La storia
di Suad
La seconda scossa di terremoto arriva alle 19, quando stiamo concludendo la nostra chiacchierata. Ci troviamo a Cerreto d’Esi, a casa di Suad e Seila, al terzo piano di un palazzo che amplifica abbastanza bene gli scossoni della terra che qui, tra Marche e Umbria, a partire dal mese di settembre del 1997 hanno causato tanti problemi. Un’altra scossa, ancora più brusca, ci aveva interrotto a metà pomeriggio, ricreando la stessa atmosfera di 6 mesi prima: "Anche noi abbiamo dovuto dormire per una quindicina di giorni in auto, con Seila che era in stato interessante". Anche il terremoto purtroppo s’intreccia con la storia di molti bosniaci che vivono dalle nostre parti. "Abbiamo dovuto rifare le valigie e andarcene come quattro anni fa", ci diceva ad esempio Fadila, che tra le altre cose ci aveva anche raccontato di una scossa di terremoto a Mostar, proprio mentre erano nascosti in un rifugio sotto terra, durante un bombardamento di granate. Comunque, nonostante le difficoltà della serata, la nostra chiacchierata prosegue tranquilla. Suad è un ragazzo alto e robusto; all’inizio ci ha chiesto di spiegare per bene le nostre intenzioni: alcune precedenti esperienze negative, con interviste e documenti visivi da lui messi a disposizione, di cui non ha saputo più nulla, lo hanno reso diffidente. Poi, dopo i chiarimenti, ha iniziato il suo racconto.
"Io ora ho ventisette anni. Nel ‘92 ne avevo 21 e facevo quello che fanno tutti i giovani di Sarajevo. Andavo in discoteca, giocavo a calcetto due o tre volte alla settimana. Lavoravo in proprio, facevo trasporti nei mercati con un furgone, ero impegnato la mattina presto dalle 4 fino alle 8 o alle 9 e poi ero libero. Anche i miei genitori e mio fratello svolgevano un'attività privata come rappresentanti di musicassette. In quegli anni in Jugoslavia era permesso avviare attività private. Con il nostro lavoro abbiamo costruito una casa nel centro di Sarajevo che ancora è di nostra proprietà, e un'altra casa in Dalmazia, vicino Makarska, per le vacanze. Mio padre e mia madre sono andati ad abitare lì all'inizio della guerra e ancora vi abitano. Io e mio fratello invece siamo rimasti a Sarajevo per combattere.
Io sono musulmano. Mia moglie ha un genitore croato e un genitore musulmano. Prima della guerra però non si badava a queste differenze. Non ti chiedevi mai se uno era cattolico o ortodosso, come purtroppo si fa ora. Prima erano tutti comunisti e nessuno metteva avanti la religione. Ora tutti hanno cambiato mentalità. La politica è così: tutti cambiano velocemente e si adeguano alle nuove situazioni. La guerra ci ha cambiati. Anche la mia vita è cambiata di colpo. Dalla discoteca, dal calcetto, dal passeggio, all'improvviso mi sono ritrovato "soldato".
La guerra arriva improvvisa e sgradita e al tempo stesso non arriva imprevista. Dal mese di ottobre del 1991, mentre sono in corso i combattimenti a Vukovar e in altre zone della Croazia, Suad viene contattato da un amico e accetta di entrare a far parte di un’organizzazione di volontari promossa da Enver SakiÊ detto "Eno". Secondo lui, "il primo comandante", che è stato a Vukovar e ha visto, la guerra non potrà risparmiare la Bosnia. Non ci si può illudere. Così promuove questo movimento, vende ciò che ha o comunque in qualche modo realizza del denaro e acquista un bel po' di kalashnikov. Suad aderisce. Il gruppo, che più tardi sarà conosciuto come "Zelene Beretke-Berretti Verdi", raggiunge presto qualche centinaio di persone e si organizza in squadre. La squadra di Suad si riunisce nella scuola "Moris Moco Salom": parlano, discutono, guardano filmati su Vukovar o altre situazioni. Continuano anche a sperare che la guerra non arrivi. Al di là delle riunioni e dei filmati, e delle preoccupazioni, la vita che scorre attorno a loro in città è ancora del tutto normale. L'ultima domenica di ottobre è una bella giornata di sole, quasi estate, e il centro di Sarajevo è invaso da alcune migliaia di persone che vengono da vari paesi europei per manifestare a favore della pace.
Si uniscono a loro anche diversi cittadini di Sarajevo. Alla fine, come in ogni manifestazione tranquilla, tutti si dirigono qua e là lungo i caffè e i ristoranti del centro storico, a godersi quelle ore lungo quella passeggiata che scorre via tra le moschee, le cattedrali, i palazzi in stile viennese e le vetrine dei negozi delle basse case della Ba1Ëar1ija, la città vecchia, dove chi viene "dall'occidente" abbandona per un po' la sua proverbiale fretta e sorseggia un "caffè alla turca".
Nelle vetrine di diversi negozi si vedono in mostra carte politiche della Bosnia, con la suddivisione dei vari distretti amministrativi, dove per ogni distretto viene riportato un istogramma colorato con le proporzioni percentuali delle varie "etnie": croati, serbi, musulmani, ebrei, albanesi, italiani, rom, eccetera. Tanti istogrammi uno accanto all'altro e tutti mescolati. Ancora pochi mesi ed ecco che in aprile la guerra scoppia davvero. Nulla l'ha fermata.
"Il 5 aprile, domenica, era una giornata di festa. I cinema, i bar e i ristoranti funzionavano normalmente. Il 6 aprile era il primo giorno del Bajram, la più importante festa musulmana. KaradæiÊ aveva già detto in uno dei suoi discorsi in Parlamento che ci sarebbe stato un Bajram di sangue per i musulmani. Io sono stato svegliato alle 5 di mattina, la città era già bloccata. Sono andato subito all'appuntamento con la mia squadra, formata da circa 40 persone. In tutta la città eravamo appena 200 o 300 "soldati". Anzi, volontari. Ci siamo informati e subito abbiamo eretto barricate e posti di blocco attorno al centro.
Più tardi è venuto da noi il comandante Vikic, della polizia speciale, che ci ha detto: "Va bene, andiamo a parlare con il Presidente; sentiamo se lui dice che dobbiamo abbandonare le barricate appena fatte oppure no". Anche il nostro "comandante" aveva parlato con il Presidente e altri membri della Presidenza. Avevano risposto di stare calmi: ma cosa poteva fare la politica in quel momento? Era impotente. Tutti noi, io stesso, avevamo sperato e speravamo ancora in un aiuto degli Stati Uniti e degli altri paesi, ma poi ci siamo accorti che nessuno veniva ad aiutarci. Gli aiuti sono arrivati solo quattro anni più tardi, dopo che il macello c'era stato e quando la Bosnia finalmente si era riorganizzata e disponeva di un proprio esercito di 300 mila soldati, e quindi, dopo aver resistito, era oramai in grado di vincere da sola e cacciare via le milizie serbe che avevano diviso il paese. Solo allora la comunità internazionale è intervenuta e così la Bosnia è rimasta divisa. Nel 1992 eravamo soli. Allora sono arrivati in città professionisti serbi, pagati per sparare e uccidere. Anche a Sarajevo c'erano scuole speciali di polizia che addestravano i tiratori scelti.
Quel giorno in un quartiere di periferia avevano sparato e ucciso. Noi abbiamo provato ad avvicinarci per capire cosa stava succedendo, chi stava sparando e a chi. Erano venuti con noi anche i poliziotti della "polizia speciale", con due auto blindate.
Siamo stati sempre insieme in quei primi giorni. Prima della guerra il corpo della polizia speciale era di circa 40-50 uomini. Poi dopo il 6 aprile i serbi se ne erano andati e così erano rimasti solo una ventina di poliziotti. Troppo pochi per fare qualcosa da soli. A differenza di noi loro erano professionisti che avevano condotto operazioni contro la mafia e la criminalità. Ma la lotta contro il crimine è qualcosa di diverso e ciò che stava accadendo era una novità anche per loro. In quei giorni abbiamo sempre operato insieme e si era instaurata anche una certa amicizia.
Ognuno di noi aveva una trasmittente con cui ci tenevamo sempre in contatto. Potevamo ascoltare anche ciò che dicevano quelli che erano andati dall'altra parte e che sparavano contro di noi. Un poliziotto aveva parlato con un suo ex-amico, ora dall'altra parte, e avevano iniziato a discutere e poi a litigare, scambiandosi parolacce. Era questa la situazione in quel momento.
Quel giorno siamo riusciti ad entrare in una scuola della polizia speciale di Sarajevo, dove i serbi non erano ancora andati, e abbiamo preso tutto quello che era rimasto dentro. Era un grande rischio andare. Non sapevamo se i serbi ci aspettavano dentro o meno.
Poi ci siamo recati anche presso un magazzino della Protezione Civile presidiato solo da 10 soldati, però è intervenuto subito il Presidente IzetbegoviÊ, che ha detto: "Non si può prendere nulla, altrimenti scoppia un conflitto tra noi e l'armata federale e questo non lo vogliamo". La situazione era ancora tale che non si capiva cosa avrebbe fatto l'esercito federale. Era come se non ci fossero due ma tre parti: noi, gli "altri" che ci sparavano e non capivamo chi esattamente fossero, e poi il "nostro" esercito federale che però non si capiva da che parte stava.
La gente di Sarajevo non poteva credere che quell'esercito non era più il nostro. Il generale Kukanjac, comandante della piazza di Sarajevo, aveva detto alla televisione: "Noi non spareremo mai alla nostra gente: finché ci saremo noi in città nessuno sparerà alla nostra gente". Poi piano piano le cose sono cambiate. Prima dei fatti di aprile c'erano state delle grandi manovre militari sulle montagne attorno Sarajevo. La gente si chiedeva a cosa servissero. Erano andati anche dei giornalisti a chiedere e i militari avevano risposto: "Sono normali esercitazioni per tenere addestrati i soldati. Non accade niente di strano". Dopo il 6 aprile abbiamo capito che durante quelle manovre in realtà avevano costruito le trincee, le postazioni per l'artiglieria e le mitragliatrici, gli alloggi per i soldati, le cucine, tutto. Il piano di accerchiamento era pronto da tempo.
Noi in quelle prime settimane abbiamo fatto delle pressioni sul governo per mandare via dalla città l'esercito federale, di cui non ci fidavamo. Alla fine se ne sono andati, verso i primi di maggio. Avevamo raggiunto un accordo. Noi ci impegnavamo a non disturbare la loro uscita dalla città, e loro in cambio dovevano lasciare tutte le loro cose nelle caserme. Invece se ne sono andati portando via tutto. Quello che non potevano portare lo hanno distrutto. Inoltre non hanno lasciato tutte le caserme ma sono rimasti ancora per qualche tempo nella caserma "Maresciallo Tito" e in un'altra qui in centro, dove c'era la sede del comando. Siamo stati ingenui."
La confusione è grande e si ha l'impressione che sia alimentata, più che dal sovrapporsi di avvenimenti contraddittori, anche dallo sconcerto del venir meno dei vecchi punti di riferimento. C'è ad esempio un libro ("Diario di Maya" di Nenad VeliËkoviÊ) che inizia così: "Da aprile Sarajevo la si ricorda per una sola cosa: la guerra. Anche se nessuno è d'accordo sulla sua data d'inizio (mi ricordo la conversazione con Davor nella sua macchina: Davor aveva detto che l'esercito era ai confini; Sanja aveva chiesto: "quale esercito?" e io: "a quali confini?"), ufficialmente questa data è stata stabilita nel 4 di aprile." Gli avvenimenti precipitano. In quei primi giorni si susseguono, il 6 e il 7, il riconoscimento della Bosnia Erzegovina da parte dell'Unione Europea e degli Stati Uniti, e la proclamazione dell'indipendenza della "Repubblica Serba di Bosnia"; l'8 aprile 1992 IzetbegoviÊ dichiara lo stato d'emergenza sull'intero territorio della Bosnia-Erzegovina; il 27 aprile a Belgrado viene proclamata la Repubblica federale di Jugoslavia formata da Serbia e Montenegro; il 6 maggio, in assenza dei musulmani, serbi e croati firmano a Graz in Austria una dichiarazione sulla spartizione della Repubblica di Bosnia-Erzegovina; il 22 maggio Slovenia, Croazia e Bosnia-Erzegovina vengono ammesse alle Nazioni Unite. Il 27 maggio a Sarajevo arriva la prima vera strage, conosciuta come "Strage del pane": 23 persone in coda per il pane vengono uccise da un colpo di mortaio; i feriti sono 150. All’inizio di giugno si stimano già in tutta la Bosnia circa 7.500 morti e 22.000 feriti, di cui l'80 per cento civili e 1.100 con meno di 15 anni; gli sfollati sono già circa un milione. Nel '95, alla fine del conflitto, su una popolazione iniziale di 4 milioni e mezzo circa di abitanti, quasi il 50% risulterà sfollata, mentre i morti si stimano attorno alle 150 mila unità e i dispersi in circa 30 mila. Tuttavia, nonostante il delinearsi dei "fronti", in quelle prime giornate di aprile la situazione appare estremamente caotica a chi la vive dall'interno.
Prosegue così il racconto della prima giornata di guerra di Suad.
"I serbi erano rimasti male il primo giorno perché non si aspettavano nessuna reazione e non riuscivano a capire quanto eravamo organizzati. Anche per loro era difficile valutare la situazione e così non se la sono sentita di attaccare subito la città per assumerne il controllo. Se lo avessero fatto sarebbero entrati facilmente perché noi eravamo ancora troppo deboli. Le cose invece sono andate diversamente. Noi abbiamo anche bleffato. Eravamo organizzati in circa quindici gruppi, ci siamo mossi molto velocemente tenendoci sempre in contatto. Avevamo una specie di centrale che ci guidava e dava le informazioni, indicava alle squadre dove andare e come muoversi e faceva finta che ci fossero molte più squadre di quante erano nella realtà, oppure che le squadre fossero più numerose e composte da veri soldati professionisti. Abbiamo fatto "disinformazione" per ingannare gli "altri" che si preparavano ad attaccarci.
La guerra non si combatte solo con le armi ma anche con le informazioni e con l'astuzia.
Durante quei primi giorni abbiamo realizzato subito una linea difensiva attorno tutta la città, lunga circa 30 chilometri. Una linea ancora incerta, non precisa, ma che delimitava già con chiarezza dove dovevamo sistemarci. Poi con il tempo e l’esperienza l'abbiamo completata, con tunnel, passaggi, trincee, camminamenti, rifugi per le emergenze. I serbi non potevano mai vedere quanti eravamo.
In quei giorni di aprile però, mentre già si sparava, in altri quartieri molte persone non si erano accorte, o non volevano accorgersi, e si comportavano come se nulla stesse accadendo. Dicevano: "Sparano solo laggiù, in periferia, ma qui in centro non può succedere niente".
Nei primi giorni l'accerchiamento della città non è ancora totale e chi vuole riesce ancora ad uscire. Così, insieme a tanti altri, se ne vanno anche i genitori di Suad.
"Quando i miei genitori sono scappati ancora si poteva uscire. C'era già divisione in città e anche la polizia era divisa. Io sono andato ad accompagnare i miei genitori. Siamo stati fermati a un posto di blocco di sola polizia serba, hanno controllato i nostri documenti e hanno chiesto ai miei genitori dove andavano. Loro hanno riposto: "in Croazia" e i poliziotti li hanno lasciati uscire. Anch'io potevo uscire, se volevo. I serbi forse non volevano ancora "scoprire tutte le loro carte" e così l'accerchiamento non era totale e rigido. Dopo invece, dal mese di maggio, la linea di accerchiamento era più definita, con postazioni e posti di guardia presidiati in permanenza e non è più uscito nessuno. E poi si iniziava a sparare sempre di più con i cecchini che miravano a tutto, alle persone e alle auto lungo le strade. Occorreva fare attenzione, non si poteva camminare adagio o transitare nei posti sbagliati."
I gruppi dei "berretti verdi" non si limitano a seguire la situazione e organizzare le "linee del fronte". Quando possono prendono l'iniziativa per occupare luoghi importanti o entrare in possesso di armi o altri materiali. Suad ci racconta una storia che avevamo già raccolto e che riguarda il cimitero ebraico. Questa coincidenza di luoghi ci offre lo spunto per ricordare che accanto a musulmani serbi e croati e famiglie miste, a Sarajevo era presente anche una significativa comunità di circa 1.200 ebrei. Si trattava di sefarditi fuggiti esattamente 500 anni prima dalla Spagna e accolti qui dalle autorità ottomane, ai quali poi si sono aggiunti nel tempo ebrei askenazi provenienti dall'Europa orientale. Durante la guerra anche un’associazione ebraica, chiamata La Benevolenija, ha organizzato aiuti e convogli per far fuggire più di 3.000 persone, e non solo ebrei dunque, "celebrando" in questo modo il cinquecentesimo anniversario della cacciata dalla Spagna, in contemporanea alle celebrazioni "occidentali" della scoperta dell’America. In alcune occasioni sono giunte a Sarajevo anche sottoscrizioni congiunte di cittadini israeliani e palestinesi, come pure un migliaio di bosniaci sono stati accolti in Israele presso il kibbutz di Deth Orem.
Il cimitero ebraico si trova in una bella posizione panoramica in collina, e nella storia è stato da sempre anche un luogo di ritrovo delle persone, dove fumarsi una sigaretta in compagnia. Ora, in questo aprile del 1992, le case su questa collina diventano un buon punto di osservazione per i cecchini, e dunque bisogna rimediare.
"In quei primi giorni abbiamo fatto un'importante azione militare vicino al cimitero ebraico, in un quartiere che si trova in alto, formato da case basse di uno o due piani e abitate tutte da serbi. Era un buon posto per i cecchini perché da lì avevano una vista diretta verso il centro. Noi eravamo circa 50 quel giorno, abbiamo fatto un rastrellamento e trovato tante armi. Le case erano quasi tutte vuote ma in ognuna c'era almeno un fucile. In una casa c'era una tazzina di caffè, vi ho messo dentro un dito e ho sentito che era ancora caldo. Gli abitanti erano scappati, impauriti dalla loro stessa propaganda per farci odiare di più, con racconti sui musulmani che venivano armati di coltello per fare stragi, tagliare teste e uccidere tutti. Così non c'è stato molto da combattere. Quando fai un rastrellamento devi essere attento. Non puoi lasciarti alle spalle nessuna casa non controllata perché potresti essere attaccato alle spalle e ucciso. Così anche se hai paura devi sempre entrare e controllare ogni stanza, anche se non sai cosa ti aspetta. Tutta la linea del rastrellamento deve muoversi insieme. Quando noi prendevamo un cecchino, in quell'occasione come in altre, lo arrestavamo e lo portavamo alla nostra polizia, che faceva l'indagine e lo trattava come un comune criminale, non come un soldato perché non era soldato di nessun esercito. Noi non facevamo nessun processo sommario sul posto e non ammazzavamo, seguivamo la legge e non ci sostituivamo al tribunale.
L'occupazione di quel quartiere era importante perché toglieva un buon posto ai cecchini e consentiva anche di circondare il quartiere serbo di Garbavica. Da lì eravamo anche vicini alla scuola di polizia dei serbi e a quel punto i poliziotti sarebbero stati costretti o ad arrendersi e uscire fuori con le mani in alto, oppure a combattere in una situazione di svantaggio per loro. Poi però quando eravamo già lì, è arrivato l'ordine del "Governo" di abbandonare il quartiere appena conquistato. Noi abbiamo ubbidito.
Non ho mai capito il perché di quell'ordine, me lo sono chiesto tante volte ma non ho trovato mai la risposta. Poi i musulmani non sono più riusciti a entrare in quel quartiere durante tutta la guerra. Noi eravamo arrivati lì al mattino e alla sera alle sei ci hanno ordinato di ritirarci. Quel giorno anche il nostro nuovo comandante Mustafà Zulic detto "Mujo" è rimasto ferito, insieme ad altri dieci di noi; per fortuna nessuno è morto.
In quei primi giorni c'erano diverse persone che volevano aggiungersi a noi ma non potevamo farli venire perché non avevamo armi da distribuire a tutti. Qualche volta qualcuno veniva con te, ti stava dietro durante un'azione e se magari trovavi un fucile glielo davi. Però era rischioso avere persone disarmate, e con poca esperienza, vicino a te. Dopo invece nei mesi successivi è stato organizzato un regolare esercito bosniaco, con soldati obbligati e non più volontari come noi. Però capitava anche che durante le azioni molti scappavano via, perché erano ragazzini. Da noi, invece, in quei primi giorni era diverso."
L'esperienza cresce in fretta, bastano pochi giorni per acquisire una maturità e una padronanza di sé di gran lunga maggiore degli altri. Il nostro Suad ha ventun anni e già i suoi coetanei gli appaiono senza ombra di dubbio dei ragazzini che hanno risposto mal volentieri alla chiamata di leva e al primo scoppio di granata fuggono a casa perché la guerra è brutta. Nella guerra si cambia, non si è più gli stessi. Chi prima era ricco o aveva potere poi magari non conta più niente. Tutto si modifica. "Io -dice Suad- avevo poco più di venti anni ma ero comandante di squadre composte anche da persone di 40 o 50 anni, davo ordini a loro perché per le cose che c’erano da fare ero io ad avere più esperienza".
Di solito "loro" prima di attaccarci frontalmente bombardavano con l'artiglieria. Noi stavamo nascosti nei rifugi sotto terra fino a che il bombardamento non cessava; allora uscivamo fuori per aspettarli perché sapevamo che stavano arrivando. Se c'erano troppi morti e non riuscivano a passare, iniziavano a bombardare dietro noi, verso la città. Era sempre così, quando noi resistevamo loro bombardavano la città per colpire i civili in fila per l'acqua o per il pane. Ogni volta che perdevano con noi ne pagavano le conseguenze i cittadini di Sarajevo. Questa era la loro politica. KaradæiÊ lo andava ripetendo alla radio: "Voglio più carne sulle strade".
All'inizio, nel mese di aprile, ho fatto molti turni di guardia di notte. Più tardi, quando è stato organizzato l'esercito della Bosnia, mandavano i soldati a fare le guardie. Noi eravamo un corpo speciale e ci chiamavano quando c'era da fare qualche azione importante. Poi, quando avevamo conquistato la posizione, venivano i soldati a occuparla.
All'inizio invece toccava a noi presidiare la linea difensiva attorno alla città. "Gli altri" avevano minato la loro parte di linea. Noi ci arrangiavamo. Avevamo messo semplicemente un filo di ferro e ci avevamo attaccato barattoli vuoti di conserva. Se uno li urtava faceva rumore. Di notte quando stavamo lì, tre di noi dentro ogni buca e ogni buca distante qualche decina di metri una dall'altra, il buio era assoluto e non si vedeva nulla. Appena sentivamo un rumore qualsiasi, sparavamo il più in fretta possibile, senza neanche sapere se avevamo colpito qualcuno oppure no, perché non si poteva uscire fuori per guardare. Era sempre così, quando sentivi sparare non capivi neanche da che parte sparavano e quanti e contro di chi. Certe volte i morti si ammucchiavano, anche tanti e restavano lì per giorni. Quando c'era un attacco in un punto lungo la linea sapevi che poi, per tre o quattro notti di seguito, "loro" tornavano, anche per cercare di portare via i loro morti. E quindi ogni notte c'era da sparare di nuovo. I morti restavano lì anche diversi giorni e sentivi la puzza terribile dei cadaveri. Certe notti e certi giorni la puzza era così forte che diventava insopportabile. Poi c'erano in giro anche i cani, affamati e del tutto inselvatichiti, che andavano in cerca di cadaveri per mangiarli. Era uno spettacolo orrendo. Quando i cani si avvicinavano troppo toccava sparargli addosso e ucciderli perché erano pericolosi. In quei primi giorni ci siamo trovati in queste condizioni. Poi sono arrivati i soldati del nuovo esercito a fare le guardie. Io poi per un periodo ho anche fatto parte della guardia personale del Presidente. Dormivamo tutti insieme nel palazzo che ora è la sede del Parlamento. Io dormivo a terra in un corridoio. Ricordo il Presidente e gli altri membri del governo che vivevano e dormivano lì per terra, accanto a noi, con tutti i loro effetti personali in una valigia."
Il Presidente e la "politica". Il racconto che ascoltiamo non è un reportage di guerra o una ricostruzione storica, appare piuttosto come un insieme di ricordi personali e di situazioni che a distanza di anni assumono quasi il carattere della leggenda: IzetbegoviÊ che appoggiato in angolo di quelle sale si tira fuori il pigiama dalla valigia e poi va in cerca di un divano per trascorrere la notte. Che cosa poi realmente la "politica" costruisca durante il giorno, quali reti di contatti realizzi e disfi in quell'intrico di situazioni, fa parte forse di un'altra storia. Il racconto di Suad non contraddice l'immagine di una guerra "non" dichiarata, di avvenimenti guerreschi che è difficile dire con precisione quando iniziano e che s'intrecciano, sempre come un unico filo, con la "ricerca del dialogo". La trattativa permanente, a cui per quattro anni si adegueranno anche tutte le varie missioni internazionali, con gli incontri qui o a Ginevra, le loro conferenze stampa, le promesse vuote, i giri di parole insensati e solenni al tempo stesso, le interviste che si svolgono parallelamente ai bombardamenti di granate e al tiro all'uomo dei cecchini. Nei primi giorni di guerra il Presidente viene addirittura "arrestato" da KaradæiÊ e dai suoi uomini, le "Aquile Bianche-Bijeli Orlovi", e perfino questo "arresto" non si presenta subito chiaro e nitido. Sembra quasi che il Presidente stesso non stia comprendendo quello che gli accade e non si accorge subito di essere "stato arrestato".
"Il Presidente è stato arrestato da "loro" all’Aeroporto. Era appena ritornato da un incontro avuto a Ginevra con i rappresentati della comunità internazionale. E' accaduto in modo tranquillo e sotto agli occhi dei soldati dell’ONU. Si sono avvicinati alcuni "miliziani" guidati da KaradæiÊ e lo hanno invitato a seguirlo: "Presidente, venga con noi che la proteggiamo, perché la situazione è diventata pericolosa qui in città". Il Presidente non capiva e continuava a chiedere: "Ma chi siete, cosa state facendo?", e intanto li ha seguiti, lui e la sua guardia del corpo. La confusione era troppo grande; nessuno è intervenuto o ha capito subito che lo stavano rapendo. Lo hanno portato da "loro" e hanno rinchiuso la sua guardia in una stanza. Soltanto dopo noi, quando ci siamo resi conto, abbiamo fatto un'azione nei confronti della caserma dell’esercito federale. L'abbiamo circondata e abbiamo proposto uno scambio: "Voi ci restituite incolume il Presidente e noi lasciamo uscire i federali dalla città". Si è trattato di un vero scambio, in una strada e con due macchine, una con il Presidente e l’altra con il comandante della caserma, che dovevano incontrarsi al centro della strada. Poi abbiamo anche bloccato l’autocolonna dei soldati perché stavano portando via tutto l’armamento contenuto dentro la caserma. Non glielo lo abbiamo consentito e abbiamo preso molto materiale, anche se molte cose le avevano già bruciate nei giorni precedenti all'interno del cortile della caserma. Si potevano vedere i fuochi da fuori. Lo scambio ha funzionato e il Presidente è stato liberato. Dopo quest’episodio è finito anche l'equivoco dei federali ma purtroppo è anche iniziata la fase più dura della guerra. I federali sono andati ad appostarsi insieme agli "altri" attorno alla città e questa volta, dal momento che non c'era più nessun federale dentro la città, hanno iniziato la guerra vera e propria con bombardamenti molto più intensi."
La guerra richiede artiglieria e armi pesanti: in che modo procurarsele? Semplice: basta andare a prenderle dove sono.
In un'altra parte della città, a Vogo1Êa, c'era una ditta, Pretis, che fabbricava armi, proiettili, e aveva un magazzino scavato nella montagna. Siamo andati in circa 40 persone, con furgoni e camion. Siamo arrivati alle due o tre di notte e abbiamo percorso l'ultimo tratto in discesa a fari spenti e motore spento, perché si trovava in un quartiere circondato dai serbi. Abbiamo agito in silenzio e abbiamo caricato circa 1.500 proiettili da 155 mm, molto potenti, che sono risultati importantissimi durante la guerra. Per spararli bastava costruire artigianalmente dei tubi d’acciaio, inserire il proiettile nel tubo e collegare gli elettrodi di una batteria d’automobile. Siamo riusciti a caricare tutti i camion e i furgoni senza farci scoprire e siamo scappati via prima delle sei, quando era previsto il cambio del turno di guardia. Erano venute con noi alcune persone che lavoravano in quella fabbrica e che sapevano dove entrare, come e dove prendere i proiettili. Quando abbiamo raccontato dove eravamo stati quasi non volevano crederci. Subito sono volute partire altre persone, anche piccoli delinquenti per rubare armi per loro. Noi abbiamo cercato di sconsigliarli: "E’ andata bene una volta ma ora c’è stato il cambio del turno di guardia e si saranno già accorti". Sono voluti partire ugualmente. Li hanno ammazzati quasi tutti; questa volta li aspettavano, li hanno messi in mezzo e li hanno uccisi."
A settembre Suad viene ferito e la "sua" guerra da quel momento cambia. Il racconto di questa giornata è molto dettagliato e ricco di particolari. Suad addirittura ci disegna con le mani, sul tavolino basso del salotto dove siamo seduti, la scena degli avvenimenti. Evidentemente ha vissuto più volte quegli episodi. La prima volta nella realtà, quando non si sa ancora cosa deve accadere, e le altre volte nei suoi pensieri, quando conosci già l'intera sequenza e sai che non puoi più farla accadere in un modo diverso. Puoi cambiare qualcosa, spostare l'enfasi ora su questo o quel particolare, insistere di più su un dettaglio o trascurarne un altro, ma il risultato non cambia. Mentre Suad racconta ci raggiunge la prima scossa di terremoto, quinto grado scala Mercalli. Pochi secondi d'interruzione e poi il racconto prosegue.
"Era il 16 settembre. Ci hanno mandato a costruire una linea difensiva e presidiare un quartiere fuori città da dove, ci avevano detto, i serbi erano scappati. Eravamo circa quaranta soldati, di cui la metà nuovi, e siamo arrivati lì il mattino alle cinque. C'erano tre palazzi molto vicini, due di fronte e uno di lato. Io e un mio amico eravamo i comandanti. Alle nove siamo usciti dalla casa, io sono andato da una parte e il mio amico dall'altra, attorno a quei piccoli palazzi, e poi abbiamo camminato insieme. Parlavamo tra noi e ci sentivamo tranquilli. Forse anche perché era una bella mattina di sole, sembrava ancora estate e si stava benissimo. Ad un tratto ho girato la testa e a soli dieci metri, nel palazzo vicino, ho visto un gruppo di serbi che stavano parlando. Non abbiamo pensato più a nulla. Abbiamo subito iniziato a sparare, all'istante. Nessuno ci aveva avvisato del pericolo. Quel palazzo era pieno di serbi e noi eravamo stati per alcune ore nel palazzo vicino senza accorgerci di nulla. Avevamo corso il rischio di essere presi tutti in trappola e uccisi.
Ho pensato che ci avessero comandato di andare lì per una specie di "vendetta".
Il combattimento è stato duro. Molti di noi non erano esperti. Io ho cercato di chiamare aiuto con la trasmittente ma si stavano scaricando le batterie. Era indispensabile comunicare e così, correndo perché mi sparavano addosso, sono andato a prendere le batterie nuove in una casa cento metri più indietro. Quando sono tornato il mio amico era già morto. C'era anche un altro morto e altri soldati erano feriti. Alcuni erano in preda al panico, uno piangeva e voleva tornare a casa, un altro ha preso il kalashnikov e si è sparato su un piede per poter essere ricoverato in ospedale. I serbi erano a soli dieci metri dietro al palazzo e li chiamavano: "Venite fuori che vi ammazziamo". Io ho gridato, ho dato degli ordini e ho riorganizzato il gruppo. Poi ho cercato di recuperare i corpi dei nostri due morti. Non volevo lasciarli lì perché sapevo che i serbi quando li prendono li sfigurano, tagliano orecchi, naso, gambe, cavano gli occhi, perché poi quando si scambiano i cadaveri per la sepoltura sanno che questo crea terrore. Siamo riusciti a recuperare i cadaveri ma siamo rimasti bloccati in quel palazzo quasi tutto il giorno. Solo pochi di noi combattevano, gli altri erano disperati e diversi erano feriti. Più volte ho chiesto i rinforzi ma mi rispondevano sempre: "Sì, adesso ve li mandiamo, resistete, abbiate pazienza. Non scappate e non abbandonate la postazione". Ero molto arrabbiato e abbiamo pregato Dio per restare vivi. Eravamo disperati anche perché stavano finendo i proiettili. Soltanto dopo dieci ore sono arrivati i rinforzi: due persone soltanto, con un fucile a testa. Io ero furibondo, avevo perso anche il mio amico. E' stata la situazione peggiore della mia vita. Dopo, insieme con altri due, sono andato avanti perché da mezz'ora non si sparava più. I serbi erano scappati prima di noi. Abbiamo trovato diversi cadaveri, qualche fucile, proiettili. Nelle cantine c'erano resti di divise strappate e sporche di sangue. Solo più tardi abbiamo avuto il cambio e ho potuto parlare anche col mio comandante: ero molto arrabbiato.
Il giorno dopo siamo tornati nello stesso palazzo per un altro turno, dalle sei di sera alle sei di mattina. Ancora c'erano i morti. Io ho detto ai miei di preparare tutto per dormire e di aspettare fuori: "Se loro attaccano noi diamo una bellissima risposta". Ho detto così per tranquillizzarli. Più tardi è venuto un soldato a dirmi che il nostro autista era stato colpito da un proiettile anticarro e aveva tutte e due le gambe fuori uso. Io avevo sempre il giubbotto antiproiettile, lui me lo ha chiesto per poter andare laggiù a trovare l'autista. Io gliel'ho dato perché in quel momento non mi serviva, però ho tenuto il casco. Forse avevo un presentimento. Lui è andato giù, per centocinquanta metri, sempre di corsa perché "loro" sparavano.
Dopo una mezz'ora sono stato colpito anch'io mentre ero lì in quel campo di granoturco mezzo bruciato. Penso che mi hanno visto perché avevo un casco con disegnato, ben in evidenza, il simbolo della Bosnia. Ho capito subito di essere ferito anche se non sentivo dolore. E' come se all’improvviso le mie forze fossero state succhiate via con una pompa. Non ce la facevo a reggermi. Ero distante centocinquanta metri dalla casa che funzionava come nostro luogo di appoggio. "Loro" continuavano a sparare, io mi sono fatto forza e pian piano mi sono quasi trascinato alla casa, poi negli ultimi venti metri mi sono alzato in piedi e ho iniziato a correre. Lì c’era il mio autista, era ferito meno gravemente di me, solo alle gambe e non riusciva a camminare, ma per il resto stava bene. Io invece ero ferito in tre punti diversi, perché ero stato colpito da una granata. In quella casa c’era anche dell'acqua. Sapevo che un ferito non deve mai dormire perché altrimenti è finita, così ogni tanto mi versavo l’acqua sulla testa per tenermi sveglio. "Mille volte mi è venuto buio". La mano sinistra "era già andata via e non potevo muoverla". Poi mi sono aperto la giacca per controllare e ho visto qui sul petto tutto sangue. Ero ferito anche nella gamba e in un braccio. Dopo due ore sono stato portato all’ospedale di Sarajevo, a Marijn Dvor."
Da questo momento inizia la lunga convalescenza di Suad. La sua guerra praticamente è finita con quella granata. Essere feriti costituisce quasi un lasciapassare per andarsene, lo scotto da pagare per uscire dalla città. Ci sono però da attendere ancora cinque o sei mesi. Non è automatico. Anche l'uscita dalla guerra, così come il suo ingresso, avviene gradualmente e richiede di nuovo non solo di transitare da una situazione all'altra ma forse ha bisogno che gli stessi "punti di riferimento" si riadeguino ancora una volta.
"Poi sono stato portato all’ospedale. Io non ho perso mai conoscenza, neanche quando il dottore mi ha fatto, senza anestesia, un drenaggio per far uscire il sangue dai polmoni, perché non riuscivo più a respirare e parlare. Sono rimasto parecchio all’ospedale. Qui ero un privilegiato. Non dormivo in una camerata comune ma avevo una camera solo per me. Era una delle poche stanze con l'energia elettrica, collegata sempre al generatore della sala operatoria, che era sempre in funzione. Potevo guardare la televisione e venivano a trovarmi i miei amici e il mio comandante. Poi sono stato ospitato a casa di amici per due o tre mesi. In quel periodo ho perso diciotto chili di peso. Io non volevo che i miei genitori sapessero del ferimento, però altre persone avevano scritto ai miei che ero stato ferito un po’ in una gamba", e altri che ero stato ferito in un braccio e altri nel torace. Così mio padre si è preoccupato ancora di più e ha iniziato ad organizzarsi per rientrare a Sarajevo.
Purtroppo non era facile per me rimettermi in salute perché non c’era quasi niente da mangiare. Anche se a casa veniva a trovarmi una volta la settimana il mio comandante e altri amici che mi portavano qualcosa da mangiare, farina, olio, o anche sigarette, che erano una cosa "enorme". C’era molta gente che veniva ad aiutarmi perché in passato anch’io avevo fatto così, e se tu fai del bene poi gli altri fanno del bene a te. Però la situazione era dura ugualmente."
Suad ritorna in caserma. Questa volta il fronte di guerra che deve affrontare non si trova più in periferia, lungo la linea dell'assedio, ma grazie ai cecchini e ai contrabbandieri si è oramai diffuso all'interno della città: "non fai in tempo a prenderne uno che subito ne scappa un altro".
"Verso la fine dell’anno sono tornato in caserma, però ero ancora debole e così anziché rimandarmi in combattimento mi hanno assegnato alla polizia militare. All’inizio della guerra c’era un altro corpo di polizia ma i poliziotti si comportavano male, rubavano essi stessi e così il governo lo ha sciolto e ha creato una nuova polizia. Facevamo indagini per scoprire dove c’erano cecchini, oppure dove rubavano merce e organizzavano il mercato nero. Sequestravamo la merce e arrestavamo le persone, però dopo un’ora eravamo costretti a liberarli perché c’era sempre qualcuno che li proteggeva, e poi c’era sempre da correre da un’altra parte. Chi aveva i soldi poteva comprare tutto durante la guerra. Ci sono persone che hanno fatto molti soldi e ora gestiscono attività a Sarajevo.
I miei superiori insistevano che io andassi in Dalmazia per rimettermi in salute. Mi dicevano: "Scappa attraverso la pista e per te la guerra è finita". Io ero stato ferito in combattimento e quindi avrebbero pensato a tutto loro per i documenti e i permessi. Alla fine quando mi sono convinto è sorta inattesa una complicazione: mio padre era venuto a Sarajevo. Era entrato in città arrivando dal monte Igman e poi era passato attraverso la pista dell’aeroporto, lungo la stessa strada di chi entra a Sarajevo portando la merce. A Sarajevo però era facile entrare ma molto più difficile uscire. Mio padre aveva letto sui giornali che a Sarajevo moriva molta gente, era preoccupato anche per me e voleva venire a combattere. Per me, in quel momento mio padre era "come un bambino cui badare" perché, anche se era adulto, non sapeva niente di quella guerra. Non sapeva in quali strade si poteva passare e in quali no, dove c’erano i cecchini, come si sopravviveva. Ha rischiato di morire entrando in città. Dopo soli due giorni ha detto: "Ma dove sono venuto?". Ora era difficile farlo uscire senza documenti: ogni cento metri c’erano posti di blocco. Così mi sono rivolto di nuovo ai miei comandanti, ho dovuto insistere molto ma alla fine sono riuscito a convincerli e così hanno preparato i documenti anche per lui."
La fuga. Primo Levi nel libro "La tregua" racconta come la miseria fosse così diffusa fuori dal lager da rendere ancora incerta la stessa sopravvivenza durante il lungo viaggio di ritorno attraverso l'Europa. Qui è l'esatto opposto. Basta attraversare di corsa "la pista" e dopo poche centinaia di metri tutto è così perfettamente normale che uno addirittura se ne sorprende. In questi racconti, così diversi tra loro, compare sempre ad un certo punto questo stupore. Per Zlatko è lo "scoprire che qualcuno da lontano solidarizza con te", per Dario TerziÊ il festival di Sanremo, per Suad, che esce da Sarajevo, è sufficiente un piatto di patate.
"Siamo stati accompagnati con la macchina della polizia presso la pista dell’aeroporto. Era il 5 aprile del 1993, quasi l’anniversario dello scoppio della guerra. A quel tempo ancora non era stato costruito il tunnel sotterraneo e così si doveva correre attraverso la pista nel buio, mentre i cecchini ti sparavano. Avevo capito che il numero maggiore di uccisioni avveniva alle una o due di notte, forse perché molti aspettavano proprio quell’ora per correre e anche i cecchini lo sapevano, così stavano più attenti. Allora ho detto a mio padre: "Noi attraversiamo alle nove, appena fa buio, subito, senza aspettare". Abbiamo fatto così e ci siamo riusciti.
Superati i cecchini c’era da evitare la ronda dei soldati dell'Onu, che illuminavano la pista con i fari e se ti prendevano ti rimandavano indietro. Superato anche questo abbiamo dovuto aspettare le quattro di mattina, prima di salire su un camion come il bestiame e iniziare il viaggio verso Konjic, attraverso le montagne. Da lì abbiamo proseguito in pullman per Makarska, dove siamo arrivati dopo tre giorni. Per fortuna siamo passati nella zona di Mostar in tempo perché appena poche settimane dopo è scoppiata la guerra croato-musulmana e saremmo rimasti bloccati.
A Makarska la vita era normale. Già appena usciti da Sarajevo ci eravamo nascosti per qualche ora da alcuni amici che ci avevano offerto del "purec". Io non potevo crederli: state scherzando? Era da sette otto mesi che non vedevo patate e non si mangiava quasi nulla mentre lì, a poche centinaia di metri, c’era di tutto. Di qua nulla e di là tutto. Incredibile. Mi fece una grande impressione questo contrasto e questa vicinanza. Mi sembrava assurdo che potesse essere così.
Anche a Makarska la vita era tranquilla, normale. Ci eravamo lasciati da un anno eppure quell’anno è stato lungo come dieci anni. Era accaduto di tutto. Finalmente potevo riprendere a mangiare normalmente, anche se ho dovuto riabituare il mio organismo con calma dopo la denutrizione.
A Makarska c’erano molte persone di Sarajevo scappate all’inizio della guerra, circa duemila ragazzi. Diversi si vantavano, facevano i patrioti, raccontavano della guerra, si atteggiavano a grandi eroi. All’inizio io volevo tornare di nuovo a Sarajevo ma quando ho visto come si divertivano queste persone, che vita facevano, con i bei vestiti, senza che nessuno pensasse veramente di andare in città per combattere, sono rimasto molto male. A me dava molto fastidio tutto questo ma non parlavo mai con loro, stavo zitto. Molti di loro sono tornati ora, e tanti anche con i soldi che nel frattempo hanno guadagnato, così ora stanno meglio di quelli che non erano scappati e che hanno perso anche i familiari. Ero molto deluso di queste persone e non potevo sopportarle. Solo io, e non loro, avrei potuto parlare di Sarajevo dove avevo visto tante cose orribili per poter sopravvivere."
La scena che Suad sta per raccontare ha un che di surreale. Potrebbe sembrare, metaforicamente, il viaggio di Caronte che trasporta i dannati, con la differenza che il traghettatore infernale guadava l'Acheronte lontano da ogni sguardo umano e avanzando lentamente con la sua barca carica di anime dannate e oramai private dei loro corpi. Suad invece corre a 120 chilometri all'ora sotto lo sguardo dei cecchini e guida un furgone carico di corpi innocenti oramai privati delle loro anime. Quel furgone che corre con il suo tanfo di morte deve essere veramente difficile da rievocare lungo i viali di Makarska, mentre si è circondati dai discorsi di quei ragazzi. Di nuovo viene in mente Primo Levi, quando racconta di un sogno frequente nei suoi sonni nel lager: sognava di tornare a casa ma nessuno aveva voglia di ascoltarlo o di crederlo. Le immagini che lui portava dentro di sé erano troppo distanti dalla realtà.
"Sono stato in mezzo ai morti. Più volte ho dovuto trasportare dall'obitorio al cimitero furgoni pieni di cadaveri. Non sapevo nemmeno se erano musulmani cattolici o che altro. Alcuni erano morti da parecchi giorni. Quando sono entrato in quella stanza c'era un cadavere con un testa enorme, che si era gonfiata, e faceva grande impressione. Hanno caricato il furgone e ne hanno messi tanti finché ce ne entravano, era rimasto giusto lo spazio per me che guidavo. Avevo mani o braccia che penzolavano e mi battevano addosso e io dovevo correre veloce per non farmi sparare addosso dai cecchini. Era sempre una tombola uscire per strada e restare vivi. Il puzzo dei cadaveri mi è rimasto addosso a lungo. Ho fatto lavare più volte il furgone ma il puzzo non andava via del tutto. C'era sempre qualche macchia di sangue o altro che restava qua e là. Io in precedenza non avevo mai voluto vedere un morto perché poi di notte avevo paura di sognarli. Eppure lì mi sono offerto di andare perché bisognava farlo. Non era per coraggio. In guerra non c’entra il coraggio.
Quei cadaveri erano rimasti lì per qualche mese. Qualcuno era coperto da stracci. La puzza era tanta che dopo due minuti non capivi più niente. Dovevi metterti una maschera e dei tamponi di alcol nel naso per poter respirare. In tutto ho fatto tre o quattro viaggi. Alla fine diventa "quasi" normale. Ma non è "sempre" normale. Finché vedevo persone anziane lo sopportavo ma quando vedevo ragazzi di dieci anni mi veniva da piangere. Quei cadaveri nudi e anche straziati, morti talvolta durante un’operazione e quindi magari senza una gamba perché avevano tentato di operarlo ma poi era morto ugualmente. E allora sentire i discorsi di quei ragazzi a Makarska proprio non mi andava, loro non sapevano nulla e non avevano nessun diritto di parlare: mi veniva da disprezzarli, loro non sapevano come sopravviveva la gente di Sarajevo in quel momento, costretta a mangiare erba per le strade."
Appena arrivato a Makarska scoppia in Erzegovina la guerra tra croati e musulmani e la vita per i profughi diventa improvvisamente più difficile. Forse spinto anche da questo, forse per le tante cose che già ci ha raccontato, e forse anche perché la sua convalescenza è lenta -impiegherà tre anni, ci dice, a recuperare i diciotto chili di peso che ha perso-, Suad cambia idea e non torna più a Sarajevo. Decide invece di venire in Italia e ricostruirsi qui la sua vita.
"Per i miei genitori la vita era difficile anche in Croazia. Vivevano lì da un anno senza lavoro e non ce la facevano più. Poi è iniziata la guerra a Mostar e anche in Dalmazia sono cambiati i rapporti tra croati e musulmani. La televisione croata parlava della guerra a Mostar e faceva propaganda contro i musulmani, così molte persone del posto se la prendevano con noi. A me hanno sfregiato più volte l’auto. La polizia croata veniva a cercare gli uomini musulmani per portarli via e utilizzarli per gli scambi di prigionieri. Così ho deciso di andare via. Anche la mia ragazza viveva lì con i suoi genitori. Avevano un ristorante ma in quel periodo nessuno andava più a mangiare da loro perché erano musulmani. Così anche loro decisero di andare via. Al porto di Spalato siamo stati interrogati da una poliziotta croata. Io avevo il passaporto bosniaco e lei mi provocava dicendomi: "Sai che non puoi più tornare in Croazia?". Io non potevo rispondere "che me importa". Dovevo stare attento per non crearmi problemi. Era il 10 di agosto, facevo parte dello stesso gruppo di Fadila e sulla nave abbiamo conosciuto Sandro e Mladenka. Io avevo conosciuto Fadila a TuÊepi, dove anche lei era profuga. C’era anche mia zia con due figli e un’altra signora con i suoi figli. Sembravamo una famiglia normale in viaggio. Noi non parlavamo italiano e non avevamo soldi, così Sandro e Mladenka ci hanno consigliato come fare. Non era semplice nemmeno sbarcare ad Ancona.
Io non avevo nulla. Arrivati
in Italia ci hanno accompagnato prima a Senigallia e dopo a Genga. Poi
dopo quindici giorni è arrivata anche mia moglie. Dopo un po' noi
due abbiamo trovato lavoro e abbiamo scelto di lasciare l’albergo di Genga.
Non ci piaceva dipendere in tutto e stare lì tutti insieme ammucchiati,
"da profughi". Ci dissero che lasciando l'albergo avremmo perso lo status
di profughi e quindi avremmo potuto incontrare problemi. Noi abbiamo preferito
ugualmente fare da soli. Ora abitiamo qui da circa quattro anni, ci siamo
riorganizzati la vita, lavoro alla Best e faccio il saldatore. Torno a
Sarajevo ogni volta che riesco ad avere le ferie. E’ bello vedere la città
che riprende a vivere. "