I ragazzi raccontano


Le lettere che seguono, tre scritte da ragazzi di circa 9 anni e una, la storia del piccolo Haris, raccontata da un professore, sono state pubblicate qualche anno fa sul giornalino scolastico della Scuola Elementare "F. Conti" di Jesi (An), nell’ambito di un progetto di scambi culturali con la scuola di Zalik-Mostar. Lo scambio di corrispondenza era nato nell'ambito delle iniziative di adozione a distanza promosse dall’associazione Time for Peace di Ancona. Lo scambio culturale proponeva che i ragazzi di due realtà così diverse potessero parlare della guerra direttamente con le loro parole, senza passare attraverso il racconto di altri. Le lettere furono lette dall'insegnante in classe, allora una terza elementare, suscitando una forte emozione e offrendo ai ragazzi di Jesi un contatto con la realtà dei ragazzi di Mostar assai più diretto e immediato delle tante immagini televisive che in quegli anni tutti noi seguivamo distratti all'ora di cena. In seguito le due scuole hanno realizzato anche un giornalino scolastico comune, con gli articoli di ciascuno -poesie, storie, curiosità reciproche- scritti nelle due lingue. 
Mi sono spaventataEra estate, il 15/7/93. Gli usta1a sono entrati nel nostro villaggio. Hanno cacciato le donne, i bambini e i malati in una scuola a Piletra. Prima di noi hanno cacciato via tutti i maschi. Per due giorni non ci hanno dato niente da mangiare. Dopo ci hanno buttato giù da un camion del cibo. Eravamo affamati. Eravamo addolorati e tristi. Faceva tanta pena sentire come piangevano i bambini durante la notte.
Durante la sera sparavano sotto le finestre per spaventarci di più. Un giorno ci hanno buttato giù dal camion barattoli di cibo e pane. La gente si accalcava per prenderli e io guardavo tutto questo con molta tristezza. Noi abbiamo preso un barattolo; non avevamo il pane per mangiare. Mio fratello è andato dai soldati che ci facevano da guardia per chiedere un po' di pane. Uno di questi soldati-guardiani lo ha cacciato via, ma un altro lo ha chiamato e gli ha dato due file di pane.
Quando lui è tornato da là, la gente lo guardava e non ci credeva. Quando è entrato nella stanza, la mamma gli ha domandato dove era stato e da dove venisse quel pane. Lui ha raccontato tutto. Mia madre lo ha guardato con tanto dolore.
Questo episodio non si cancellerà mai dal mio ricordo.
 Aiuto, aiutoC'era una volta un giorno d'estate, in un mattino del 1993. Le granate cadevano ogni giorno. Io, mio fratello più piccolo e mia madre siamo andati a vedere nostro zio. Io sono entrato nel palazzo prima di loro. In questo palazzo abitava anche il mio amico Samel. Io sono andato da lui.
E' passato poco tempo. Ho sentito l'esplosione di una granata. Ho aspettato un po'. Dopo ho sentito un'altra granata. La porta si è aperta. Nel corridoio c'erano stese a terra mia madre, mia zia e mia sorella. Tutte erano nel sangue. Non sapevo se erano vive o già morte. Ho sentito soltanto mio fratello che piangeva. Anche lui era pieno di sangue.
Io gridavo "aiuto, aiuto, aiuto". Sono arrivati alcuni soldati. Essi hanno messo i corpi caduti nelle coperte e li hanno portati via. Io non ho avuto il tempo di spaventarmi. Dopo che i corpi sono stati portati via mi ha preso una gran paura. Le mie gambe tremavano.
Quando è arrivato mio padre mi ha detto che la mamma era morta. Non potevo alzarmi dalla paura e dal dolore.
 
 La mamma di HarisBambini, vi voglio presentare il piccolo Haris. Lui ora ha quattro anni. Vive a Mostar con suo padre e con la nonna in un appartamento di altri, che è stato bombardato. Quando nel luglio 1992 sono arrivati i cetnici nel nostro villaggio, i musulmani sono stati costretti a fuggire. Dopo qualche giorno passato dentro i boschi, siamo andati verso la città di Mostar.
La notte pioveva. Lungo il nostro sentiero, davanti a noi, c'era una montagna grandissima. Dovevamo superarla. Le colonne di profughi, stanchi, bagnati, affamati, stavano attraversando le stradine sulla montagna.
Silenzio. Si sente soltanto il pianto dei bambini. Una delle madri chiede un po' di zucchero per il figlio. Era la madre di Haris. L'aiuta il padre di Haris. Due giorni e due notti camminiamo attraversando la montagna. Verso mezzanotte arriviamo a Mostar e ci danno come alloggio l'aula di ginnastica di una scuola. I profughi arrivano e continuano ad arrivare. Arriva anche la madre di Haris. Dopo di lei anche il padre. E' sfinita e pallida. Ci stendiamo sul pavimento. Tra poco sarà l'alba.
Si sente il sorriso e il vagito di un bambino: era il piccolo Haris. Giocava con le proprie gambe, vicino a sua madremorta.
 
 La soldatessaEra tre anni fa. Io ero a casa di mio nonno. All'improvviso nella casa è entrato un soldato con gli stivali. Io ho gridato per la paura. Il soldato ci ha ordinato di uscire dalla casa. Noi ci siamo vestiti e siamo usciti. Faceva tanto caldo.
Ci hanno portato nella prima linea del fronte come difesa vivente (scudo umano). Hanno separato me e mia sorella. Noi abbiamo pianto in quei momenti. La mamma ha pregato i soldati di lasciarla stare. Essi l'hanno lasciata e hanno chiamato il loro generale, il quale ci ha detto che ci avrebbe mandato in un'altra casa. Ci hanno portato in quest'altra casa dove c'erano solo un uomo e una donna. Non avevano figli. Loro sono usciti a vedere che cosa stava succedendo fuori. I soldati hanno ordinato loro di rientrare subito nella casa altrimenti li avrebbero accoltellati e sgozzati. Essi sono rientrati.
Dopo è arrivata una ragazza con una divisa da soldato. Un uomo ha fatto una domanda ma lei lo ha picchiato con la gamba nello stomaco. Il povero uomo ha abbracciato il suo stomaco per il dolore e lei glielo ha impedito minacciandolo di morte. Lui ha dovuto ubbidire nonostante il dolore.
I soldati sono saliti al primo piano e poi sono andati via minacciando che se qualcuno fosse voluto scappare essi lo avrebbero ucciso. Loro hanno lasciato un uomo di guardia. Quest’uomo ci ha detto di fuggire subito. Noi siamo fuggiti verso i boschi.
Là c'erano i nostri soldati. Loro ci hanno indicato la strada per andare a Blagaj, vicino Mostar. A Blagaj abbiamo trovato nostro padre.
 

Nei corridoi delle scuole
Che cosa è la Bosnia Erzegovina del dopo Dayton?
Ufficialmente è uno Stato unitario composto da due entità separate: la Federazione Croato-Bosniaca e la Republika Srpska. Il territorio, proprio grazie alla guerra, risulta ora suddiviso in maniera etnicamente omogenea, più o meno, fra croati, musulmani e serbi. I primi due sono federati insieme più per real-politik che per affinità culturali. Gli "altri", i serbi, vivono nella loro repubblica, hanno un proprio governo e un proprio parlamento e sono separati dalla federazione dalla "Internal Border Line-linea di confine interna". Una frontiera che, pur non essendo formalmente esistente, poche persone ancora osano oltrepassare: provate un po' a chiedere ad un tassista musulmano di Doboj di accompagnarvi nella Doboj serba, o viceversa, e vedrete cosa vi risponde.

Gli eserciti in campo di fatto sono tre, di cui uno croato e uno musulmano all'interno della federazione, come tre sono le monete che ovviamente non sono accettate nel territorio "nemico". Le targhe delle automobili sono quattro poiché ultimamente la Comunità Internazionale ha imposto l’adozione di una quarta targa senza stemmi particolari, allo scopo di "non far identificare" il luogo di provenienza dell’automezzo. Con il tempo dovrebbe diventare questa l’unica targa da usare.

Le bandiere attualmente sono cinque: una per i croati di Bosnia, una per i serbi, una per i musulmani, una che rappresenta la federazione Croato-Bosniaca e l’ultima, in ordine di nascita, è la bandiera che la "solita" Comunità Internazionale ha imposto per rappresentare la Bosnia Erzegovina nelle istituzioni mondiali o durante le manifestazioni sportive.

La lingua che si parla "dovrebbe" essere una soltanto ma dall'inizio della guerra nelle diverse zone si è iniziato a reintrodurre vocaboli già caduti in disuso, talvolta di derivazione araba o turca oppure tedesca o ungherese a seconda delle zone, e ad accentuare le differenze che comunque esistono tra croato e serbo o le espressioni "dialettali" delle diverse aree geografiche. Non mancava ad esempio, durante le trattative di pace, la possibilità di vedere delegazioni provenienti anche dalle stesse città, ad esempio le "due" Mostar croata e musulmana, che ostentavano l'utilizzo di interpreti, come se prima della guerra non si fossero mai parlati.

Per quanto riguarda Mostar la differenza emerge con evidenza perfino nella condizione delle città e delle abitazioni. A est si trova la parte più vecchia, con il centro storico, un tempo meta di molti turisti -un milione di presenze all’anno-, poi stretto d'assedio e bombardato per diversi mesi durante la guerra croato-musulmana: le distruzioni a tre anni di distanza sono ancora molte. A ovest tutto appare più nuovo e più in ordine, i danni causati principalmente nel 1992 durante la guerra contro i serbi sono stati in gran parte eliminati.

Dopo quattro anni di guerra, ci siamo chiesti, che cosa si insegna nelle scuole? In fondo queste persone sono vissute insieme in quartieri "misti" e non omogenei, parlando la stessa lingua, leggendo gli stessi autori per molti anni senza nessun distinguo. Ora, a guerra finita, cosa è rimasto del vecchio concetto multietnico su cui si reggeva la Jugoslavia titoista nata a Jajce, in Bosnia centrale, nel 1945?

Se nel trattato di Dayton, firmato da tutte e tre le parti in causa e ratificato successivamente a Parigi, si dice che la Bosnia Erzegovina è uno stato unitario indivisibile, cosa insegnano i professori agli alunni? Qual è la storia nazionale di questo paese o l'origine dei suoi confini? Come spiegano il conflitto appena concluso? Parlano di convivenza e di rispetto per l’"altro"? Ci si avvia anche nell'istruzione e nella cultura a ricostruire unitariamente il paese? Oppure ci si attrezza per chiudere definitivamente il problema bosniaco, indottrinando le nuove generazioni alla chiusura verso l’"altro"? Ci si apre, per gettare le basi su cui far crescere un giorno una nuova classe politica multietnica e universale, oppure ci si chiude nel particolare aspettando che la generazione che ha combattuto duramente per quattro anni sia sostituita da nuove leve cresciute frattanto nel nazionalismo?

Se il dialogo è pressoché inesistente fra la Federazione Croato-Bosniaca e la Republika Srpska -come diceva Muho Dizdar: "Faccio parte della commissione cultura del parlamento ma ad un anno dalle elezioni ancora non ci siamo mai riuniti"- abbiamo voluto esaminare il caso limite di Mostar, una città interna alla Federazione ma nella quale la divisione fra i croati e musulmani ha raggiunto livelli drammatici e tuttora visibili.
Certamente non si può pretendere che tutto riparta automaticamente come se nulla fosse accaduto, come pure non si possono contrapporre in maniera troppo rigida "aperture" e "chiusure" in una situazione in cui nulla, nonostante tutto, appare netto.
La realtà scolastica ci appare comunque interessante e per questo, senza nessuna illusione di arrivare in fretta a risposte tranquillizzanti, abbiamo voluto cercare alcuni esempi, provando a confrontare due scuole elementari di Mostar, una a est e l'altra a ovest.
Le interviste sono avvenute a due soli giorni di distanza, il mercoledì pomeriggio e il venerdì mattina, praticamente in contemporanea. In mezzo c'è stata però l'esplosione dell'auto bomba.

Scuola elementare "Zalik" a Mostar est
Andiamo a visitare la scuola elementare-media di Mostar est nel quartiere Zalik. Ci accompagna Razija, una ragazza che parla bene l’italiano per aver vissuto qualche anno in Italia. La preside si chiama Hikmeta RizvanoviÊ e il suo ufficio si trova all’interno di una ex caserma militare, utilizzata prima dall’esercito federale (JNA) e poi dell’Armija (Armata Bosniaca). Ora, essendo Mostar "città aperta", l’esercito è stato trasferito in altre zone e gli spazi liberati sono utilizzati secondo le necessità: alloggi per sfollati, scuole, uffici comunali.

All’ingresso della ex-caserma è ancora visibile la scritta "Armija" con lo stemma della Bosnia Erzegovina, lo scudo a sfondo blu con sei ljiljan-gigli d’oro. Si ha quasi l’impressione di entrare in un campus universitario, considerando la struttura architettonica aperta, con palazzine in fila tutte uguali e di un solo piano, alcune ancora danneggiate e altre ripitturate di bianco, i ragazzi che giocano a pallone sul vecchio piazzale d'armi, angoli di verde e anche un’improbabile moschea. Improbabile perché nella laica Jugoslavia una moschea all’interno di una caserma era una cosa impensabile. Sicuramente è stata costruita successivamente, fra il 1992 e il 1997.

Arriviamo nella palazzina che ospita l'ufficio di presidenza. Il sovraffollamento all'interno delle stanze e perfino dei corridoi è la prima cosa che ci colpisce. Quasi tutte le città controllate dall’esercito del governo di Sarajevo sono state segnate dall’assedio. Gli spazi larghi e non claustrofobici sono ricordi lontani per queste persone e molti dei bambini che ora frequentano questa scuola hanno conosciuto solo questa realtà.

Nella targhetta sulla porta c'è scritto: "Direktor". Entriamo. L’accoglienza dei professori è come sempre molto cordiale. Ci conosciamo oramai da molti anni. Durante la guerra siamo venuti più volte in questa scuola con humanitarna pomoÊ-aiuti umanitari.

Anche la stanza dove siamo entrati è piccolissima, l’arredamento è molto sobrio e la differenza di stili fra il tavolo, le sedie e l’armadio denota che tutto il materiale è stato rimediato alla meglio nel corso degli anni. In una parete sono ammassati scatoloni con quaderni, penne e altro materiale didattico donato dall’UNICEF. Sopra l'armadio sono in fila due o tre palloni utilizzati per l'educazione fisica.

Iniziamo la chiacchierata fra un sorso di caffè "alla maniera turca" e un morso ai dolci bosniaci, precisiamo subito che le stesse domande le rivolgeremo anche ad una scuola di pari grado di ovest, la zona croata, perché vogliamo confrontare differenze o somiglianze.

Chiediamo di raccontarci come era la scuola durante e subito dopo la guerra.

"Io non sono originaria di Mostar e quindi non posso sapere com’era la scuola prima. Anche io sono una sfollata, di Stolac, sono arrivata qui nella primavera del 1993 con mio marito, mentre i nostri due figli erano rinchiusi in un campo di concentramento croato. Ora sono vedova, mio marito è stato ucciso nei primi mesi del 1994 a Mostar, a guerra quasi conclusa, da un cecchino croato appostato sulla riva opposta della Neretva. Nel frattempo i figli erano stati liberati dal campo di concentramento, il più grande è dovuto andare all’estero per curarsi dai maltrattamenti subiti e ora vive in Svezia, mentre il secondo fu subito arruolato nell’Armija e spedito al fronte a combattere i nazionalisti serbi. E’ stato ferito più volte ma ora è vivo e sta bene. Anche la maggior parte dei ragazzi che frequentano la scuola sono sfollati, da Stolac o da altre località dell'Erzegovina.

Durante la guerra -prosegue la preside, riferendosi in questo caso alla guerra che nel '93 ha opposto musulmani e croati- non c'erano locali agibili e le lezioni si svolgevano negli scantinati delle case, senza nessun supporto didattico a causa dell’assedio. Era una parvenza di scuola, un modo per essere occupati e non pensare a quello che stava succedendo fuori dal rifugio. Ovviamente sono morti anche dei professori e degli studenti per poter frequentare questa "parvenza" di scuola.

Finita la guerra, nel '94, ci siamo trasferiti in un vecchio capannone ferroviario dove i 450 bambini, tutti sfollati, per poter frequentare la suola dovevano osservare doppi turni di orario. Nel frattempo iniziarono ad arrivare i primi aiuti umanitari. Per superare il sovraffollamento l’UNESCO ci donò un prefabbricato in legno. Era un ambiente sicuramente più confortevole e caldo del vecchio capannone ferroviario privo di riscaldamento, che però nonostante tutto continuavamo ancora a utilizzare a causa del continuo arrivo di nuovi bambini da altre città della Bosnia cadute in mano ai serbi.

Più tardi è stata ristrutturata, per rispondere ai bisogni essenziali, la ex caserma che si trovava qui in questo quartiere, e così lasciammo il capannone ferroviario. Ora la scuola utilizza sia il prefabbricato dell'Unesco sia la ex-caserma e conta più di 600 ragazzi."

Chiediamo alla Preside quali paesi sono stati in prima linea per la fornitura di aiuti, essenziali per lo svolgimento didattico. Ci risponde che hanno ricevuto molto dagli spagnoli, per via della presenza a Mostar del contingente spagnolo delle Nazioni Unite, e poi dagli italiani. Dalla Germania e dall’Inghilterra hanno avuto un valido supporto a livello psicologico, per i bambini che hanno subito traumi: genitori uccisi, violentati e costretti a fuggire a piedi per giorni fra i monti e le vallate.

"Per quanto riguarda la composizione di insegnanti e ragazzi la scuola può essere considerata multietnica, ci fa notare la preside, che subito aggiunge: questo però non deve trarre in inganno perché a causa della pulizia etnica che abbiamo subito la percentuale delle minoranze è molto bassa, si aggira intorno ad un 15% di presenze di croati e di serbi." Interviene nella discussione anche la segretaria della scuola, proponendo se stessa come esempio: la sua è una famiglia mista, il padre serbo e la madre croata, nessuno musulmano e nonostante ciò ha un incarico di prestigio. "No -ci assicurano-, da questa parte della città non ci sono problemi per croati e serbi. Se andate dall’altra parte -ci tengono a precisare- non troverete una situazione simile, i croati non ammettono musulmani nel loro territorio."

Questo problema, delle minoranze che nonostante la divisione in due della città continuano a vivere "dall'altra parte", ci incuriosisce molto, soprattutto per quanto riguarda l’insegnamento della religione, o dell'alfabeto, in quanto i croati usano quello latino e i serbi i caratteri cirillici.

"Non esistono problemi -assicura la preside- perché l’insegnamento della religione è facoltativo, chi vuole partecipa all’ora di religione altrimenti può tranquillamente astenersi e andare a giocare nel parco in attesa che la lezione sia finita. Sono le famiglie che decidono se qualificarsi come musulmane, cattoliche, ortodosse, atee o altro. Per quanto riguarda l’insegnamento dell’alfabeto è rimasto tutto uguale al periodo della ex-Jugoslavia: una settimana scrivono in caratteri latini e una in caratteri cirillici. Poi l’alfabeto cirillico è abbandonato alle scuole superiori.

Il programma didattico è pressoché lo stesso che era in vigore prima della guerra, con poche differenze. I ragazzi studiano un po' meno la storia della Jugoslavia titoista, predominante nel vecchio programma, a vantaggio sia della storia dei giorni attuali che del passato bosniaco. Tra le nuove materie c'è solo l’insegnamento dell’informatica, ma il programma purtroppo è solo nelle intenzioni perché ancora non disponiamo di personale docente in grado di spiegare questa materia, e poi non abbiamo neanche un computer, neanche per le classi della media."

C'è una frase della preside che ci ha colpito subito mentre parlava: "Nella grammatica ora studiamo di più le parole che appartengono alla lingua bosniaca e che prima si trascuravano". Si riferisce a tutti quei termini, le "nuove" parole di antica origine turca, che sono utilizzati ad esempio dai quotidiani più vicini al Governo di Sarajevo e che spesso molti giovani non riescono neanche a capire.

Nel tentativo di approfondire meglio questi aspetti chiediamo alla Preside quali siano i poeti e gli scrittori considerati più importanti nello studio della "propria" letteratura: il croato-serbo e premio Nobel Ivo AndriÊ, il musulmano Mehmedalija "Mak" Dizdar o i più multietnici SantiÊ e SelimoviÊ?

"Non esistono preferenze -ci risponde- tutti sono importanti. E' ovvio che per me che sono originaria di Stolac "Mak" Dizdar è molto importante, perché è della mia città e lo sento mio. Tutti sono stati dei grandi scrittori per la Bosnia. E' indubbio che anche AndriÊ è un grande scrittore anche se un po' opportunista, in special modo quando nel libro "Il ponte sulla Drina" descrive l’impalamento del serbo ad opera dei musulmani. Noi non pensiamo che sia proprio avvenuto in quel modo, forse è stato il contrario".

Per quanto riguarda lo studio della storia moderna e della geografia del loro Stato, ci confermano di avere delle difficoltà perché gli stessi professori non hanno ancora chiara la situazione geopolitica in cui si trovano.

Infine si parla di Gavrilo Princip, il serbo attentatore dell’Arciduca D’Austria nel 1914, attentato che innescò la prima guerra mondiale. Loro continuano a definirlo un eroe perché pur essendo serbo apparteneva all’organizzazione "Giovane Bosnia", dove serbi e musulmani militavano insieme per la realizzazione di una Bosnia indipendente.

In chiusura, chiediamo come definiscono invece la guerra appena conclusa, quando la spiegano ai ragazzi: guerra di aggressione o di indipendenza?

"Sicuramente d’aggressione."

Ma aggrediti da chi?

"Ai nostri alunni diciamo che per primi ci hanno aggredito i serbi e poi i croati."
 

Scuola elementare numero 11, di Mostar ovest

Per intervistare la preside di questa scuola siamo costretti a cercare un’altra interprete. La ragazza che ci ha accompagnato nel settore est della città ha poca voglia di recarsi ad ovest, in territorio croato. Nonostante la guerra sia finita da tre anni e le barricate e i posti di frontiera siano stati eliminati, la divisione è ancora reale. E' facile percepirla anche per noi. Molti, da entrambi i lati, se possono, evitano di andare nell'altro lato della città. La divisione però non deve essere nemmeno troppo rigida, poiché l'indirizzo di questa preside ce lo ha fornito proprio un'insegnante di est, che ogni tanto va a trovarla perché prima della guerra erano amiche. Del resto gli unici rapporti tra le scuole dei due lati della città sono questi, di tipo esclusivamente personale.

Questa mattina poi è ancora più "disagevole" varcare uno dei ponti verso ovest perché durante la notte è esplosa una potente auto bomba, proprio qui, nel cortile del comando della polizia croata. Un attentato dinamitardo di stile mafioso, con un’ esplosione che ha sventrato un intero palazzo, distrutto una decina di appartamenti e una cinquantina di auto parcheggiate. Per fortuna -ma lo sapremo solo più tardi- ci sono solo dei feriti e nessuno è rimasto ucciso. La scuola dove stiamo andando si trova a meno di cento metri di distanza.

Lungo la strada la nostra presenza attrae l’attenzione di un uomo che ci avvicina e ci blocca, individuandoci subito come talijanskij-italiani.

"Mujahideen", esordisce subito in un gergo assai incerto, dove le parole italiane sono poche e mescolate a quelle croate. Ovviamente si aiuta con un gran numero di gesti. "Granata, mujahideen", ripete, simulando la traiettoria della parabola di un'improbabile granata lanciata da Mostar est. "No bomba, granat. Tutti kaputt, Balije", aggiunge usando un espressione dispregiativa verso i musulmani e facendo il gesto di tagliare la gola.

Riusciamo a capire che era originario del quartiere Brankovac, a est della città, ma durante la guerra è stato costretto a rifugiarsi a ovest perché i musulmani dovrebbero averlo cacciato dopo aver ucciso diversi membri della sua famiglia. Una signora che sta passando si avvicina e puntandosi l’indice della mano destra alla tempia, e roteandolo, ci comunica che la mente dell’uomo è particolarmente instabile. Sicuramente ha ragione lei sul fatto che la mente dell’uomo è instabile e anche circa il fatto che l’attentato è dovuto ad un’autobomba e non ad una granata. Però sulla strage della famiglia dell'uomo un fondo di verità di sicuro c’è. In una guerra violenta e senza quartiere come questa, gli episodi drammatici, anche se non sempre distribuiti allo stesso modo, sono avvenuti ovunque

Ci liberiamo con un po’ di fatica da questo signore insistente, che comunque contribuisce ad alimentare il clima difficile della mattinata, e andiamo a visitare il luogo dell'attentato. La devastazione dell’autobomba è visibile per decine e decine di metri. Molte persone sostano in un composto e cupo silenzio lungo i nastri e le transenne della polizia. I poliziotti che vigilano non portano sulla divisa nessuno stemma, perché non sono "né croati né musulmani" ma fanno parte del corpo di polizia misto della "federazione".

Noi abbiamo il nostro appuntamento e non possiamo fermarci. Davanti alla scuola ci aspetta la nostra nuova interprete, una ragazza di venti anni. Anche lei parla bene l’italiano per averlo imparato durante il suo soggiorno nelle Marche, a Tolentino, ospite di un parroco che durante la guerra diede rifugio alla famosa squadra di pallamano femminile "Galeb-gabbiano" di Mostar.

Rimaniamo interdetti quando sentiamo che il suo nome è di tipica origine musulmana. Ci spiegherà poi che lei fa parte della minoranza musulmana -circa il 10%- che vive a ovest. La sua famiglia ha ottenuto una casa perché il suo fratello maggiore era morto combattendo durante la prima parte della guerra contro i serbi.

La scuola si trova in un edificio di tre piani completamente ristrutturato, e non presenta più nessun segno della guerra. Ci apre il portone uno studente che sta svolgendo il suo turno di portiere.

All'interno, nell'atrio, sulla parete di sinistra è stata dipinta una bandiera dell’Unione Europea e nella parete opposta campeggia lo scudo a scacchi rossi e bianchi simbolo della "ex-Republika di Herceg-Bosna", l'entità croata inventata durante la guerra da Mate Boban, che mirava ad avere come capitale Mostar per poi dividersi dalla Bosnia e unirsi alla "madre patria" Croazia. Il trattato di Dayton però, riconoscendo l'unità della Bosnia, ha sancito anche la fine di questo neo-stato.

Lungo il corridoio, sotto il vetro di una bacheca in legno, ci sono alcuni disegni che raffigurano, in maniera a volte anche stilizzata, vari crocifissi. Più avanti c'è anche una specie di mostra fotografica che documenta lo stato della scuola durante la prima fase della guerra contro i serbi, nel '92: si può vedere il piano superiore dell'edificio quasi interamente crollato e altre distruzioni causate dalle granate. Ora, dopo quattro anni, non c'è più nessuna traccia di questo. Qui ci troviamo in una vera scuola, ristrutturata, e non in locali di emergenza. Sull'altro lato del corridoio c'è addirittura un piccolo teatro per le attività scolastiche.

Anche l'ufficio dove ci riceve la preside è un ufficio normale, simile a quello che vediamo in tante nostre scuole: oltre alla scrivania, arredata anche con un personal computer, c'è un tavolo per le riunioni e delle comode sedie rivestite in pelle. Qui la vita, almeno in questi aspetti più esteriori, sembra aver già ripreso il suo corso normale. Anche loro, ci diranno, hanno ricevuto dall'Unione Europea aiuti per la ricostruzione.

Ci presentiamo alla preside e spieghiamo lo scopo della nostra visita. La nostra ospite si scusa per averci fatto attendere e per il clima che c'è oggi a scuola: "Ho poco tempo da dedicarvi, il grave attentato di questa notte ha ferito alcuni dei nostri alunni e ancora non sappiamo se sono gravi o se ci sono anche dei morti."

E’ visibilmente agitata e preoccupata. Ci impegniamo a rubarle poco tempo e a interrompere l'intervista in qualsiasi momento, se lei dovesse ritenerlo opportuno.

Gli chiediamo di presentarci la scuola e di raccontarci com’era la situazione durante la guerra.

"Questa è stata sempre la scuola più grande di Mostar; attualmente abbiamo 1412 bambini e le lezioni sono organizzate in tre turni. Durante la guerra erano solo 600. Come avete visto dalle foto esposte nell'atrio la scuola era molto danneggiata ed eravamo costretti a fare lezione solo ai primi piani, in quanto restare all’ultimo piano voleva dire esporsi all’artiglieria serba. Il periodo peggiore è stato dal 1992 al 1994. Ovviamente durante i periodi peggiori della guerra più che le vere lezioni didattiche spiegavamo ai bambini come nascondersi, come riconoscere una sirena, cosa fare una volta sentito l’allarme e come andare verso i rifugi. Durante i bombardamenti gli insegnanti dovevano essere un po' psicologi o assistenti sociali, e tranquillizzare i bambini, parlare con loro e raccontare delle storie.

Il primo giorno di guerra, mi ricordo, sono arrivati i genitori per riprendersi i ragazzi ma a causa del bombardamento siamo stati costretti ad ospitare anche loro"

Chiediamo se la scuola è frequentata solo da ragazzi croati. "No, abbiamo circa il 10% di ragazzi e anche di professori musulmani. I rapporti multietnici sono necessari, -sottolinea-, ma purtroppo non funzionano ancora. Prima della guerra anche io lavoravo in una scuola ad est ma poi ho dovuto trasferirmi ad ovest. Oggi ancora non vogliono restituirmi, in quella scuola, il libretto di lavoro, nonostante che l’attuale preside allora era un mio amico." E poi aggiunge: "Voi siete stati anche ad est ma non credo che abbiate trovato una situazione simile, di accoglienza delle minoranze". Rispondiamo che sì, abbiamo trovato situazioni simili e lei commenta più o meno così: "Le persone che non ci conoscono non sanno queste cose e non possono saperle finché non vengono qui a vederle". Di simile sicuramente, pensiamo tra noi, abbiamo trovato lo stesso tipo di risposta: "Da noi le minoranze possono vivere tranquille ma dall'alta parte no". Sarebbe interessante poter approfondire come queste minoranze realmente sono accettate da una parte e dall'altra, ma non è semplice verificarlo: la diffidenza reciproca e "spontanea" che mostrano nel parlare di queste cose appare già abbastanza eloquente.

La preside sostiene anche che la storia della pulizia etnica da parte dei croati di Mostar ovest contro i musulmani non ha fondamento e che in realtà sono stati proprio i musulmani a scappare di loro iniziativa nella parte est della città.

"Strano -ribattiamo- le storie che abbiamo sentito raccontare nella parte est sono diverse". Nonostante la traduttrice modifichi, addolcendola, la nostra risposta, l’atmosfera tra noi e la nostra intervistata diventa tesa, così decidiamo di smorzare i toni e cambiare discorso, anche per non esporre troppo la nostra interprete, esempio vivente di queste minoranze.

Chiediamo alla preside di illustrarci se e quali sono le differenze fra il vecchio programma didattico della Jugoslavia e quello attuale, e inoltre se si tratti di un programma comune a tutta la Federazione Croato-Bosniaca o "personalizzato" per questa parte della città.

"No, il programma non ha subito grossi cambiamenti. Nella letteratura ora si studia di più la nostra lingua, il croato, e si da più spazio anche all’inglese. Per quanto riguarda la storia si presta più attenzione alla storia nazionale di tutta la Bosnia ma io non sono molto soddisfatta. Mi piacerebbe che si studiasse di più anche la storia di questa guerra attuale. Il programma però lo prepara il "governo cantonale" e non dipende da noi. Il programma di storia comunque non si arresta alla seconda guerra mondiale, così come del resto era il programma scolastico al tempo della Jugoslavia. E' più o meno come prima, si studia tutto, con un'attenzione in più alla storia nazionale dei croati, ma senza altre differenze rispetto a prima."

Dal momento che ci troviamo in Bosnia restiamo subito colpiti dall'espressione usata: la storia nazionale dei croati, come pure la maggior attenzione alla "nostra lingua, il croato". La nostra intervistata continua a spiegarci: "Noi croati abbiamo solo una repubblica sul "foglio" che nessuno ha mai voluto accettare. L’Herceg-Bosna ora non esiste più, è diventato solo un posto, una zona dove far vivere i croati. Noi ci troviamo così in una situazione difficile perché ora questo, come Stato, è la Bosnia."

Insistiamo nel chiederle se allude ad una voglia di ritorno della Herceg Bosna o intende comunque qualche altro modo per risolvere questi problemi di identità. Per spiegarci cosa intende realmente ci mostra la carta intestata usata dalla scuola, per provarci che non c’è scritto Herceg-Bosna bensì BiH-Bosnia Erzegovina, il loro nuovo stato unitario, così come c'è scritto anche nella carta intestata che si usa nelle scuole di est. La mancanza però di uno stato di riferimento "per i croati" continua a trasparire: si sentono come in una "riserva", se l'espressione usata dalla nostra interprete nel tradurre è esatta e ha lo stesso significato che le attribuiamo noi. Si sentono un po' orfani della loro Republika che Mate Boban aveva creato a suon di cannonate e che poi gli americani a Washington, con un colpo di penna, hanno cancellato, obbligando croati e musulmani di Bosnia a federarsi insieme, il 1° aprile del 1994: ironia e potenza delle date.

"Spiegare tutto questo ai nostri bambini è difficile perché non è ancora chiaro nemmeno a noi adulti", conclude la nostra interlocutrice.

Proseguiamo il colloquio chiedendo come è organizzato l'insegnamento della religione. "Attualmente non è insegnata nessuna religione ma è previsto che s’inizi tra breve. Fra qualche giorno verrà a fare delle lezioni un frate francescano. I genitori degli alunni dovranno firmare un foglio se vogliono accettare o meno l’insegnamento della religione."

Dal tono via via più secco e deciso delle risposte ci accorgiamo che le nostre domande non sono molto gradite. Ha altro per la testa questa mattina la nostra preside che non perdere tempo dietro a noi e a quelle domande che in qualche momento scambia per delle provocazioni. Quando chiediamo se viene insegnato solo l’alfabeto latino o anche quello cirillico, ci risponde quasi bruscamente che è il latino l'alfabeto usato in Europa e quindi è insegnato solo quello. Dopo questa risposta riceve una telefonata e si assenta per alcuni minuti. Al rientro appare ancora più preoccupata di prima. Ci dice di aver ricevuto cattive notizie sull’attentato e che ci sono tra i feriti anche alcuni suoi alunni. Non poteva esserci un giorno peggiore per questa intervista. Riprendiamo di nuovo la discussione e la preside corregge la risposta precedente, spiegando che in base al programma ministeriale del nuovo Stato sarà insegnato, nelle prime classi, anche l'alfabeto cirillico.

Proseguiamo, cercando di accelerare e concludere l'intervista. Chiediamo quali sono i poeti e gli scrittori della Bosnia che occupano uno spazio più importante nell'insegnamento.

"Tutti sono importanti per noi, anche quelli musulmani. Li studiamo tutti. Ad esempio Dizdar è un poeta musulmano ma ha scritto anche di noi croati e lo consideriamo un buon scrittore. Io comunque non mi occupo personalmente di questa materia e non so essere più precisa. Posso solo dire che sono tutti ugualmente importanti."

Gli chiediamo anche se Gavrilo Princip sia considerato da loro un eroe o un assassino. La risposta che otteniamo è la seguente: "Durante la Jugoslavia era considerato eroe e quindi lo è anche ora."

Infine, chiediamo anche a lei come alla preside della suola di est, come definiscono la guerra appena conclusa, quando la spiegano ai ragazzi: di aggressione o di indipendenza?

"Non ha ancora un nome. E’ ancora troppo presto. Questa guerra non è ancora finita, anche questa notte è scoppiata una bomba e questa mattina una madre mi ha telefonato dopo aver accompagnato il figlio all’ospedale. Non si sa mai cosa può accadere." Data la situazione la risposta arriva quasi ovvia e senza evitare allusioni ad un eventuale ruolo dei musulmani nell'attentato, con imbarazzo della nostra interprete che tra l'altro abita a cinquanta metri dal luogo dell'esplosione e, ci dirà più tardi, ha tra i feriti anche una sua amica.

Avremmo voluto avere un'occasione ben diversa per discutere con la preside di questioni così delicate, ma forse proprio la contingenza drammatica in cui ci troviamo, e la tensione che si è insinuata tra noi durante l’intervista rendono maggiormente evidenti le difficoltà in cui ancora vive la Bosnia e in particolare Mostar.

E' la stessa preside che con molta chiarezza ci conferma questo nel momento in cui ci salutiamo: "Le vostre domande non mi sono piaciute. Se lo avessi saputo prima non vi avrei ricevuto. Pensavo che vi interessasse sapere dei nostri bambini, di quello che hanno passato e come vivono ora. Invece avete fatto domande di politica e non sul programma didattico. Per queste domande ci sono gli uffici comunali. Cosa ne volete capire voi che vivete in Europa di come sia la vita per noi croati."

Al di là della situazione ci appare evidente che anche disponendo di migliori condizioni ci avrebbe guadagnato soltanto il tono più disteso della chiacchierata, restando sul fondo, intatte, le enormi difficoltà di dialogo tra i due lati della città.

Usciamo dalla scuola e ci rechiamo in un bar insieme alla nostra traduttrice. Ci scusiamo per averla coinvolta in questa situazione.

"Sapete, io sono musulmana anche se vivo ad ovest -ci spiega. Ho un familiare che è stato ucciso dai serbi, quando l’esercito croato-musulmano era unificato, prima del 1993. E' per questo che ci hanno dato il passaporto croato, così come lo hanno rilasciato per motivi particolari ai musulmani cui hanno concesso di restare ad ovest. Perché nella realtà se non riuscivi a dimostrare di "essere croato", se non avevi documenti croati, i poliziotti di notte ti cacciavano da casa e ti accompagnavano verso est. Molti dei miei amici sono finiti così dall’altra parte e non certo per libera scelta. Quello che ha raccontato la signora sulla capacità della scuola di accogliere senza problemi il 10% di studenti e insegnanti musulmani corrisponde al vero ma il tono usato è troppo formale, quasi ufficiale. Perché all'inserimento di fatto senza problemi veri di discriminazione si accompagna comunque un modo diverso, rispetto a prima della guerra, di percepire le persone e rapportarsi ad esse, con un'attenzione alle differenze etniche che ora è sempre ben evidente. Non è più come prima della guerra."

Sia i croati che i musulmani di Mostar si sentono orfani di qualcosa che non è facile identificare. I primi forse della madre patria Croazia, uno Stato che si trova oltre i confini attuali della Bosnia, tracciati sui confini amministrativi della costituzione titoista del 1975, quando comunque lo Stato era uno soltanto. I secondi forse di una cultura bosniaca repressa nell'ultimo secolo.

Tutti sostengono che la multietnicità sia una prerogativa essenziale della Bosnia, salvo poi tacciare gli "altri" di essere intolleranti o comunque non credere alla loro tolleranza. Nessuno ha cacciato via gli altri dalla propria casa, dicono tutti, per poi scoprire che nell’altro lato della città ci sono profughi dovuti uscire di notte dalla propria casa con le buone o con le cattive.

In un viaggio effettuato nel 1993 nei pressi di Belgrado, in un campo profughi ho conosciuto una famiglia serba di Mostar. Anche loro mi hanno detto che sono dovuti scappare a causa delle angherie subite dai musulmani.

"Una guerra di aggressione o una guerra senza nome che ancora non è finita": è questo forse il dato più rilevante emerso. Se queste basi dovessero irrigidirsi o chiudersi, senza trovare la strada per evolversi, la storia insegnata alle nuove generazioni, e non solo nelle scuole, potrebbe fornire ancora buoni argomenti a favore dell’odio degli uni verso gli altri. Forse proprio per questo è importante parlare di queste cose, costringere con pazienza alla discussione, perché il problema è enorme e non può essere nemmeno cancellato via con un semplice colpo di spugna, come se nulla fosse accaduto ("Non posso perdonare così, con leggerezza", diceva la signora di Stolac). C’è da augurarsi dunque che da nessuna parte le risposte siano cercate con disinvoltura e sbrigativamente, ma attraverso i mille dubbi che si rendessero necessari, anche se tutto questo è faticoso. Del resto, forse senza neanche rifletterci approfonditamente, le stesse presidi riconoscono anche, quasi all’unisono, che: "Spiegare tutto questo ai nostri bambini è difficile perché non è ancora chiaro nemmeno a noi adulti."



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