuna perché tutto questo dovesse accadere, e in questo modo: perché si distruggessero le case, i templi, i ponti, il Vecchio ponte sulla Neretva.

Ogni spiegazione mi appare sconveniente.

La guerra non ha bisogno di moventi particolari per cominciare e per giustificarsi (per tentare di giustificarsi). Ad un certo punto si nutre della propria insensatezza e malvagità. Le conseguenze diventano nuove motivazioni, e queste provocano a loro volta nuove conseguenze: il male si rafforza e si conferma col male. Un'alternanza di tale genere non si può arrestare. Simili guerre durano anche dopo che sono state deposte le armi.

E tanto più a lungo quanto più sono insensate e malvagie.

La sponda sinistra della Neretva e la breve fascia che si estende su quella destra sono distrutte, appare evidente, con feroce decisione. Nessuno dei miei compagni, e neppure io del resto, desidera mettere piede sull'altra riva, dove continuano a comandare quelli che sono colpevoli di quanto è accaduto: quelli che insistono nel far penetrare la paura nelle ossa dei cittadini, cacciano di casa "quelli delle altre fedi", si salutano ostentamente alzando il braccio, alla maniera "usta1a". I primitivi pensano di solito che queste cose "non si verranno a sapere nel mondo". Ma il mondo lo sa e li giudica proprio per questo. Non voglio trovarmi accanto a loro. Non andremo sulla loro riva

A Vukovar o a Srebrenica, ci comporteremmo allo stesso modo: non tenderemmo la mano ai "cetnici".

Lo so bene che anche nella parte occidentale di Mostar ci sono state vittime innocenti fra i croati, specialmente all'inizio della guerra. (Ce ne sono state nella mia famiglia). E' stata distrutta la chiesa cattolica con il monastero francescano, dove ho pregato devotamente da bambino. Ma nella parte orientale è tutta una rovina. Là tutti sono vittime.

Sulle pendici del Podvelezje sovrastava la città la bella chiesa ortodossa. Esprimeva una specie di elevazione dell'animo, di fede e di fiducia fra noi. Non ne è rimasta neppure pietra su pietra. Non so quante moschee siano state rase al suolo. Il monumento al più grande poeta nato sotto questo cielo: il serbo Aleksa SantiÊ che amava segretamente una bella croata e cantava la musulmana Emina, "figlia di un imam", è stato abbattuto e calpestato, è stato abbattuto e calpestato.

Anche la tomba ne hanno profanato.

Da Mostar è andata via tanta gente, vecchi e giovani. Sono rimasti quelli che non avevano dove andare. Fra le rovine, la maggior parte di essi ha perduto ogni fiducia negli altri, talvolta anche in se stessa. Non c'è più nessuna sicurezza: quel che si rinnova oggi si può distruggere di nuovo domani. In città ci sono ancora pittori, attori e poeti, ma non c'è un'intellighenzia che possa riflettere. Non ce n'era tanta neppure prima. Non ce n'è neppure dall'altra parte, quella che non è andata distrutta.

Nel "Teatro dei burattini" che è stato rimesso a posto sulla sponda sinistra della Neretva con l'aiuto dei fondi internazionali, ci incontriamo con quel che resta del pubblico. Gente allarmata e al tempo stesso rassegnata. Non sanno quel che si aspettano da noi, ma gli fa piacere che siamo venuti da loro. La maggioranza dei presenti sembrano stanchi, nervosi. I vecchi muoio uno dopo l'altro, i giovani sono invecchiati. Quelli che ci stanno davanti tentano di dire qualcosa, ma non riescono ad esprimersi. Parliamo noi che siamo invece venuti per ascoltarli, più di quanto non facciano loro che ci aspettavano. Hanno tirato fuori un pianoforte salvato dalle granate e mi ci hanno fatto sedere davanti. Ho improvvisato alcune variazioni sul tema "Emina", canzone di tutti i mostarini: nella sala si fa sentire una fragile voce di donna. Canta questa voce vicina. Intorno cominciano a spuntare le lacrime. "E la mia ragione si perse nella nebbia"....(è un verso della canzone, scritta proprio da SantiÊ).

Abbiamo concluso la serata in bellezza.

Due amici croati, esponendosi al rischio, hanno attraversato il fiume desiderando incontrarmi. E' mancato poco che mi mettessi a piangere quando li ho visti, dopo sette anni di assenza. Sono cambiati, ma sono rimasti gli stessi. Non ne riporto i nomi per non nuocergli. Anch'essi si vergognano di ciò che è stato fatto ai musulmani della nostra terra, hanno parole di rimpianto per quei serbi di Mostar ai quali volevamo tutti bene. Solo gente così può salvare Mostar. Non so quanti ce ne siano, ma so che mi sono vicini.

E' che anch'io sono uno di loro.

Ci ha ricevuto il sindaco della parte distrutta della città Safet OruËeviÊ una persona simpatica e competente. Ci ha invitato ad assistere, sulla strada del ritorno, alla cerimonia di recupero dei pezzi di ponte dalla Neretva. Ho avuto modo di parlare ai miei amici concittadini alla radio e alla televisione locale che, nonostante la divisione dei programmi, si sentono e si vedono da una parte e dall'altra. (Cerco di riassumere ciò che ho provato a dire). La storia ha condannato la divisione delle città anche prima della caduta del muro di Berlino... La sua caduta è, fra l'altro, un simbolo. Chi divide la città lavora contro la storia...La storia lo lascerà ai margini, relegandolo nelle tenebre dell'anonimato... La storia è crudele e vendicativa...La storia nazionale è fallace ed ingannevole...

E' una sciagura quando un'idea nazionale diventa l'ideologia nazionalista; quando una fede ignora la fede altrui; quando un uomo non si oppone alla violenza esercitata sugli altri uomini...

Sono convinto (mi è tremata la voce quando pronunciavo queste parole semplici) che sulla riva occidentale della Neretva, dove una tracotante minoranza impone la propria volontà agli altri e minaccia quelli che non le si vogliono sottomettere, vivono molte persone perbene che in questo momento insieme a noi piangono la rovina della città, che era la città di tutti noi; rimpiangono con noi la cacciata di tanti suoi abitanti, la distruzione dei nostri ponti e delle chiese. Conosco e saluto questi cittadini quale che sia la loro nazionalità, amici nostri liberi dall'intolleranza e dall'odio. Le famiglie mostaresi che hanno saputo salvare i vicini "di altra fede e nazionalità" quando gli stessi barbari li tormentavano nel corso della guerra come in quella precedente.

Appartengo ad una di queste famiglie di Mostar, sono anch'io con voi.

Non sono andato sulla tomba dei miei genitori, sepolti nella parte occidentale, sotto una collina, nel "Cimitero degli Ulivi". Sono andato invece a vedere la casa dove hanno trascorso gli ultimi anni di vita, fino a questa guerra. Si trovava nel punto preciso di divisione dove si svolgevano i combattimenti: è distrutta e bruciata come del resto tutti gli edifici attorno ad essa. Davanti a casa nostra, vicino alla finestra dove si affacciava da vecchia mia madre, c'era un albero di fico. Io ne coglievo i frutti, al mattino presto, ancora freschi e quasi acerbi, e a mezzogiorno già maturi e dolci. Li regalavo ai miei vicini e ai compagni, in un cestino di canne e giunchi che crescono lungo il mio fiume.

Non è rimasta traccia del fico, neppure delle sue radici.

Mi sono fermato sulle travi che pendono dai cavi di ferro sulla Neretva, sopra alle quali si può passare da una parte all'altra, nel punto dove c'era il nostro Vecchio ponte. Ci sono rimasto a lungo, guardando nell'acqua. Ho smesso di pensare e fissavo con gli occhi spalancati il corso "del più limpido fiume dell'Adriatico". Come fanno gli uomini ad essere così torbidi vicino ad un'acqua così trasparente?

Non lo so.

Quando avevo visto le prime immagini del ponte distrutto non ero certo se da una parte della rupe fosse rimasto il troncone monco o se invece l'intero ponte fosse andato giù portandosi via anche quella zolla di terra erzegovina. Dalla parte sinistra, vedo, c'è ancora il moncone.

E' il segno evidente che il Vecchio è stato mutilato.

Mi si avvicina Emir, noto per i suoi "voli d'angelo" dal punto più alto del Vecchio ponte. Non salta più ma insegna a farlo ai giovani, cerca di salvare "questa tradizione di Mostar". La guerra lo ha colpito. E' stato imprigionato nel vicino campo di concentramento dell’Heliodrom; gli usta1a lo hanno messo in prima linea a scavare le trincee, gli hanno fatto indossare la loro divisa in modo che potessero ucciderlo i suoi "Balije" (nota spregiativa per i concittadini musulmani. nda). Ma qualcuno deve averlo riconosciuto, non gli hanno sparato addosso.

Cercando di rimuovere l'assalto dei pensieri abbiamo cominciato a riepilogare i nomi delle rocce a valle e a monte della Neretva, dal "Ponte della Dogana" fino al "Ponte del Porto", che non c'è più. Mi si sono avvicinati gli amici italiani, Vittorio, Vincenzo, Erri, Danilo, Toni Maraini che si è fatta carico tutto. E mi hanno portato via. Non so quanto tempo sono rimasto sul ponte, a guardarne l'immagine - quella odierna o forse quella di prima. Ho completamente perduto il senso del tempo.

La Neretva è rimasta esattamente com'era.

Proseguiamo il viaggio verso Sarajevo. L'alveo del fiume si stringe di colpo a misura che ci si allontana dal mare. Nell'interno la Neretva diventa un vero fiume di montagna, con molte rapide, gorghi, vortici. Nel suo corso superiore la vegetazione è diversa, diversi sono anche gli odori. Ma le acque mantengono lo stesso colore e uguale trasparenza.

Mi consola guardarle.

Incrociamo i camion e i carri armati delle truppe straniere dello SFOR, spagnoli, danesi, italiani, francesi ed ucraini. Ho scambiato qualche parola in russo con un giovane soldato ucraino. Gli ho detto che mio padre era nativo di Odessa. Mi ha abbracciato. Con la paga che riceve mantiene tre famiglie in una cittadina non lontana da Leopoli (L’vov). Non capisce perché si trova là, ma desidera restarci il più a lungo possibile.

"Anche dopo che tutto ciò sarà finito", disse discretamente.

Un tempo mi faceva inorridire la sola idea che ci potessero essere degli stranieri che venivano qui a "rimettere a posto le cose". (Mi ricordo che, dopo l'occupazione di Praga del 1968 eravamo pronti a opporci all'armata dei "cinque paesi", come prima i nostri padri si erano opposti ai fascisti.) E adesso, ecco, devo riconoscere che la situazione non può essere risolta dall'interno, che è necessario - ahimè - intervenire dall'esterno.

Quale ironia del destino: in questi territori è diventata memorabile la Resistenza.

Ora sono necessari i carri armati altrui per tenere a freno la nostra follia. "I nostri" hanno sparato "su di noi"! Quelli fra noi per i quali è più importante il potere che l'uomo, la nazione che l'umanità. Quelli che hanno più a cuore la differenza di fede che non la fede stessa. Ho incominciato a pensarla in un altro modo rispetto ad alcune ragioni che sono alla base dell'esigenza di differenziarsi l'uno dall'altro.

Ad un certo punto si distrugge la solidarietà volendo essere del tutto e per tutto "differenti".

Passiamo accanto a luoghi che sembrano rimasti intatti dalla guerra: erano "etnicamente puliti" o sono stati comunque "ripuliti" in maniera che non fosse necessario distruggerli? I loro abitanti, quelli che se ne sono andati, sono forse i primi ad essere distrutti. Me li immagino in qualche altro punto della terra, al di là delle frontiere, all'estero. I miei profughi, vi incontro in questi anni dappertutto! Più di due milioni di donne e bambini con i loro padri o senza di loro, hanno abbandonato il focolare. Appartengono a tutte le fedi e a tutte le nazionalità. Io appartengo a loro.

Risponderete di tutto questo, signori della guerra!

Discutiamo anche di criminali: andranno a finire davanti ai giudici anche quelli dei vertici, quelli che sapevano ciò che stava accadendo, e ordinavano che le cose andassero per quel verso? Molto probabilmente no: oggi questi sono diventati i "protagonisti della trattativa". Sacrificano i "pesci piccoli".

Del resto l'umanità non è mai stata la loro virtù.

Ognuno cerca di ridimensionare le colpe che gli sono attribuite, a lui o ai suoi. Ho polemizzato quest'anno con un intellettuale di Belgrado, appartenente tempo addietro al nostro gruppo dissidente di "Praxis", diventato nel frattempo un acceso nazionalista serbo: secondo lui questa sarebbe "una guerra civile", nella quale tutti sono ugualmente colpevoli. In tal modo la colpa si generalizza e si annulla, non la si può determinare e personalizzare. Da ogni parte assistiamo ad indegni tentativi di giustificazione, soprattutto là dove la colpevolezza è stata maggiore: "Difendevamo il nostro popolo". Viene meno ogni presa di coscienza morale, ogni senso di responsabilità o di ammissione, di pentimento o perdono. E soprattutto di vergogna.

Io mi vergogno mortalmente.

II

Ci siamo avvicinati a Sarajevo. Vedo le montagne: Igman, Crepoljsko, TrebeviÊ. Ci aspettano a Ilidza gli amici del "Circolo 99", raccolti attorno all'aspirazione di una Bosnia ed Erzegovina intera ed unita, democratica e laica. Mi sembrano ormai tutti più vecchi della loro età. Hanno cercato di contrapporsi all'insensatezza della guerra e ora si contrappongono alle follie del dopoguerra. Occorre sostenerli adesso anche più di prima.

Al mondo importa sempre meno di Sarajevo e della Bosnia.

Sono stato qui l'ultima volta nell'inverno del 1995, sotto le pallottole. Ricorreva un "triste giubileo": mille giorni di assedio! E' difficile confrontare la situazione di allora con quella odierna. Molti edifici distrutti sono stati rinnovati o almeno resi abitabili. Per le strade la gente cammina senza dover temere i colpi dei cecchini. La vita torna a scorrere nelle vene della città, ma non c'è più quella solidarietà fra i cittadini costretti a sopportare gli stessi tormenti, insieme. Non si fa più la fila per il pane, l'olio e il sale; non si va più alle fontane e alle cisterne per una tanica d'acqua; non si cerca un ceppo di legna per riscaldare stanze senza vetri alle finestre.

In Bosnia praticamente non si produce niente.

Si vive per lo più di aiuti. Che qualcuno riceve in misura maggiore e qualcuno minore: quelli a cui va meglio non sono sempre quelli che meriterebbero di più. Le differenze fra il piccolo numero di quelli che si arricchiscono e la maggioranza che è sull'orlo della miseria o lo ha già superato, si fanno più evidenti.

Qui si muore prima del tempo, di cuore o di tumore, a causa di tutto quello che si è visto e vissuto.

Molti giovani capaci se ne sono andati, pochi sono quelli che intendono fare ritorno. Sono sempre di più quelli che continuano a cercare lavoro nel mondo: i croati in Croazia, i serbi in Serbia, gli uni e gli altri insieme con i bosniaci in tutti gli altri posti. Le istituzioni cui sono affidate le competenze stabilite, funzionano a malapena. L'aiuto umanitario viene sostituito da altre forme di sostegno, e il cambiamento colpisce quelli che ne avrebbero più bisogno. Ai rifugiati che sono giunti in città manca una cultura urbana. I partiti politici si occupano più delle provenienze nazionali che dei diritti del cittadino. Il più forte partito al potere -SDA- si dà più da fare per mantenere il potere che non per organizzare uno Stato moderno (come avviene del resto anche in Serbia e in Croazia).

In un simile contesto bisogna tuttavia prendere in considerazione le numerose difficoltà obiettive con le quali sono costretti a misurarsi, prima di tutto, i bosniaci di origine musulmana, credenti e laici, assumendo un ruolo determinante in uno Stato dove rappresentano la maggioranza. Aggrediti e feriti in guerra, traditi e umiliati dai fratelli e dai vicini, devono appoggiarsi su un passato che anche prima ostacolava la conferma o il completamento della loro identità divisa in posizioni spesso contrapposte, fra appartenenze varie: croata, serba o bosniaca, jugoslava o "indeterminata", nonché, a parte, musulmanesimo quale fede o quale sostituto di nazionalità. I serbi e i croati nella "Repubblica serba" di Bosnia e nella "Herceg-Bosna" croata, quelli che sono nutriti di ideologia nazionalistica, non credono che gli accordi di Dayton possano essere effettivamente applicati.

Né lo desiderano.

In simili ambiguità, non riescono a trovare realizzazione le idee valide o i progetti credibili, come se non ci fossero. Vengono più da fuori che dall'interno. Quelli che agli uni appaiono accettabili o positivi, agli altri sembrano inammissibili o distruttivi.

La concordia, si potrebbe dire, è un'utopia.

Al mio interlocutore serbo, che è tornato per mettere a posto le sue cose private nella città dove prima abitava e dove è rimasto senza casa, dà fastidio ogni accentuazione nei riferimenti ai "delitti serbi". Respinge la valutazione secondo la quale la politica di Milo1eviÊ è la principale colpevole di questa guerra fratricida. Anzi, tenta di convincermi che gli eccidi di massa al mercato di Markale e di via Vase Miskina sono stati compiuti dagli stessi musulmani per ingannare il mondo e attirarne l'attenzione. Gli rispondo di rimando che tutte le prove a disposizione smentiscono queste asserzioni. Che con questi argomenti offende ancora di più i serbi: indurre infatti qualcuno alla disperazione fino al punto di uccidersi da solo è più terribile che non ucciderlo direttamente. E' ammutolito ma non ha cambiato opinione.

Faccio fatica a discutere con i nazionalisti da qualunque parte provengano.

Gli intellettuali che sono rimasti a Sarajevo non sanno essi stessi cosa fare. Gli uni hanno perduto, gli altri non hanno acquisito, nessuno ha raggiunto quello che voleva o di cui avrebbe bisogno. E così vengono a galla quelli che hanno più capacità di adattarsi pur essendo mediocri. I nazionalisti —questa volta si tratta di bosniaci musulmani- cercano di occupare i posti più importanti. E' del tutto naturale che si aggiustino gli edifici religiosi distrutti, ma ad ogni passo, con i denari che giungono dai territori arabi ricchi di petrolio, si costruiscono molte più moschee che non scuole! L'interlocutore a cui l'ho fatto notare, si è offeso. La parola d'ordine del partito musulmano: "Nella fede, sulla nostra terra" provoca irrequietezza fra i non musulmani. Il poeta Dz. L., che ho difeso quando era stato incarcerato come "islamista" durante il passato regime, dichiara di sentire "più vicino a sé il musulmano della Malesia che non il croato di Sarajevo".

Bisogna aggiungere che molti bosniaci laici di origine musulmana si contrappongono aspramente a simili aberrazioni. Le condanna persino la poetessa M. che è stata in carcere prima di questa guerra e si considera "un'autentica musulmana" , del resto, è delusa anch'essa. Il poeta bosniaco Izet Sarajlic, un laico radicale, non crede che le cose possano migliorare: "La Bosnia presente è sempre più lontana dalla Bosnia dei nostri sogni… Diminuiamo ogni giorno, noi che probabilmente non abbiamo potuto fare di più perché ci fossero meno guai… Muore tanta gente intorno a noi. Non fa neppure male dopo tante granate sentire qualche marcia funebre".

Alcuni amici cercano di fare tutto il possibile per evitare "il piccolo stagno pieno di coccodrilli", come succede nelle vicine "democrature" serba e croata. Ma anche qui si ruba e ci si inganna. Il giornalista punta il dito contro "i criminali di guerra e i pedofili che hanno preso i posti migliori" (Zlatko DizdareviÊ). Gli uomini di buona volontà hanno paura del "terrorismo che trasforma la pace in guerra senza fine". Un politico di origine musulmana accusa "il sostegno della moschea al potere". I croati e i serbi che sono rimasti a Sarajevo durante l'assedio e hanno aderito fin dall'inizio all' "opzione bosniaca" temono sempre più l'islamizzazione dello Stato e della vita pubblica, delle istituzioni e della scolarità.

I musulmani laici condividono la loro inquietudine.

Ho parlato a più riprese nei giornali locali, alla radio e alla televisione, ripetendo non so quante volte che la Bosnia otterrà il sostegno del mondo solo se manterrà i principi in nome dei quali la parte migliore del mondo ha cercato di difenderla: la multinazionalità, la multiculturalità, gli stessi diritti di tutte le fedi nello Stato comune, la separazione fra fede e Stato ecc. ecc. In caso contrario, l'abbandoneranno a se stessa perché si salvi come sa e come può. "E gli sciacalli non aspettano altro, dalla parte orientale come da quella occidentale".

Milo1eviÊ e Tuðman hanno ormai deciso di dividersi la preda.

Mi richiamo al fatto che gli Stati confessionali, prima quelli cristiani, poi quelli islamici e tutti gli altri, del passato e del presente, non hanno avuto successo da nessuna parte. Rammento "la laicità" (parola che manca nelle lingue slave e in molte altre, che prendiamo in prestito o non riusciamo a tradurre); richiamo alla carenza di laicità nei confronti della fede stessa (sottolineando che si può essere laici credenti); all'assenza di laicità nei confronti della nazione intesa e sentita religiosamente; alla mancanza di laicità verso l'ideologia che assume i connotati di religione (ieri lo stalinismo e il fascismo, oggi i vari ultranazionalismi e i fondamentalismi). La tragedia è in vista quando una coscienza nazionale domina la coscienza e una fede il diritto umano. Là dove questo succede non c'è società civile né democrazia, specialmente sul territorio dove si incontrano più nazionalità; non c'è neppure autentica fede.

Mi sono stancato a forza di parlare di queste cose, riportando i miei scritti che non sono usciti nella mia lingua. Una parte del pubblico è ben disposta a recepire simili idee. Alcuni anche perché non sono in grado di contrapporvisi: né il passato né il presente regime li hanno abituati a contrastare alcunché. Nella diffusa penuria di ogni cosa, gli amici ci possono offrire, prima di tutto, la loro cordialità. La maggior parte lo fa in modo molto bello.

Ci offrono più di quello che hanno.

La situazione non è poi così fosca come si potrebbe dedurre da queste mie osservazioni. Il nazionalismo bosniaco non può essere paragonato a quello in cui ci imbattiamo in Serbia e in Croazia: con le espressioni violente del movimento cetnico o degli usta1a che si scatenano, gli uni e gli altri, contro i simboli della lotta antifascista. "Il fondamentalismo" in Bosnia resta verbale e limitato, perciò debole. Ho visto più ragazze col viso coperto dal velo in alcuni quartieri di Torino e Marsiglia che non nello storico quartiere sarajevese di Ba1Ëar1ija. Nei locali del P.E.N. Club e nella redazione del settimanale "Svijet" è ancora appeso il ritratto di Tito (e questo ha rallegrato la maggioranza dei miei compagni di viaggio).

Oggi è così, non so come potrà essere domani.

Ai colleghi italiani è particolarmente piaciuta la visita a "Oslobodenje", il quotidiano che nella sede distrutta, in prossimità della prima linea del fuoco, che per molti è stata anche l'ultima, ha continuato ad uscire tutti i giorni, magari ridotto anche ad un solo foglio. "Pagina epica del giornalismo contemporaneo", dice il collega Nisticò che ha lottato per anni in Sicilia contro la mafia.

Ho incontrato il generale Jovan Divjak e ho fatto amicizia con lui. Serbo di origine, si è opposto fin dall'inizio all'aggressione della "Repubblica Serba", alla follia della politica di Milo1eviÊ, ai crimini di KaradæiÊ e di MladiÊ. Ha diretto la difesa di Sarajevo uscendo in prima linea con suo figlio e guardando in faccia la morte. E' stato recentemente sostituito dalla posizione che aveva nell'esercito bosniaco. Non sembra deluso. Sorride quando gli chiedono come sia potuto accadere. La gente lo incrocia per strada e gli esprime rispetto, soprattutto i musulmani.

Una vecchia vuole baciargli le mani.

Ci mostra i punti dove la città si difendeva, i cimiteri dove sono sepolti i ragazzi nati negli anni '70, caduti negli anni '90: i suoi soldati - figli della Bosnia. Andiamo presso il vecchio Cimitero Ebraico camminando in fila indiana: tutto intorno ci sono ancora mine; lì è stato fermato il pericoloso tentativo di penetrazione dei cetnici a Sarajevo. Un po' più in basso, sull'Ilidza, "hanno sfondato le nostre posizioni- loro avevano i carri armati, noi li fronteggiavamo con i fucili".

Siamo giunti ad un altro cimitero non lontano dalla Biblioteca Nazionale incendiata. Qui le tombe sono indicate da un semplice pezzo di legno. E' minore il numero di quelle con il simbolo della religione -la mezzaluna con la stella- che non di quella senza. Non sono rari i bosniaci di origine musulmana che non si considerano credenti. E qui accanto a loro giacciono -ne leggo i nomi- soldati bosniaci croati e serbi.

In questo punto prima della guerra non c'era alcun cimitero.

"Guardate in alto verso il monte" -ci indica Divjak- "lì c'è il posto che KaradæiÊ sceglieva per i suoi ospiti; di lassù vedi Sarajevo come un palmo di mano; poi puntare a tuo piacimento, su chi vuoi". Ho visto un anno o due fa, in un documentario televisivo inglese, il poeta russo Limonov (ex dissidente invasato del mito della ortodossia russo-serba) sparare sulla città con l'arma offertagli da KaradæiÊ in persona!

Il generale deposto mostra col dito le nuove costruzioni accanto alle quali passa il nostro autobus: "Appartengono ai profittatori di guerra locali. E quella un po' più in là è dell'odierno ministro dell'economia".

I cetnici odiano più Jovan Divjak che Alija IzetbegoviÊ; come può un serbo difendere Sarajevo dai serbi? "Tradimento", questa è la logica di tutti i fascismi di questo paese, non appena ti ci contrapponi. La conosco bene questa logica, ne ho sofferto abbastanza, cerco di dimenticarla.

Sono un traditore della loro ideologia.

Divjak mi fa ripensare ad alcuni ufficiali di Tito il cui talento militare emerse nella guerra di Spagna e trovò conferma nella lotta antifascista jugoslava. Gli dico, un po' per scherzo e un po' sul serio, che un giorno aiuteremo lui i serbi e io i croati a "chiedere scusa e perdono ai nostri fratelli bosniaci per i delitti commessi". Uomini più grandi di noi hanno dato l'esempio che valeva la pena di seguire: Thomas Mann condannava il "fascismo della patria", Willy Brant sparava sui nazisti tedeschi. Divjak ha scritto delle memorie di questa guerra che, se dovessero uscire, "inquieteranno il circondario". Ho promesso di scrivergli la prefazione.

Troveremo pure un editore.

A Sarajevo non c'è posto negli alberghi. Ho passato tre notti dai francescani, nel Convento di S.Antonio. In una città che ha vissuto tali sciagure, la sobrietà e la moderazione dovrebbero essere la regola. E' proprio così, in questo luogo, non in tutti gli altri. Mi hanno favorevolmente sorpreso le differenze fra i francescani della Bosnia Argentea, favorevoli all'ecumenesimo, e quelli dell'Erzegovina, inclini allo sciovinismo. Qui si sa guardare lucidamente alle circostanze e ai guai presenti, si capisce che la Croazia sotto il potere di Tuðman ha perso la sua reputazione nel paese e nel mondo, si sanno condannare gli errori che questa politica ha commesso e continua a commettere. Uno di loro si congratula con me per la lettera (sugli usta1a in chiesa) che ho mandato al Papa alla vigilia della sua visita a Sarajevo, che invece i clericali di Zagabria hanno coperto di insulti. "Vorrei che la Bosnia ed Erzegovina restassero unite, che non si dividessero", mi dice un giovane sacerdote, un bosniaco la cui famiglia ha perduto tutto nei pressi di Vare1. Sono andato alla messa celebrata da fra' Marco, soprannominato il "francescano rosso". L'ho ascoltata con lo stesso raccoglimento di una volta, quando ero bambino: rispettando il rito, senza pregare. Congedandoci ho detto al priore fra' Luca: se restassi ancora qualche giorno con voi tornerei in chiesa. Devo dunque affrettarmi per rientrare a Roma.

Là ci sono meno pericoli.

Torniamo a Mostar, proprio nel giorno in cui si recupera dalla Neretva la parte centrale dell'arco del Vecchio ponte. Assisto a questo avvenimento con una strana emozione. Sono stato invitato a prendere posto nella tribuna dove siedono il Presidente IzetbegoviÊ, i diplomatici stranieri, i generali, ecc. Non sono mai stato in questi posti d'onore, sotto alcun regime, e continuo a pensare che non ci starò. Ritengo che questo non si addica ad uno scrittore libero. Lasciamolo fare agli scrittori di Stato: ai vari CosiÊ, Aralica, Rupel, a gente come quella, agli "ex jugoslavi" diventati ultranazionalisti. Sono rimasto in disparte, con gli amici italiani, lungo il corso della Neretva. Abbiamo visto gli ingegneri ungheresi che sollevavano con una grande gru, su una zattera, il troncone del Vecchio ponte. Che non univa solo le due sponde di quella città, ma altresì le vie dell'Oriente e dell'Occidente.

Tornerà a farlo?

Mi viene in mente un pensiero che trovai scrivendo il "Breviario Mediterraneo", in un codice di Leonardo: "Tra Oriente e Occidente in ogni punto è divisione".

Deve essere sempre così?

Ho incontrato in questa circostanza un ingegnere di Mostar che sta a Zagabria e che conosco da quando eravamo alle scuole elementari, dalle reverende suore di Mostar dove frequentavamo insieme. Nell'ultimo periodo del passato regime, era stato in carcere. Ero riuscito a tirarlo fuori con l'aiuto di Ante MarkoviÊ, a quell'epoca presidente del Parlamento. Croato dichiarato, questo ingegnere, ha aiutato gli erzegovini a trovare le armi per difendersi quand'è cominciata questa guerra. Poi si è staccato dalla Herceg-Bosna, non condividendo la posizione che veniva tenuta nei confronti dei musulmani. E' rimasto fedele a Mostar, sforzandosi di farla restare unita. Si è recato nella parte occidentale e ha proposto alle autorità croate di presenziare anch'esse a quest'atto di grande valore simbolico. La loro risposta è stata: "Non vogliamo avere a che fare con i circoncisi". Perché non hai risposto, a questi falsi cristiani, che anche Gesù Cristo era circonciso, come del resto i dodici apostoli?" "L'Antico Testamento insulta i filistei per non essere circoncisi".

Religione superficiale che non è mai diventata vera fede, fede in cui c'è più rito che credenza: dove può esserci posto qui per l' "amore verso il prossimo"? Ci riflettano i prelati di tutte le confessioni. Scopriranno forse perché tanti di noi hanno cessato di credere e praticare.

Al tramonto siamo giunti di nuovo all'Adriatico, passando per Gradac, Drvenik, Piccola Duba, Acque di Baska, Igrane, Makarska, una parte di costa che mi è rimasta nel cuore, perché è quella che ho conosciuto per prima. Ho pregato l'autista di fermarsi un momento: le erbe sono già rinsecchite, profumano insolitamente in questa stagione; il ginepro, il pino e le resine mescolano con esse i loro odori. Li sento in aria, mi riasserenano.

Siamo arrivati a Spalato.

Nel porto incontriamo uno strano compare, dalla rozza parlata si direbbe un morlacco dell'entroterra, nazionalista: "Cosa siete andati a fare in Bosnia. Là sono bestie. Quelli non ci vogliono bene". Non l'ho tradotto agli italiani, forse non avrebbero capito.

Ci siamo imbarcati.

Il vento era di nuovo dolce, come all'andata, e il mare puro. L'indomani mattina all'alba sono salito in coperta per veder spuntare il sole. Si scorgevano le due parti di Ancona, il bianco costone di roccia che ci sta in mezzo: il famoso "gomito".

Torno a Roma con le cicatrici dell'asilo e dell'esilio su di me e in me: Mostar e Sarajevo, quello che ho visto e quello che desideravo vedere, il paese che ho lasciato e le ragioni per cui l'ho fatto.

Per giorni non sono riuscito a scrivere neanche una riga. Così era stato anche la volta precedente, quando tornavo da Sarajevo dopo mille giorni di assedio.



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