Scusi, ha dimenticato il Kalashnikov!

Il racconto di Sinisa

"Io non condivido l'opinione che le cause della crisi jugoslava siano nate direttamente dal vecchio regime di Tito e che sia stata la stessa classe dirigente comunista di allora a innescare quello che è successo. Questa opinione ha iniziato a diffondersi nella seconda metà degli anni '80, con la nascita del multipartitismo. I maggiori sostenitori di questa teoria però erano i nuovi leader che durante il regime di Tito erano stati emarginati o in carcere proprio per le loro idee nazionaliste. Un nazionalismo più forte ed estremo, non paragonabile a quello che si può intendere in Italia. Quando questi leader hanno iniziato ad emergere, verso la fine degli anni '80, si è capito che molte cose stavano cambiando. La crisi era già nell’aria, insieme a loro. Basti pensare agli avvenimenti del Kosovo, una regione che più volte in passato aveva rivendicato l’autonomia, ma in un modo, come dire, tutto sommato più tranquillo. Alla fine degli anni '80 invece i contrasti sono stati più laceranti, fino alla soppressione dell’autonomia."

L'incontro con Sinisa inizia così, con questa chiarificazione in anteprima del suo punto di vista, prima ancora di presentarsi e di muoversi nella sua storia. Quasi un richiamo a non lasciarsi confondere da interpretazioni facili, che spiegano tutto con poche battute e magari pretendono di conoscere una storia prima ancora che sia raccontata. E’ il timore forse di non essere ascoltati nel modo giusto, che abbiamo riscontrato, seppure in forme diverse, anche negli altri intervistati.

"Io ho 31 anni e sono di Sarajevo. Fin da piccolo ho vissuto a Sarajevo, prima nel quartiere Dolac Malta e poi negli ultimi anni prima della guerra a Djidjikovac, in centro. Ho frequentato le scuole superiori tecniche e nel 1985 ho prestato il servizio militare, che allora durava un anno, anche se non mi piaceva quell’ambiente. Al ritorno ho trovato lavoro come elettricista ma non mi piaceva e così ho smesso per iniziare a pitturare. Dipingevo quadri e disegni che con l’aiuto della mia ragazza vendevo in Germania. La mia ragazza era figlia di immigrati slavi andati molti anni fa in Germania e anche lei è nata in Germania.

La città dove sono nato è FoËa, si trova sulla Drina al confine con la Serbia e durante questa guerra ha subito assalti molto duri da parte delle milizie serbe. La mia famiglia si è trasferita a Sarajevo quando io ero ancora molto piccolo. Mio padre era un militare e ha dovuto trasferirsi quando fu chiusa la caserma di FoËa. In seguito vendemmo anche la casa e ci trasferimmo definitivamente a Sarajevo."

Domandiamo a Sinisa a quale etnia appartiene. Lo chiediamo a tutti, con un po' di imbarazzo talvolta e quasi rispondendo a un obbligo di doverosa distinzione. Lui si mette a ridere perché sapeva che prima o poi lo avremmo chiesto, e ci risponde raccontandoci questa storia.

"Quando nel 1985, all’età di diciotto anni, sono stato arruolato per il servizio militare, mi sono presentato presso il comando di Skopije e qui mi hanno rivolto la stessa domanda. Io ho risposto nel modo che mi sembrava più ovvio: jugoslavo. Ma a loro non bastava, dovevo essere più preciso e non sapevo come fare. Ho dovuto telefonare ai miei genitori e chiedere: "Chi sono io?", perché non lo sapevo. E' così che ho scoperto che la mia famiglia era serba. I ragazzi che venivano dalle diverse zone della Croazia, della Serbia o della Slovenia avevano saputo rispondere subito con precisione. Solo noi, non noi bosniaci ma proprio noi di Sarajevo, "non sapevamo chi eravamo".
La mia ragazza invece aveva la madre croata, di Vinkovci, vicino Vukovar, mentre il padre era nato da un matrimonio misto. Il suo cognome era croato e il nome era serbo, ma prima della guerra non si badava in nessun modo a queste cose e neanche a casa mia si parlava mai di questo.
Faccio un altro esempio. Da noi le madri che non avevano abbastanza latte facevano allattare i propri figli da altre donne. Così è avvenuto per mia sorella che è stata cresciuta insieme ad un altro bambino da noi considerato in tutto e per tutto come un fratello. Io ho sempre considerato i figli dei miei vicini dei fratelli più grandi e solo dopo la guerra mi sono reso conto che erano musulmani. Allora ho cercato di capire che fine avessero fatto ma non sono riuscito a mettermi in contatto con loro perché FoËa è finita sotto il controllo dei serbi e sembra che sia successo un macello esattamente come durante la seconda guerra mondiale. Hanno addirittura cambiato il nome da FoËa a Srbinje."

La doverosa distinzione, che a noi crea solo un po’ d’imbarazzo, nel racconto di Sinisa riacquista subito una dimensione grottesca. Di qua i ragazzi di Sarajevo, che "non sanno chi sono" e che anche nei loro nomi e cognomi portano unite particolarità diverse. Di là "gli altri" che invece credono di saperlo con troppa sicurezza, e di conseguenza intervengono per recidere i legami di latte e cambiare addirittura i nomi delle città, affinché nessuna particolarità resti celata sotto ad un nome. Questa opera di cancellazione delle memorie è stata perseguita con tenacia nella guerra e ha costituito il vero motore della "pulizia etnica", ovunque i mezzi lo abbiano consentito. Prima della pulizia invece la vita era mista e i giovani la preferivano.

"Anche la nostra comitiva di amici era "mista", formata da serbi, croati, musulmani, da ragazzi di famiglie miste e altri. Eravamo un gruppo molto unito e viaggiavamo molto, sia nella ex Jugoslavia che nel resto del mondo. A differenza dei ragazzi di altri paesi dell'area sovietica, noi potevamo viaggiare liberamente.
Noi ragazzi di Sarajevo ci sentivamo diversi. C'era un detto che usavamo ripetere e che sottolinea bene questa nostra percezione: "Addio Bosnia, vado a Sarajevo". Per noi giovani era più importante andare a Zagabria o Belgrado, nelle città più grandi, anche a Mostar, e conoscere le persone di lì piuttosto che andare nel resto della Bosnia con gli altri bosniaci, da cui eravamo molto diversi anche nel modo di parlare.
Avevamo molte più cose in comune con i ragazzi di città. Da noi c'era un contrasto più grande che non in Italia tra la città e la campagna. Ad esempio, se uscivi da Sarajevo con i capelli lunghi rischiavi anche le bastonate. Ti consideravano un extraterrestre."

Il contrasto città-campagna in questo racconto assume l’aspetto di un distacco culturale incolmabile, come se la città non abbia una continuità territoriale con il mondo esterno ma sia raggiungibile solo colmando con un balzo le distanze che la separano dalle altre città del "resto del mondo". E’ un balzo ideale e al tempo stesso fisico, nel quale si viaggia, si parte e si ritorna: "Io ho vissuto sempre dentro questa città, dove mi trovavo bene e mi divertivo, non mi ha mai interessato andare a vivere da altre parti", dice Sinisa. Sembra quasi che Sarajevo viva già con il suo "ponte aereo".
Anche "la percezione della guerra in arrivo", seguendo la formula che usiamo in tutti i colloqui, pare svilupparsi all’interno di un metaforico ponte aereo. Da un lato la certezza che il "resto del mondo" non possa permettere una guerra così assurda, dall’altro la degenerazione della vita politica interna che avanza inesorabile e sempre di più penetra nella vita e nei colloqui di tutti i giorni.

"Quando si è iniziato a parlare di pluralismo partitico nel nostro gruppo di amici abbiamo compreso subito di cosa si trattava, ma non sapevamo che fare. Sapevamo che dietro questi partiti c’erano anche fuoriusciti della Seconda Guerra Mondiale. Come capita a tutte le minoranze che si ritrovano all'estero, per proteggersi o sentirsi più uniti avevano creato forme di collegamento, ad esempio gruppi culturali, ma poi erano nati anche altri gruppi di tipo mafioso oppure con finalità politiche. Alcuni si sono riprodotti fino ad oggi coltivando l'obiettivo di rovesciare il regime del loro paese. I primi partiti nazionalisti sono nati così, all’estero, e poi sono rientrati in Jugoslavia con l’avvento del pluralismo verso la seconda metà degli anni '80. Alla loro guida furono messe persone di sicura fedeltà, dal loro punto di vista, ad esempio che erano state in galera per nazionalismo durante la "dittatura" di Tito.
Adesso tutti dicono che Tito sia stato un dittatore e nessuno lo ricorda più come un bravo presidente, eppure quando è morto ai suoi funerali c'era tantissima gente che piangeva.
Discutevamo su cosa stava accadendo nel paese. Le occasioni non mancavano. Bastava accendere la TV e vedevi i politici litigare tra loro anche per stupidaggini. Una volta, ricordo, c'erano KaradæiÊ e IzetbegoviÊ che litigavano su chi dei due per primo avesse chiamato l’altro al telefono per fare una proposta. Ognuno rivendicava la paternità, dimenticando entrambi di discutere realmente sulla proposta. Poi, magari, il giorno dopo, al contrario, negavano tutti e due di aver telefonato. Era uno spettacolo deprimente, sembrava una trasmissione satirica tipo "scatafascio". Dicevano e facevano tutto ed il contrario di tutto.
Allora c’era un gruppo di artisti surrealisti che si chiamava "Top-hit Lista Nedrealista" e presentava allaTV spettacoli comici sui politici. Imitavano le loro liti e mostravano però come in seguito sarebbero passati alla guerra.

Tutti noi ridevamo ma nessuno si rendeva conto che si sarebbe realmente avverato. Sembrava assurdo che ci si potesse sparare addosso solo perché uno era serbo, croato o musulmano.

Poi, oltre alle liti hanno iniziato anche a scambiarsi vere minacce. Già nel 1990 era diffusa la sensazione che qualcosa stava cambiando. La legge veniva rispettata sempre di meno. La stessa Polizia non entrava più in certi quartieri se non era ben organizzata. Gli arresti e le sparatorie fra polizia e criminali aumentarono vertiginosamente. In gran parte riguardavano trafficanti di armi e di droga e la politica non c'entrava assolutamente nulla. Erano invece i resoconti della polizia o le cronache delle televisioni che tendevano a riferire soltanto l'appartenenza etnica degli arrestati. Ad esempio, se un criminale ne uccideva un altro in un regolamento di conti, la notizia principale era che un musulmano aveva ucciso un serbo, o viceversa.
Tutti quelli che potevano vendevano armi, per soldi e senza badare ad altro. I serbi ai musulmani, i croati ai serbi e così via, e la gente si domandava: "Come mai vendono le armi ai nostri nemici?" Tutto si confondeva. Nonostante questo non riuscivano a vedere che dietro a quelle persone che trafficavano "con i nemici" c’erano dei criminali che guadagnavano soldi, gente dalle mani sporche. Si iniziava invece sempre di più a parlare di serbi o di musulmani o di croati. Più tardi ci furono anche assalti presso i magazzini dell'esercito ma non si sapeva chi fossero e dove finissero quelle armi."
"I primi ad armarsi e a sparare sono stati in gran parte gli ultras delle tifoserie di calcio. Potevi vederli in giro per la città con i cani pit-bull a spacciare droga, oppure nelle curve degli stadi, e poi nelle strade armati e a sparare alle persone. Sia dalla parte croata che musulmana che serba i primi ad armarsi sono stati loro. Vedi ad esempio Arkan: era un ultras della Stella Rossa di Beograd, oppure i tifosi della Dinamo Zagreb e i Torzida da Split. Non è che loro si scontrassero armati, però furono i primi ad andare nei villaggi e iniziare per soldi le prime sparatorie. Questi gruppi hanno iniziato ad armarsi intorno al 1990.
La televisione indipendente "JuTel", che trasmetteva in tutta la Jugoslavia, fece dei servizi sull’esistenza di questi gruppi paramilitari destabilizzatori. Addirittura iniziarono a comparire nei servizi televisivi dei personaggi vestiti in "mimetica" ma senza nessun segno di riconoscimento dell’esercito jugoslavo. Noi ci domandavamo: ma chi sono questi?
Poi iniziarono strane sparatorie nel nord della Bosnia, a Brcko, a Bjielijna, al confine con la Croazia, sul fiume Sava. La tecnica era questa: in quei paesi c'erano persone di origine etnica diversa che avevano vissuto tranquillamente insieme da molti anni, andando sempre d'accordo e considerandosi cittadini uguali. Poi in una casa arrivava qualcuno di questi paramilitari, sparava sulla casa del vicino e obbligava il "suo fratello di sangue" a sparare anche lui, pena la morte. E il vicino si chiedeva: "Ma che fai, sei impazzito che mi spari? Siamo o non siamo amici". Gli spari continuavano e allora il vicino preso di mira pensava: "Bisogna che mi armo pure io", e così iniziavano, costretti in questo modo, a sparasi uno con l’altro. Nel frattempo i paramilitari che avevano iniziato tutto non c'erano più, si erano spostati altrove, e facevano questo per soldi. Anche in televisione si erano viste immagini di Arkan mentre uccideva a sangue freddo delle persone: ha ricevuto sicuramente un sacco di soldi per fare quel lavoro e oggi vive protetto e non è neanche accusato di crimini di guerra.
Così era dappertutto in Bosnia anche se io conosco meglio quello che è accaduto nella parte musulmana, dove sono rimasto a vivere."

La guerra di Sarajevo in Bosnia è preceduta da quella di Vukovar in Croazia, un’altra delle città simbolo della Jugoslavia, sia per la sua multietnicità che per la sorte subita. Tutte le città multietniche hanno subito la sorte peggiore. Le informazioni su Vukovar che però circolano a Sarajevo in quei giorni non consentono di comprendere subito con evidenza ciò che sta accadendo. Chi vuole può solo intuire, se ne ha voglia, perché gli indizi non mancano, ma le informazioni vere, che analizzano e spiegano, sono scarse. Qui, sul teatro di guerra, ci sono interessi forti a non spiegare, ma per altri versi gli stessi meccanismi di mala informazione li abbiamo sperimentati anche da noi in Italia con la nostra Tv e i nostri media, che hanno esibito immagini emotivamente forti della guerra ma per il resto, quando non sono stati fuorvianti, comunque sono stati avari di quelle informazioni che aiutano a capire. Molti di noi non sono riusciti a capirci nulla. Forse il vero problema è proprio questo, per capirci qualcosa occorre averne la voglia, la cocciutaggine, non fidarsi, e utilizzare al meglio i pochi indizi che comunque trapelano.

"All’inizio della guerra con la Croazia, nel 1991, l’esercito federale voleva arruolarmi. Dissero che si trattava solo di esercitazioni ma tramite mio padre ho scoperto che in realtà volevano mandarmi a combattere a Vukovar. Cercavano le persone di origine serba ma io non avevo nessuna voglia di andare. La guerra di Vukovar è stata tenuta nascosta e ai giornalisti era vietato entrare in quelle zone. Non si riusciva a capire bene cosa succedeva, si sapeva in modo confuso di forti combattimenti fra l’esercito federale e persone non ben definite. Parlavano di emigranti slavi che erano rientrati per destabilizzare il paese. Io ero abbastanza intelligente per capire che non dovevo rispondere alle richieste dell'esercito. Altri ragazzi invece sono partiti volontari, perché si sentivano serbi. A me fa sorridere questa cosa: "Serbi". Solo quando la guerra è finita abbiamo visto che avevano raso al suolo Vukovar.
Nel periodo in cui l’esercito mi cercava sono andato per qualche mese in Germania, dove viveva la mia compagna. Lì però mi annoiavo, non avevo un lavoro e tutto il giorno andavo a spasso con il mio cane, una femmina "meticcia", oppure dipingevo ma senza reali prospettive. Così mi sentivo stressato, un po' per quel tipo di vita e un po' per le notizie che ascoltavo dalla televisione o che ricevevo dai miei familiari. Verso la fine del 1991 ho deciso di tornare a Sarajevo. Le strade lungo il confine croato erano chiuse e ho dovuto attraversare l’Ungheria, la Voivodina, la Serbia. Appena entrato in Bosnia ho potuto vedere tutte queste persone "mobilitate". C'erano continui posti di blocco e molti erano armati e ubriachi. La situazione era molto pericolosa."

Mentre molti già scappano Sini1a ritorna a casa, dentro la città in cui ha sempre vissuto. L’atmosfera però è strana, sembra la quiete prima della tempesta.

"A Sarajevo tutto appariva ancora diverso, come se nulla stesse accadendo. La vita era strana in quei mesi. C'era nell'aria una strana euforia e ci si divertiva molto. Non mi vergogno di dire che quello forse è stato il più bel periodo della mia vita. Tutti pensavano a divertirsi e stare bene. Ognuno spendeva tutti i soldi che aveva in tasca. Parlavamo anche della guerra ma senza sapere bene cosa fosse, e ridevamo dei discorsi dei politici perché ci ricordavano gli sketch dei "nedrealisti". Anche a Sarajevo iniziavano però a comparire i posti di blocco, dove ci fermavano per chiederci i documenti, ma anche questo finiva col divertirci.
Il giorno in cui ricorreva il Natale Ortodosso si era sparato un po' più del solito, c'era tensione e molti dicevano: "Se si sparerà anche nel giorno del bajram musulmano, allora ci sarà la guerra".
Alla fine di febbraio del 1992 hanno iniziato ad apparire le prime barricate. Penso che a Ginevra, dove i dirigenti politici delle tre entità etniche andavano per riunirsi, non riuscivano a mettersi d'accordo. Di fatto, c'erano già allora "tre governi", uno musulmano, uno serbo e uno croato. Mi viene da ridere a pensare che tutti e tre i dirigenti politici partivano dalla stessa città per andare a riunirsi a Ginevra, e cercare lì un accordo "sulla" Bosnia. Hanno promesso tutti un sacco di cose e non hanno mantenuto nulla, e non hanno fatto nulla per evitare la guerra."
"Dopo le prime barricate sono venuti da noi sia i genitori della mia ragazza che i miei, per convincerci a scappare, ma noi non eravamo convinti. Pensavamo che "il mondo" ci avrebbe aiutato. Avevano mandato i "Caschi Blu" e la gente si sentiva sicura. Pensavamo che non avrebbero permesso una guerra vera e propria e che presto avrebbero spazzato via queste bande paramilitari che giravano armate per la città e bloccavano la gente.
Il fatto è che non ci hanno spiegato cosa vuol dire realmente "forza di protezione", dato che riuscivano appena a proteggere se stessi. Chi non voleva schierarsi con nessuna delle tre parti andava a chiedere aiuto ai Caschi Blu, che però minacciavano di spararti se non ti allontanavi dalle loro basi. Chi ancora si fidava restava in città, gli altri scappavano, soprattutto grazie ai viaggi aerei organizzati per evacuare i familiari dei militari verso Beograd o Skopije. Andavano via in gran parte i serbi, ma anche altri, purché avessero avuto qualche conoscenza tra gli ufficiali dell’JNA. Ci sono stati diversi croati o musulmani che sono scappati a Beograd e che ancora vivono in quella città."

La guerra potrebbe essere evitata così, con un semplice viaggio aereo verso Belgrado. Tutto sommato è ancora semplice andarsene. Quei viaggi organizzati dall’esercito sono una certezza e non vengono chiamati, come avverrà da lì a qualche mese per il ponte aereo durante l’assedio, "Airlines maybe", cioè "Viaggi aerei, forse". Eppure all’ultimo istante si rinuncia. C’è di mezzo un cane, che nonostante abbia i suoi documenti in regola e sia già abituato a volare, non trova posto. I cani di Sarajevo tornano di nuovo in ogni racconto, e ogni volta si adattano al tipo di racconto, all’esperienza a cui partecipano. In questo caso hanno una loro umanità e dignità, e dunque il viaggio salta.

"All’inizio di aprile abbiamo deciso di scappare. Abbiamo preparato le valigie, preso il cane e siamo andati all'aeroporto, che ancora era sotto il controllo dell'esercito jugoslavo -soltanto verso i mesi di luglio e agosto, quando oramai era soltanto un esercito serbo, l'aeroporto è stato occupato dai caschi blu dell'Onu.
Lungo la strada siamo stati fermati ad un posto di blocco di paramilitari serbi. L’amico che ci accompagnava con l'auto era musulmano e così hanno minacciato di sequestrarci tutto. Per fortuna una di quelle persone disse che mi conosceva, anche se io non l'ho riconosciuto, e così ci hanno lasciato passare. Il suo collega era contrario e così hanno iniziato a litigare tra loro e a minacciarsi addirittura con i mitra. Era un bel casino: se si sparavano avrebbero colpito anche noi.
Alla fine siamo arrivati all'aeroporto ma l’aereo era pieno: non c’era spazio per il cane. Un bastardino di piccola taglia che portavo sempre con me, così decisi di tornare indietro e di far salire solo la mia ragazza con la promessa che l’avrei raggiunta dopo qualche settimana, quando tutto si sarebbe calmato. Ma neanche lei salì. Ritornammo a casa e staccammo il telefono per far credere ai nostri genitori che eravamo partiti.
Non siamo ritornati indietro per i nostri genitori. Non volevamo abbandonare il cane, l’abbiamo fatto solo per lui. In fondo mio padre era nell’esercito e la sua scelta l’aveva fatta."

Scorre via anche il mese di aprile. Secondo alcuni, che si sono attrezzati in proprio, la guerra è già iniziata il giorno del Bajram, secondo altri quella che si sta vivendo non è ancora guerra, con eserciti un po’ più regolari che si fronteggiano sulle due linee del fronte.

"Nel mese di aprile la situazione in città era abbastanza divertente. Dicevamo: "Meno male, non ci sono più i contadini, se ne sono andati". Per contadini non intendevamo chi lavora la terra ma quelle persone che "non capiscono", che erano fissate, avevano dato vita ai gruppi nazionalisti e andavano in giro armate. In quel periodo se ne vedevano di meno in centro, erano andate o dall’altra parte fuori città o verso i quartieri periferici. Così si camminava tranquilli, il pomeriggio si stava insieme a casa di amici, si discuteva anche su come impedire la guerra e intanto si continuava ad andare nei bar e a divertirsi, anche se comunque in giro c'erano sempre alcune persone armate. Noi eravamo giovani e non ci preoccupavamo; inoltre ci sentivamo sicuri della presenza dei caschi blu.
Ripeto, non mi vergogno di dire che quello era un periodo vivacissimo, pieno di emozioni.
Alla sera si poteva sentire qualche sparatoria ma non c’erano veri combattimenti. Sparavano in aria o anche sulle case ma più per attirare l’attenzione che per combattere. Forse c’erano già alcune sparatorie nei quartieri di periferia, tra gruppi paramilitari.
Uno di questi gruppi era formato dai "Berretti Verdi", che si occupavano anche della guardia del Presidente. Potremmo definirli "estremisti musulmani" ma non in senso religioso. Non so bene chi fossero. Si diceva che i loro dirigenti non erano di Sarajevo ma del Sandzak. Oltre ai "Berretti Verdi", che si riunivano da un po’ di tempo e tenevano degli addestramenti, si erano formati anche gruppi serbi con persone provenienti dalla Serbia e dal Montenegro. In aprile questi gruppi erano già in azione ed erano comparse barricate e posti di blocco tra i vari quartieri.
La gente di Sarajevo, se non aveva bisogno, non si allontanava dai propri quartieri.
C’erano già, in aprile, anche associazioni internazionali che organizzavano convogli di bambini, per farli uscire da Sarajevo e portarli in luoghi più sicuri. Ma non andavano solo bambini. Anche altri, se volevano e se non venivano bloccati quando dovevano passare per quelle barricate, potevano uscire. Erano i primi profughi."

Le manifestazioni per la pace. Era un periodo vivacissimo e pieno di emozioni. Ci si divertiva e le novità certamente non mancavano. Nell'ambiente di giovani frequentato da Sini1a la fiducia di farcela non viene mai meno e così, grazie a questa spinta, si organizzano manifestazioni e si scende in strada insieme a tanta altra gente.

"Verso i primi di aprile sono iniziate le manifestazioni per la pace, proseguite per tutto il mese. Speravamo di far cadere "tutti e tre" i governi nazionalisti ed eravamo convinti di riuscirci vedendo il gran numero di persone che partecipavano.
Alla fine del mese la gente era stanca di quella situazione e ci fu una grande manifestazione. Si iniziò a camminare da Dobrinia fino a Marijin Dvor, dove c’è il palazzo del governo, vicino ai due grattacieli Momo e Uzeir. In quei giorni si dormì lì, poi si presentò anche Alija IzetbegoviÊ che chiese di prendere la parola sul palco. Diversi di noi protestammo vivacemente, non lo sentivamo al di sopra delle parti e pensavamo che ci avrebbe strumentalizzato, e anche che i serbi avrebbero detto che le nostre manifestazioni pacifiste in realtà erano organizzate dai musulmani contro di loro.
Quando Alija IzetbegoviÊ salì sul palco tutt’intorno erano comparsi molti "Berretti Verdi", le sue guardie del corpo. Intanto circolava la voce che all’Holiday Inn, dove KaradæiÊ aveva organizzato il suo ufficio politico, i cecchini serbi avevano preso posizione. Poi furono anche arrestati ma subito furono scarcerati perché, si disse, erano "solo" le guardie del corpo di KaradæiÊ. Era un casino in cui non si capiva più nulla.
In una di quelle manifestazioni dei cecchini serbi spararono sulla folla e uccisero Suada, una studentessa universitaria croata di Dubrovnik che studiava a Sarajevo.
Purtroppo le nostre manifestazioni non sono servite a nulla. Il 2 maggio inizia la guerra vera e propria. Almeno secondo me è questa la data, perché è da quel giorno che iniziano a sparare veramente e tutta la città viene coinvolta. Da quel giorno è lo stesso governo di Sarajevo, composto dai politici restati a Sarajevo, in prevalenza musulmani, che inizia a reclutare le persone e a organizzare il proprio esercito. Però dovevano chiamare le persone più volte per farle presentare, perché molti non andavano: se ne fregavano."

Chiediamo a Sinisa se conosce la storia raccontata all'inizio del film "Benvenuti a Sarajevo" di Michael Winterbotton, che proprio mentre parliamo viene proiettato in un cinema qui in città. Si tratta di un matrimonio e di un cecchino che da lontano, forse da un tetto, spara e uccide una delle persone che stanno accompagnando la sposa. E' un episodio realmente accaduto?

"Sì, ma non ricordo esattamente la data. E’ avvenuto alla Ba1Ëar1ija, al centro storico, vicino alla fontana Sebilj. Vicino c’è anche la chiesa ortodossa, molto bella e antica, e loro stavano andando lì per il matrimonio. Erano per la strada con le bandiere dei serbi e cantavano. Come è nel costume dei serbi in queste occasioni capita anche che si spari in aria, quando invece è uscito fuori un musulmano che gli ha sparato addosso e da lì è nata una sparatoria. Si dice così che quel giorno è stato l’inizio delle sparatorie e della guerra. La persona che ha sparato era un musulmano del Sandzak, si chiamava Ramiz DelaliÊ, detto anche Celo che in italiano significa "pelato", senza capelli. All’inizio, subito dopo la sparatoria, ha dovuto nascondersi, ma dopo qualche mese, quando era scoppiata la guerra vera e propria, è stato presentato dalla televisione, che oramai aveva solo dirigenti musulmani, come un eroe, uno che aveva capito che bisognava sparare subito ai serbi. E' stato paragonato addirittura a Gavrilo Princip, l'attentatore dell'Arciduca austriaco nel 1914, anche se era una situazione del tutto diversa. Da quel giorno la situazione ha iniziato a degenerare.
A me ha fatto schifo quando lo hanno presentato come un eroe: per me era solo un assassino. Poi in seguito hanno anche raccontato questa storia in un modo ancora diverso, come faceva più comodo, così come accade a tutte le storie che vengono cambiate a seconda dei bisogni. Nel ‘94 lo hanno anche arrestato, ma credo che sia rimasto dentro per poco tempo.
Tutte le storie vengono cambiate quando fa comodo: ad esempio anche il ponte intestato a Gavrilo Princip ora si chiama ponte Ferdinando: lo hanno dedicato all’Arciduca ucciso, come se ora dovessimo dire che si stava meglio sotto il governo austriaco."

La guerra, quella vera e propria, è iniziata il 2 maggio, ma ancora l'esercito federale jugoslavo è bloccato dentro le sue caserme in città, assediato dagli assediati.

"La città era assediata e avevano iniziato a bombardare, e l'esercito a sua volta era assediato dentro la città, gli avevano tolto luce e acqua. Poi hanno raggiunto un accordo, mi pare che fosse la fine di giugno. Faceva comodo ad entrambi, anche all'esercito per far vedere che erano stati cacciati dai "musulmani". Ancona non c’era un esercito bosniaco; i gruppi che circondavano l'esercito si chiamavano "Difesa territoriale", un’organizzazione che esisteva già da prima, nelle fabbriche e in altri posti. In prevalenza erano musulmani ma c'erano anche altri con loro, in particolare croati e anche alcuni serbi. Erano armati e diretti da ex ufficiali dell’esercito in pensione.
Dal 2 maggio si sparava ogni giorno. C’erano stati grossi combattimenti vicino al ponte Bratstvo i Jedinstvo (Fratellanza e Unità). Lì vicino c'era anche l’Holiday Inn e la caserma dell'esercito jugoslavo "Maresciallo Tito". Sarajevo è molto lunga ed è larga appena tre chilometri. L’assedio dei serbi in quel punto arrivava fino al fiume, proprio di fronte alla collina della televisione. I musulmani dicevano che i serbi attaccavano in quel punto per dividere la città in due e i serbi replicavano che volevano liberare la collina perché secondo loro i musulmani avevano fatto stragi e ucciso i serbi che abitavano lì, e che erano la maggioranza. Furono combattimenti molto forti ma tutto rimase così, ognuno fermo sulle linee occupate all'inizio.
Tutto appariva strano e assurdo. Anche la gente comune sapeva in anticipo quando i musulmani avrebbero lanciato attacchi militari in qualche zona, poi però si diceva che c’erano spie con le trasmittenti o che facevano segnali ai "serbi". Quella delle spie secondo me era una scusa per cacciare via le persone non desiderate e basta. In realtà tutti potevano comunicare. C’erano anche persone che di continuo scappavano di là, e portavano anche le notizie. Di là poi venivano arruolate dai "serbi", perché anche loro facevano "mobilitazioni" come i musulmani, solo che le persone richiamate spesso, appena potevano e se avevano un po' di cervello, scappavano via lontano dalla città.
Il numero delle persone che sparavano e partecipavano ai combattimenti è stato sempre molto basso, dall'una e dall'altra parte, rispetto alla popolazione della città.
Dopo il 2 maggio tutto è cambiato. Si doveva correre dietro al cibo che non si trovava più, i prezzi erano astronomici e i negozi erano svuotati o assaltati di notte. C’erano addirittura telecamere nascoste che riprendevano questi assalti e poi li facevano rivedere alla televisione. C’erano gruppi che assaltavano negozi o case private e uccidevano. Era una situazione di "Anarchia violenta", senza nessun controllo. La polizia non faceva niente ed era divisa perché molti poliziotti erano andati dall’altra parte. Erano rimasti in prevalenza i musulmani e con il tempo presero loro il controllo. Alla fine del '93 il nuovo esercito bosniaco prese sotto il suo controllo anche l’HVO, l’esercito croato formato in Erzegovina e presente anche a Sarajevo con i suoi reparti. Qui però era un esercito dove poteva nascondersi chi non voleva fare combattimenti troppo duri, perché non mandavano mai i reparti dell’HVO al fronte o nei posti pericolosi. Anche diversi serbi si arruolavano nell’HVO e cercavano lì la loro salvezza. Poi nel '93 durante la crisi tra croati e musulmani l’HVO è stato sciolto e trasformato in una brigata croata sotto il controllo dell’Armija Bosniaca. Così a Sarajevo non c’è stata guerra tra croati e musulmani come a Mostar."

Chiediamo a Sinisa come si viveva in città in quei primi giorni di guerra, in maggio e giugno. La nostra domanda è di una banalità disarmante e anche la sua risposta appare all’inizio (ma soltanto all’inizio) altrettanto disarmante.

"Vivevo normale. Avevo dei soldi, spendevo, giravo, andavo in qualche locale, bevevo birra con gli amici e spesso si stava a casa mia, facevamo delle feste. Magari se iniziavano a sparare guardavamo dalla finestra, perché all’inizio era interessante. Io abitavo in alto e da lì si poteva vedere bene. Finché c’erano soldi era tutto tranquillo. Ogni tanto però ci facevano perquisizioni. Erano dei paramilitari che si nominavano "la Difesa territoriale". In realtà erano gruppi di giovani armatisi da soli e che si appoggiavano sotto questa sigla per poter fare quello che volevano. Venivano e dicevano che non perquisivano solo i serbi ma tutti. Ma non era vero. Si comportavano male, senza nessuna cortesia, erano arroganti, minacciavano o provocavano. Dicevano: "Se ti troviamo delle armi ti buttiamo dalla finestra". Forse avevano delle mire sulla mia ragazza. Era molto fastidioso. Una volta addirittura hanno dimenticato un kalashnikov dentro casa. L’ho trovato in un angolo del letto sotto una coperta. Cosa dovevo fare? Se uscivo con il kalashnikov in mano mi ammazzavano. Non era facile decidere cosa fare perché non potevo neanche tenerlo. Così l’ho preso solo con la punta delle dita, per il calcio, facendolo penzolare, e poi, tenendo il braccio allargato in fuori sono uscito e li ho chiamati: "Avete dimenticato questo".

Sono trascorsi pochi giorni dalle manifestazioni per la pace e tutto è cambiato, forse anche nelle coscienze, di sicuro nei comportamenti: "poi quella persona è diventata cattiva", è una delle espressioni usate da Sini1a quando descrive quelle situazioni. Cambia anche il paesaggio di riferimento, che fa da sfondo al racconto. Ciò che prima avveniva alla luce del sole, nelle strade, tra la gente, sfidando l'evidenza, ora avviene all'interno delle proprie stanze piccole e vissute da poche persone. Occorre arrangiarsi e cercare da soli le soluzioni, anche le più impensate pochi giorni prima.

"Queste provocazioni erano continue e alla fine mi sono stancato. Ho pensato di andare anch’io ad arruolarmi sperando così di essere protetto, ma non è stato semplice. Pensavo che mi mettessero in lista per poi chiamarmi più tardi, e invece mi hanno mandato il giorno stesso in prima linea, assegnandomi ad un gruppo che si trovava in un quartiere diverso e lontano da casa mia. Era il 27 giugno. Mi hanno accompagnato con l’auto e poi ad un certo punto hanno spiegato dove erano i cecchini, quali punti evitare e mi hanno fatto proseguire a piedi da solo. Non sapevo bene dove stavo andando. La linea del fronte non era presidiata in modo continuo. Se avessi voluto sarei potuto arrivare dall’altra parte, arruolarmi con gli altri e magari da lì mi sarebbe stato più facile scappare via e fuggire all’estero. Invece non potevo farlo perché in città viveva la mia ragazza con il mio cane e non potevo lasciarli. Quando ho incontrato le persone del mio gruppo non ero neanche sicuro chi fossero, se gli assediati o gli altri, perché indossavano tutti la stessa divisa verde dell’ ex-esercito federale e si distinguevano solo per dei pezzi di stoffa colorati che attaccavano sulla spalla della divisa. I "serbi" l’avevano di colore bianco e i musulmani di colore rosso, ma chiunque poteva prendere un pezzo di stoffa e attaccarlo sopra la divisa.
Poi ho riconosciuto un paio di amici, musulmani. Era già una squadra ben organizzata, tutti abitanti del quartiere, e presto erano diventati anche molto rigidi, estremisti musulmani anche se non in senso religioso. C’era lì anche quel comandante che poi durante la guerra è diventato famoso e in seguito è stato ucciso, Mu1an TopaloviÊ detto Caco. Anche lui era del Sandzak, aveva vissuto diverso tempo in Germania ed era un musicista, suonava in quei locali della Germania frequentati dagli emigranti slavi. Erano di una corrente estrema dei musulmani e ce l’avevano molto con i serbi.
Io sono rimasto lì poco. Fin dal primo giorno mi sono accorto che avevo sempre qualcuno dietro alle spalle, temevo che potessero spararmi. Mi hanno dato un vecchio fucile della Seconda Guerra Mondiale e venti proiettili, dicendomi: "Se vengono i Cetnici -loro li chiamavano cetnici- tieni l’ultimo proiettile per te, per ucciderti, perché se ti prendono vivo è peggio!" A me sembrava tutto senza senso."
"Ho subito capito che non era il caso di restare lì. C’era stata una sparatoria ma non ero riuscito neanche a sparare. Alle mie spalle gridavano: "Spara", ma non si vedeva nulla e non si capiva dove si doveva sparare. Cadevano proiettili e granate e quelle bombe che appena toccano qualcosa, anche un ramo, esplodono e fanno volare attorno le schegge. Io ero sdraiato a terra senza nessuna difesa e ho scavato con le mani e con le unghie una buca di mezzo metro mentre cadevano granate e dietro sentivo sempre quella voce: "Spara, spara".
Io non avevo la divisa; ero vestito ancora come quando ero uscito da casa. Allora ho iniziato a fingere di stare male e di avere paura, così mi hanno portato in un luogo più lontano dalla prima linea. Lì ho chiesto un permesso per tornare a casa e prendere alcune cose perché non avevo niente, neanche uno spazzolino per i denti. Però non potevo scappare. Un poliziotto mi aveva detto: "Ti conosco, ti ho già visto da qualche parte, non so esattamente dove abiti ma se scappi sono capace di ritrovarti e ammazzarti con i miei denti".
Come potevo combattere insieme a quelle persone?
Facevano di tutto per farmi sentire diverso da loro. Io ero un serbo e non si fidavano. Non mi consentivano neanche di presentarmi al comandante, un ex-ufficiale dell'esercito jugoslavo. Così un giorno l'ho aspettato davanti al suo ufficio, una baracca, e quando è uscito insieme alle sue guardie del corpo, quattro o cinque ragazzi armati, sono entrato di forza in mezzo a loro e l’ho preso per un braccio. Subito mi sono trovato davanti alla faccia tutti quei fucili, però ho subito detto: "Tu sei un ufficiale educato e devi ascoltare quello che un soldato deve dirti". Gli ho raccontato che non avevo voluto abbandonare la città insieme all’esercito federale come avevano fatto i miei, e che ora abitavo da solo e volevo fare la guerra nel mio quartiere, vicino alla mia casa. Così lui mi ha scritto su un foglio il suo parere favorevole al trasferimento. Quando mi sono presentato all'altro comando mi hanno detto che mi mettevano in lista perché ora non c’era posto. Potevo andare a casa perché mi avrebbero richiamato loro. Io ho dato il mio vecchio indirizzo, non quello attuale. Non so se sono mai andati a cercarmi nell’altro appartamento, però intanto ogni volta che veniva qualche squadra per perquisirmi io mostravo il foglio di arruolamento e non mi davano più fastidio.
Mi ha aiutato anche un mio amico, un cantante che insieme al suo gruppo aveva anche documenti speciali per muoversi in città. Erano conosciuti anche dai comandanti militari perché avevano composto canzoni dedicate a loro. Così un giorno è andato a parlare con Juka Prazina, riferendo che un gruppo di ragazzi veniva a provocarmi, e probabilmente Prazina è intervenuto. Forse voleva pian piano comportarsi come una forza militare regolare, per integrarsi, e magari per questo gli dava fastidio che quei ragazzi si comportassero così."

Nella settimana di ferragosto tutto cambia di nuovo.

"E' venuto il padre della mia ragazza e l'abbiamo aiutata a scappare. C’erano molti posti di blocco di diversi gruppi paramilitari, prima croati, poi serbi, e così via. Il quartiere di Stup era abitato dai croati e subito dietro c’era il quartiere di Ilidza, tenuto dai serbi. Stup era un quartiere industriale e all’inizio della guerra era stato occupato da un gruppo paramilitare guidato da Prazina Jusuf, detto "Juka". Un personaggio ambiguo che prima della guerra era un criminale e che poi con una cifra di duecento milioni aveva armato un gruppo e aveva chiesto di "entrare nella guerra". C’erano molte ditte in quella zona, di abbigliamento o di alimentari, e avevano bisogno di qualcuno che le aiutasse a nascondere i loro beni o venderli al mercato nero.
La mia ragazza ha dovuto superare sette posti di blocco, senza nessuna certezza. L’unica legge era quella dei gruppi armati che potevano rimandarti indietro se non gli piaceva la tua faccia o il nome sul documento. Ad ognuno dovevi lasciare dei soldi. Lei è riuscita al secondo tentativo e da lì è entrata direttamente nel territorio croato. Neanche qui però era sicuro perché c'erano gruppi croati che potevano riportarti indietro, soprattutto dopo il ‘93 quando è scoppiata la guerra croato-musulmana e se ti prendevano ti utilizzavano per gli scambi di prigionieri.
Era il 12 agosto. E’ riuscita a fuggire portando con sé il cane ed è tornata in Germania, a Berlino. L’ho rivista solo nell’autunno corso, dopo cinque anni, e il mio cane l’ho rivisto solo l’ultimo fine dell’anno.
Dopo la loro partenza sono rimasto solo. E’ stato un periodo molto brutto. Non sapevo come comportarmi perché aveva sempre pensato lei a uscire per cercare da mangiare. Ora era anche più difficile perché la città era chiusa e scarseggiava tutto. Uscivo sempre negli orari sbagliati e non trovavo nulla. Sono stato una settimana senza mangiare. Alla fine sono crollato, mi sono messo a letto e non riuscivo più a muovermi. Stavo quasi morendo così.
Poi dopo 6 o 7 giorni, non so con esattezza perché avevo perso il senso dei giorni, è passato un amico per lasciarmi il suo cane, perché doveva andare, credo, in prima linea. Aveva il cibo per il cane e alcune uova che sono state la mia salvezza. Ne ho mangiate subito alcune e ho avuto anche il male di stomaco dopo il lungo digiuno. Poi sono uscito, ho incontrato dei vicini di casa che conoscevo per averli visti una sera in un rifugio, e ho scambiato con loro alcune uova per un po’ di pane e di carne. Quei giorni a Sarajevo si stava mangiando l’ultima carne che non poteva più essere conservata in frigorifero.
Io non potevo presentarmi per ritirare aiuti umanitari. Quando ancora c’era la mia ragazza avevo chiesto di essere cancellato dalle "liste", raccontando che mi stavo trasferendo in un altro quartiere. Le liste di nomi presso i centri di distribuzione erano il modo migliore per rintracciarti o individuarti. Le persone che lavoravano lì erano state scelte bene e non a caso. Mi ero accorto che si comportavano stranamente, accentuando il loro "sentirsi musulmani", e pensavo che con il passare del tempo poteva diventare pericoloso per me essere preso di mira proprio grazie a quelle liste. Inoltre gli aiuti venivano distribuiti raramente, solo due volte al mese, ed erano scarsi: una manciata di farina, qualche scatoletta, ecc. In ogni caso qualche volta andavano per me i miei vicini, persone che io prima neanche conoscevo e ora mi aiutavano anche se io ero serbo e loro erano musulmani e croati."

Sinisa entra praticamente in "clandestinità ". In giugno si è arruolato ma ha fornito un indirizzo sbagliato, ora fa cancellare il suo nome dalle "liste" e presto si procurerà anche documenti falsi. La sua parola d'ordine è: "passare inosservati, cercare di non esistere per sopravvivere". Anzi, pian piano avrà l'impressione di farlo non solo per sé ma anche per i suoi amici, perché almeno lui possa sopravvivere e trasmettere un giorno ad altri la memoria di quanto sta accadendo.

"Io avevo molti amici, di diversa nazionalità, e mi sono consigliato con loro se era meglio per me presentarmi in qualche gruppo e non restare isolato, ma loro mi dicevano, "Guarda, è meglio che resti a casa tua: ti portiamo noi quello che ti serve". Neanche quelli che combattevano in prima linea mi criticavano perché stavo nascosto a casa, anzi sembravano contenti, come se io fossi per loro una specie di speranza, uno che poteva restare in vita e raccontare un giorno ad altri quello che stava accadendo.
Da settembre fino alla fine dell’anno ho vissuto così. I miei amici mi hanno portato anche una stufa e della legna. Ero tranquillo, guardavo la guerra dalla finestra che si affacciava sulla collina dietro al cimitero ebraico, nel luogo dove ero stato mandato in "prima linea". Era uno dei punti dove avvenivano più combattimenti. In alto c’erano le postazioni serbe e i musulmani cercavano di conquistare quella zona anche perché da lì avrebbero potuto in qualche modo circondare il quartiere di Garbavica, occupato dai serbi. Era appena ad un paio di chilometri da casa mia.
In quei mesi, nonostante tutto, non si prestava troppa attenzione alla guerra e alle granate. Forse è così finché non colpiscono te o qualche amico. Certe volte poi si stava in compagnia, si beveva e ci si ubriacava e così anche il giorno dopo restavi lì con il mal di testa e non pensavi alle granate.
Verso la fine dell’anno c’era già anche un certo traffico dei caschi blu, che per una cifra di circa due milioni di lire ti facevano uscire dalla città nascosto dentro un loro furgone o in altri modi. Con i miei amici si parlava sempre di queste possibilità di fuga: non pensavamo alle granate ma in realtà pensavamo sempre a come potercene andare. Dicevamo: "Nessuna persona normale è rimasta in città, sono tutti impazziti, ‘con il sangue alla bocca’ ".
Era difficile anche solo muoversi dentro la città. Io mi sono procurato documenti falsi, utilizzando il tesserino militare che mi aveva regalato un amico, e uscivo solo per necessità, quando i miei amici non potevano venire, oppure per andare ad un funerale.
Sono uscito anche per cercare legna, con un mio amico. La rubavamo in una caserma ma poi i soldati hanno numerato i pezzi di legna, che erano molto grossi. Così noi andavamo con pezzi di legno molto più piccoli, ci scrivevamo lo stesso numero e di nascosto li scambiavamo.
In primavera invece uscivamo per raccogliere le prime erbe, perché non c’era nulla da mangiare. In due anni e mezzo ho mangiato solo una mela portata da un amico dalla prima linea. Per sei mesi ho mangiato solo fagioli bolliti nell’acqua, una manciata appena che cuocevo in un piccolo forno costruito da me, con un bidone e dei barattoli di birra infilati assieme per il fumo. Ci cuocevo anche il pane, impastando un po’ di farina e di lievito o anche senza lievito. Veniva molto duro. Facevo fuoco bruciando anche solo pezzi di carta o di stoffa, finché ho scoperto che una mia amica aveva una videoteca e così abbiamo iniziato a bruciare le custodie di plastica delle videocassette. Puzzavano molto ma almeno faceva un po’ di caldo perché d’inverno la temperatura scendeva anche a venti gradi sotto zero.
In quel periodo ero molto debole; era un problema anche soltanto uscire da casa; quando rientravo era un problema salire tutte quelle scale; mi occorreva mezz’ora per riprendermi.
A volte arrivavano aiuti dalla mia ragazza, tramite persone di associazioni internazionali. Mettevo da parte quei soldi e li usavo solo per i casi di emergenza. I prezzi erano molti alti al mercato nero e si pagava solo in marchi tedeschi: una bottiglia di grappa costava 120 marchi, un pacchetto di sigarette 20-30 marchi, un chilo di caffè 80-90 marchi, e così le cose da mangiare. Si trattava sempre di aiuti umanitari, rubati e rimessi sul mercato nero. Qualche volta erano persone che riuscivano ad avere aiuti umanitari in più. Oppure erano i soldati che vendevano o anche regalavano, ad esempio i caschi blu vendevano stecche di sigarette marlboro, e anche i governativi ma erano altre sigarette meno buone."

In questi racconti dei primi mesi di guerra la nostra attenzione viene inevitabilmente attratta dai "caschi blu": che cosa fanno? Dalle parole di Sinisa talvolta appaiono distanti, assenti ("minacciavano di spararti addosso se non ti allontanavi dalle loro basi"), oppure sono addirittura partecipi dei traffici che si organizzano in città. Sul loro conto i Sarajevesi hanno già messo in circolazione un ironico indovinello: "E’ grande, grosso e blu e non serve a niente. Cosa è? L’Unprofor." La vita a Sarajevo comunque prosegue.

"Una volta ero a casa con degli amici. Avevamo comperato un po’ di alcol da un medico e avevamo distillato la vodka; avevamo bevuto e stavamo ascoltando musica dei Pink Floyd a volume alto. Non ci siamo accorti che la porta era aperta ed erano entrati degli uomini. Mi sono accorto io per primo: ho visto una persona tutta vestita di nero, senza nessun distintivo, con cinture di proiettili addosso, il volto coperto da un passamontagna e un grosso fucile in mano, con la canna larga e dei proiettili di nitroglicerina, quelli capaci di danneggiare anche un carro armato. Subito ho pensato di avere le allucinazioni, dovute magari alla cattiva qualità dell’alcol utilizzato; poi sono entrati altri cinque uomini, tutti col passamontagna e armati, che gridavano. Hanno spento la musica e ci hanno chiesto i documenti. I miei amici erano persone che non volevano fare la guerra. Uno era un professore di filosofia, musulmano, un altro era un croato che solo per alcuni giorni era stato arruolato con l’HVO. Ci hanno fatto alzare e ci hanno costretto a seguirli. Fuori era notte e non c’era illuminazione, era tutto buio e stavamo camminando verso i quartieri periferici. Ancora non avevamo capito chi fossero e che intenzione avessero. Forse, pensavamo, sono entrati i serbi in città e ora ci portano in un luogo appartato per ucciderci .
Invece ci hanno portato in un loro ufficio dove radunavano le persone fermate dopo il coprifuoco, per controllare i documenti e rilasciarle al mattino. C'erano anche la televisione e un videoregistratore accesi. Dopo un po’ che eravamo lì io, quasi scherzando, mi sono messo in fila con alcune ragazze, perché a quel tempo portavo i capelli lunghi ma l'ho fatto così, solo per scherzare: non pensavo certo che mi avrebbero confuso con loro. Invece, quando mi sono rivolto ai miei amici dicendo per scherzo "Io vi aspetto qui", una di quelle persone dietro alla scrivania che scriveva i nomi dei documenti mi ha gridato: "Qui non si può aspettare, vai fuori". Mi ha sbattuto fuori. Così sono uscito, quasi incredulo io stesso, e sono tornato casa."
"Quelle persone facevano parte di gruppo paramilitare chiamato "Laste-le Rondini" e si definivano corpi speciali. Avevano cognomi strani, forse erano del Sangiaccato e non di Sarajevo, e forse non conoscevano bene neanche le strade di Sarajevo. Anche prima della guerra c’erano molte persone che venivano dal Sandzak per fare contrabbando o altre attività criminali."

L’episodio delle Rondini, che si conclude in un modo quasi divertente, precede un’altra visita molto più fastidiosa e che presto assume il sapore della persecuzione.

"Un giorno bussano alla porta. Erano due giovani armati che, dicevano, dovevano fare un controllo. All'inizio pensavo che fosse vero ma poi mi sono accorto che uno teneva sempre la mano in tasca mentre l'altro mi rivolgeva strane domande. Io cercavo di evitare le provocazioni ma alla fine ho reagito bruscamente. Allora hanno estratto la pistola e hanno minacciato di ammazzarmi. Poi quando hanno saputo che avevo soldi hanno cominciato a chiedere dove li tenevo, sempre provocandomi. Mi sbattevano la pistola sulle costole e mi hanno anche messo la canna della pistola nella bocca. Si arrabbiavano perché restavo calmo ma io sapevo che era meglio non cedere alla paura o pregarli in qualche modo perché sarebbe stato peggio. Sembrava che cercassero solo la scusa per ammazzarmi "in modo pulito", dietro una mia reazione. Io restavo calmo e dicevo che avevo molti soldi ma li custodivo da un’ altra parte. Quando se ne sono andati non riuscivo a credere di essere ancora vivo. Poi sono subito scappato, attraverso gli orti e i cortili interni dei palazzi e sono andato a casa di un mio amico che viveva insieme al padre. Gli altri familiari erano scappati con il convoglio dell’ambasciata dei bambini. Mi hanno ospitato per la notte, io mi trovavo bene ma pensavo che non aveva senso restare lì e abbandonare la mia casa. E poi non volevo procurare guai anche a loro, così il giorno dopo sono tornato a casa.
Questa storia è accaduta esattamente il 2 agosto."
"Non sapevo più cosa fare quando sentivo bussare. Avevo dubbi e paura ma mi dicevo anche: "Paura di che, della morte? Può capitare anche in casa per una granata". Mille domande e mille risposte. Poi ho sentito di nuovo bussare alla porta e ho pensato: "Ecco, sono loro". Ho aperto e invece erano due ragazzi della polizia speciale di Vikic, avevano saputo della mia storia ed erano lì per proteggermi. Un poliziotto disse anche che mi conosceva, anche se io credevo di non averlo mai visto. Erano ragazzi "giusti" che credevano alla multietnicità di Sarajevo e quindi, per sentirsi "più uomini normali" non volevano che accadessero storie come queste, che mi provocassero perché ero un serbo. Dopo aprile molti giovani erano stati arruolati dal governo per ricostituire la polizia. Si sono offerti di lasciarmi delle armi o il "Motorola" ma io non le ho volute: magari se tornavano gli altri potevano accusarmi di usare il telefono per fare la spia. Poi non volevo nemmeno che la mia storia si conoscesse troppo in città. Questi poliziotti sono tornati ogni tanto per controllare e difendermi. Una volta sono stati chiusi in casa mia senza uscire per tre giorni, per aspettare quegli uomini armati che mi provocavano. Se si incontravano sicuramente nasceva una sparatoria, però alla fine sono usciti e quegli altri sono arrivati subito dopo. Non si sono mai incontrati ."
"Sono venuti diverse volte a provocarmi. Una volta non avevano chiuso la porta dietro di loro e per caso è entrata la mia vicina di casa che li ha visti. Così loro sapevano di essere stati visti e scoperti. Poi la mia vicina è subito scesa al piano di sotto a casa sua per avvertire il suocero e tornare indietro. Si sono incontrati davanti alla loro porta mentre loro scendevano le scale. I vicini hanno chiesto "come sta Sini1a " ma loro non hanno risposto nulla. Un'altra volta sono venuti in cinque. Io ero con un amico e stavamo preparando il caffè su quella piccola stufa quando abbiamo sentito il rumore dei passi per le scale. Io mi sono subito nascosto ed è rimasto solo il mio amico. Ho sentito i loro discorsi da dietro la porta, sempre con quella storia pretestuosa dei documenti.
"Un'altra volta ancora ero a casa con due amici, entrambi armati. Uno era l’autista di un ministro e aveva una pistola Beretta, l’altro era un soldato che faceva le guardie al comando della polizia speciale e aveva una pistola americana, una M38 a tamburo. Avevo con me anche un grosso cane, un Dogo argentino lasciato da un mio amico che doveva partire. Io ho riconosciuto il modo di bussare, che non era deciso ma debole, calmo, quasi viscido e provocante. Sono andato alla porta con il cane, tenendolo con un grosso guinzaglio che lo abbracciava per il corpo. Ho aperto e mi sono tirato indietro. Non c’era corrente elettrica e il corridoio era illuminato solo da una candela appoggiata sopra all'armadio. Erano tre e armati di fucile. L’ingresso era stretto, solo uno era davanti e non avevano neanche lo spazio per alzare il fucile. Parlava con una voce molto lenta, come se avesse già preso la decisione di uccidermi e si stesse solo preparando. Avevo paura e mentre tenevo stretto il cane per la cintura con un dito lo premevo sulla schiena. Il cane sentiva anche "la mia adrenalina" e si era tutto gonfiato, era teso anche perché non poteva avvicinarsi per sentire il loro odore. Il dogo somiglia ad un alano anche se è un po' più piccolo. Era bianco, aveva le orecchie tagliate e metteva paura. A Sarajevo prima delle guerra erano frequenti le scommesse sui cani da combattimento e anche per questo i cani erano temuti. L’uomo armato fingeva di non aver paura del cane ma non entrava. Mi diceva "avvicinati" e io gli rispondevo "vieni tu vicino", ed è continuato così per un po'. Si sono affacciati anche i miei amici, chiedendo "va tutto bene?"
Però loro non se ne andavano, anzi vedevo il primo davanti che iniziava a sollevare il fucile e allora gli ho detto: "Quanto pensi che ti ci vuole per sollevare il fucile per bene?" Gli altri dietro di lui correvano solo il rischio di spararsi uno con l’altro. Io continuavo: ti bastano dieci secondi?" E sembrava quasi che lui contasse mentalmente. Poi se ne sono andati."
"Questa storia è durata da agosto fino all'inizio di dicembre, quando il Governo ha preso Mu1an TopaloviÊ, detto Caco. In quel periodo il governo voleva mettere un controllo alle varie bande paramilitari e così c’è stata una sparatoria. Era con lui Ramiz Celo, lo stesso della sparatoria del matrimonio. Lui però si è arreso subito, mentre Caco è stato circondato e ha sparato uccidendo sei o sette poliziotti che ora hanno la tomba lì, in via Daniela Ozme, vicino alla via Kralj Tamislav. Poi si è arreso e mentre lo trasportavano via il padre di uno di quei ragazzi uccisi lo ha bloccato e ha lanciato dietro, dove si trovava lui, una bomba e lo ha ucciso per vendetta. Con questa storia il suo gruppo paramilitare si scioglie, come avviene anche per altre bande a Sarajevo, e così finiscono per il momento anche i miei guai."
"A Sarajevo nel '93 c’erano molti di questi "corpi speciali", uno per ogni quartiere. Poi alla fine dell’anno il governo ha cercato di metterli sotto controllo ma alcuni si sono rifiutati. Ad esempio anche Jusuf Prazina detto "Juka", che criticava fortemente il governo anche nelle interviste televisive. Sosteneva di rappresentare anche altri comandanti e che era possibile aprire la città e sfondare l’assedio, mentre il governo era contrario. Verso la fine dell'anno c’è stata anche uno scontro militare tra lui e le forze governative, sul monte Igman. Poi Juka è andato via e si è messo con i croati durante la guerra in Erzegovina, cambiando anche il nome in Josip. Più tardi è dovuto andare via anche dall’Erzegovina. Lo scorso anno hanno trovato il suo cadavere in Belgio ma era quasi irriconoscibile e c’è chi sostiene che in realtà non si tratta di lui."
"Nel 1994 c’è un maggiore controllo del governo bosniaco e da gennaio inizia anche, fino a settembre, un periodo senza grossi combattimenti, c’erano solo i cecchini e pochi lanci di granate: sembrava che stesse arrivando la pace."

"Sembrava che stesse arrivando la pace, c'erano solo i cecchini e pochi lanci di granate", commenta Sini1a. Sembra quasi una routine senza emozioni eppure in quel periodo a Sarajevo c'erano mediamente uno o due morti al giorno e diversi feriti. Ciò che in nessun luogo sarebbe normale, qui sembra preludere alla pace. Ancora non sanno che la guerra sta solo attraversando un periodo di assestamento e presto riprenderà più dura di prima, fino a tutto il 1995. Qui intanto si riprende a uscire, invitati anche da una primavera che arriva precoce e regala in anticipo un po' di sole a chi ha trascorso l'inverno bruciando stoffe e plastiche per scaldarsi. E anche qualche bel ciocco di legno numerato dall'esercito. Adriano Sofri, in uno degli articoli scritti in quel periodo per l'Unità e raccolti poi nel libro "Lo specchio di Sarajevo", edito da Sellerio, racconta addirittura di una mostra d'ingegnosità di guerra nel centro artistico di Skenderjia: stufe, stufette, cucine, surrogati di candele, batterie a pedale di biciclo, indumenti ricavati dai teli di plastica dell'Onu. Un insieme di folklore e di necessità, con oggetti sempre pronti a tornare in uso.

"In quel periodo veniva molta gente a casa mia e piano piano anche io mi sono incoraggiato e ho iniziato a uscire e a organizzare feste anche a casa di altri amici, sempre all'interno di quel quartiere però. Così hanno iniziato anche a diffondersi voci su di me come organizzatore di feste. Era una situazione molto particolare perché a Sarajevo la normalità era che la gente si chiudeva in se stessa, non usciva e restava isolata. Invece per me e i miei amici era il contrario e così anche gli stranieri cercavano di entrare in contatto con noi. Ci fu una coppia di francesi che mi mandò una cassa di birra: era un avvenimento perché allora era difficile trovare anche una sola lattina. Una volta abbiamo trovato una coca cola e l’abbiamo tenuta lì, prima di berla, per una settimana: la guardavamo. Così, ricordo che era il periodo del ramadan, in febbraio, ho conosciuto questi francesi e li ho invitato a casa mia. Abbiamo fatto amicizia, venivano a trovarmi e dopo mi hanno anche proposto di lavorare con loro. Per me era una grande novità ma non volevo neanche farmi notare troppo, inoltre non avevo documenti regolari ma anche per questi hanno pensato a tutto loro, procurandomi falsi documenti con i quali fingevo di essere stato a Tuzla e non a Sarajevo in quei due anni.
Così dal mese di marzo ho lavorato come magazziniere e alla distribuzione degli aiuti umanitari con l'Association international contre le fame, che aveva diverse sedi in Bosnia. Con il lavoro la mia vita è cambiata totalmente. Avevo soldi e si poteva anche uscire di più perché era un periodo più calmo in città; con loro ho fatto anche altri lavori e sono anche andato verso e oltre le prime linee."

Quando tutto sembra riavvicinarsi ad un modo di vita un po' più normale, il finale di Sini1a a Sarajevo riserva alcuni colpi di scena, improvvisi, teatrali, e anche risolutivi. Questa volta non lo sbattono fuori subito come avevano fatto quei falchi delle Rondini -"se ne vada per favore"- ma gli prendono le misure addosso per un'intera settimana.

"In agosto, esattamente dall’8 di agosto, le cose sono cambiate di nuovo e in peggio. O forse è stato meglio così, non so. La polizia mi ha arrestato accusandomi di essere un contrabbandiere e un sacco di altre cose. Per i poliziotti io ero in ogni caso una persona che aveva soldi e guadagnavo molto di più di loro, che ricevevano appena due o tre marchi al mese. Inoltre avevo la possibilità di comprare cose a prezzi normali, e quindi molto più bassi di quanto accadeva a loro, anche se in quei mesi il mercato nero si era un po' ridotto e i prezzi erano un po' meno assurdi. Mi capitava anche delle volte di regalare pacchetti di sigarette o altre cose a persone che conoscevo, e che poi magari non le consumavano ma le rivendevano ad altri. Però le accuse della polizia erano davvero assurde. Inoltre mi hanno maltrattato molto in quei giorni e non mi hanno neanche chiuso in una vera cella; mi tenevano ammanettato ad un termosifone lungo il corridoio e chiunque passava mi picchiava, mi dava un calcio o un pugno. Mi hanno rotto le ossa del torace, mi hanno fratturato il naso e anche l’anno scorso ancora ho dovuto subire due interventi chirurgici per risistemare l’osso del naso. Mi tagliavano sulla faccia e sulla testa. Urlavano e parlavano sempre e io non riuscivo neanche a rispondere o a pensare. Mi dicevo sempre "adesso smetteranno" e invece hanno continuato per qualche giorno, non so nemmeno con esattezza perché avevo perso il senso del tempo e tuttora mi è molto difficile ricordare, sono rimasti come dei buchi nella memoria. Ad un certo punto ho iniziato a dire che volevo parlare e raccontare tutto. Infatti loro mi dicevano sempre: "Raccontaci tutti i tuoi traffici, i tuoi complici, i legami che hai con i serbi e cosa c’entrano i francesi con i serbi". Ma la mia confessione era già pronta per intero e scritta da loro. Io però volevo parlare solo con il loro capo e alla fine ci sono riuscito. Mi ha fatto entrare nella sua stanza. Lui era con i piedi sul tavolo. Mi ha fatto sedere, tutto cortese, mi ha offerto una sigaretta. Sembrava la scena di un film -questa volta è Sini1a che usa questa espressione-. Io allora l'ho provocato dicendo che i miei amici sapevano bene dove ero stato portato e mi avrebbero cercato, inoltre ho detto che......

Lui ha iniziato ad urlare tutto arrabbiato e poi........

Mi hanno fatto uscire, credo, dopo una settimana. Allora i miei amici mi hanno offerto di tornare con loro, con nuovi documenti........... Ma io avevo paura perché mi avevano minacciato in un modo molto chiaro, dicendomi che se mi vedevano davanti ad un ufficio pubblico mi avrebbero ucciso sul posto.

Sono partito da Sarajevo grazie all'aiuto di un ufficiale dei caschi blu che avevo conosciuto in quegli ultimi mesi e che mi ha fatto salire sul primo aereo dell’Unprofor che partiva per Falconara. Era il 16 agosto del 1994.

Sono ritornato diverse volte a Sarajevo, anche pochi giorni fa, ma vorrei non tornarci più. Ora mi sto preparando a lasciare l’Italia per trasferirmi negli Stati Uniti, grazie all'aiuto di quegli amici francesi con cui sono rimasto sempre in contatto. Voglio andare molto più lontano da Sarajevo perché qui mi sento ancora vicino e non resisto ogni tanto dal tornarci, però ogni volta che vado mi viene addosso molta tristezza e non ne ho più voglia.

Sinisa si è trasferito negli Stati Uniti qualche settimana dopo questa lunga chiacchierata. Per salutare i molti amici conosciuti in Italia ha organizzato una lunga festa notturna ricca di musica e di birra, sulla spiaggia di Falconara, a poche centinaia di metri dall’aeroporto dove era arrivato ancora intontito dalle botte poco meno di quattro anni prima. Di nuovo lunghi abbracci e pianti di addio, per separarsi e partire ancora senza nessuna idea di un qualche ritorno.



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