Si legge
in un muro all’ingresso della cittadina
"Prima della guerra qui a Stolac vivevano circa 30 mila persone, 8/10 mila in paese e gli altri nei villaggi. I rapporti tra le persone erano normalissimi, senza nessun problema, non si prestava attenzione se uno era serbo, croato o musulmano. Solo pochi badavano all'etnia. Poi, verso la fine del 1991, quando c'era già la guerra a Vukovar, in Croazia, le cose hanno iniziato a cambiare. Ci siamo accorti che ogni venerdì sera i serbi andavano via. Si radunavano tra loro nei paesi di montagna, dai loro parenti o presso le loro case. Anche prima della guerra andavano nelle loro case di campagna, ma non nello stesso modo. Qui a Stolac i serbi erano circa 6 mila e sono stati i primi a credere che la guerra sarebbe scoppiata anche in Bosnia. Avevano paura -dicevano- che in questa zona sarebbero venuti i soldati croati. Noi non volevamo credere che la guerra sarebbe scoppiata anche qui. Invece avevano ragione loro. Soltanto che all'inizio, nel mese di maggio del 1992, sono state le milizie serbe le prime ad entrare in città. Ricordo ancora bene quel giorno, quando sono arrivati i carri armati serbi, con i simboli della croce e le quattro "C" a schiena contrapposta (in italiano: Solo l’Unità Salverà i Serbi). Allora, vedendo come erano bene organizzati, mi sono resa conto che la guerra sarebbe stata dura e lunga. L'occupazione serba invece è stata breve, circa un mese, e non è stata troppo dura se confrontata con quello che ancora doveva accaderci. I serbi non hanno cacciato via le persone dalle proprie case. Sono scappati da Stolac solo quelli che avevano paura, e cioè in maggioranza i croati che si sono trasferiti lungo la costa dalmata. Non ci sono stati molti episodi di violenza. La situazione non sembrava troppo pericolosa, si poteva camminare in città."
La signora che racconta questa storia
è musulmana ed è rientrata qui, nella sua casa di Stolac,
da poche settimane, nel giugno del '97, dopo circa 4 anni di esilio. Fa
parte del primo gruppo di 47 famiglie musulmane rientrate. Prima della
guerra i musulmani erano la maggioranza a Stolac, poi nel 1993 sono stati
evacuati totalmente dall'HVO, l'esercito croato dell'Erzegovina. Il gruppo
più consistente fu trasferito a Mostar, solo trenta chilometri più
in là, dove condivise con gli altri musulmani della città
gli effetti della guerra croato-musulmana, con l'accerchiamento e i bombardamenti
sul lato est della città. Tuttora la comunità di "Stolac"
conta a Mostar circa 8 mila persone. Da lì, in questi due anni dopo
gli accordi di Dayton, i loro rappresentanti hanno fatto il possibile per
concludere accordi con i leader croati e iniziare il rientro della loro
gente alle vecchie case. Gli accordi siglati o verbali sono stati diversi
ma poi, nella realtà, gli autobus con i primi musulmani che rientravano
sono stati bloccati più volte dai croati di Stolac e respinti con
lanci di pietre e agitare di bastoni. Tra questi croati ve ne sono molti
che a loro volta sono stati trasferiti qui da altre zone della Bosnia,
dopo essere stati cacciati dalle loro case o dai serbi o dai musulmani.
Diversi di questi croati non possono più tornare alle loro case,
o perché sono distrutte o perché sono occupate da altri.
E' tutto un intricato intrecciarsi di situazioni non facili da districare.
Poi, alcune settimane fa, è stato possibile far rientrare a Stolac
un primo gruppo di quarantasette famiglie musulmane e iniziare ad inviare
con una certa regolarità, sempre da Mostar, alcune squadre di operai
per "ristrutturare" le prime case da abitare.
"Noi abbiamo iniziato a lavorare circa un anno fa", ci dicono due operai che abbiamo incontrato in questa casa, "ma è tutto molto difficile. Arriviamo da Mostar in corriera e protetti da una scorta, e la sera ritorniamo a dormire a Mostar. Anche qui lavoriamo sotto la protezione di una scorta ma si tratta di una protezione generica. Ci sono pochi poliziotti e pochi soldati dello SFOR che fanno alcuni giri di ronda e basta. Non stanno sempre lì a sorvegliare il nostro lavoro, oppure le case quando noi ce ne andiamo. E' capitato più volte che dei croati abbiano ridistrutto una casa appena aggiustata. C'è una casa ad esempio che hanno distrutto tre volte e noi ogni volta abbiamo dovuto ricostruirla. La situazione è molto tesa. Ci sono talvolta momenti più tranquilli. Allora, se abbiamo necessità, usciamo anche dal quartiere, ad esempio se dobbiamo andare all'ufficio postale. In genere però cerchiamo di evitare di andare in paese, o se ci andiamo non ci tratteniamo a lungo. Non possiamo neanche andare a vedere le nostre case, perché anche noi siamo originari di Stolac ma abitavamo in un quartiere diverso, dove le autorità croate non hanno concesso il rientro. Cerchiamo di evitare problemi perché non è sicuro, nessuno ci garantisce che qualche croato non venga a provocarci o a infastidirci. Qualche volta capita anche che dei croati ubriachi o maleducati ci provocano. Adesso, negli ultimi tempi la situazione però appare più tranquilla."
In questi racconti l'espressione "ultimi tempi" non deve trarre in inganno chi come noi è abituato a misurare gli avvenimenti con un metro diverso. Qui il tempo, nonostante la guerra sia ufficialmente conclusa due anni fa, continua ancora ad essere scandito giorno per giorno, come in una sorta di improvvisazione continua, in base a ciò che può accadere di momento in momento. Noi che stiamo ascoltando ci renderemo meglio conto di questa precarietà, in termini concreti, circa sei o sette ore più tardi, quando nel cortile del comando della polizia di Mostar ovest scoppierà una potente auto bomba.
Per ora i nostri due operai continuano a spiegare: "Ad esempio, venti giorni fa ci sono stati problemi. Ci hanno preso a sassate quando eravamo in corriera, così siamo stati scortati di nuovo verso Mostar. Poi però nelle ultime due settimane la situazione è un po' migliorata e abbiamo ripreso a lavorare. Speriamo che continui così. Le prime famiglie sono già rientrate a Stolac e noi dobbiamo preparare ancora altre case."
Il quartiere dove ci troviamo si sviluppa dentro una piccola valle a sud-est del paese, lungo la strada che esce da Stolac e va verso Trebinje, nella zona controllata tuttora dai serbi di Pale. Sulle montagne che si alzano ai lati della stretta valle si vedono benissimo a occhio nudo i resti delle postazioni da dove sparavano i cecchini serbi. Per arrivare qui dalla strada che scende da Mostar occorre attraversare tutto il paese. Quando siamo arrivati non abbiamo incontrato nessun posto di blocco di polizia e il quartiere era deserto. Non c'era nessuno. Poi abbiamo trovato alcuni soldati spagnoli fermi vicino ad un blindato e una soldatessa con la mitraglietta in mano che osservava la strada vuota. Solo quando siamo scesi dall'auto e ci siamo incamminati a piedi lungo i sentieri che attraversano giardini e fiancheggiano ora muri bianchi appena verniciati e ora ruderi e macerie, abbiamo incontrato alcune persone che lavoravano, pulivano, apportavano gli ultimi ritocchi alle abitazioni prima dell'arrivo dei loro familiari. Con il sole del caldo pomeriggio di settembre, i muri tutti bianchi delle case, gli alberi con le mele granate mature, la calma sospesa e il silenzio, il quartiere aveva quasi l'aspetto di un villaggio turistico in bassa stagione, quando ogni eco di vita sociale è svanito. Ancora è abitato soltanto da poche decine di persone che vivono sotto scorta militare, come in una riserva, rinchiuse e isolate dal resto del paese. Dipendono in tutto e per tutto da Mostar.
"Non è stato facile rientrare", prosegue la nostra amica. "Abbiamo provato diverse volte. La prima volta, quasi due anni fa, non mi hanno fatto passare. Il viaggio era stato organizzato dal nostro rappresentante "Meho" Dizdar. C'era ad attenderci un gruppo di croati che ci ha lanciato uova e sassi colpendo l’autobus, anche se eravamo scortati dallo SFOR. Io sono venuta ogni volta che un gruppo cercava di rientrare, con la corriera o con il camion. La prima volta che sono riuscita a entrare è stato poco più di un anno fa. Allora ho rivisto il mio appartamento, non era distrutto o occupato da altri. Era solo un po' bruciato. Però non potevo rientrare lì, perché si trovava in un'altra zona della città che i croati non volevano restituirci. Questa dove ci troviamo ora, in questo quartiere, è la casa di mia madre che è rimasta a vivere in Germania assieme a mio padre e così, solo così, sono riuscita ad avere il permesso di tornare.
Il permesso l'ho avuto solo io, per me e per mia figlia. Non posso far vivere in questa casa altre persone perché le autorità croate decidono non solo la casa da concedere ma anche le persone che devono viverci.
Ora abito qui da poco più di un mese. Non posso dire che è bello vivere così, ma non posso neanche dire che è male perché finalmente sono qui. La vita è molto dura. Mia figlia non può andare a scuola con i bambini croati perché non la vogliono, così deve andare a scuola a Mostar, con la corriera che viene a prenderla. Però tra dieci giorni, forse, verranno da Mostar altri ragazzi di Stolac, e forse ci sarà una scuola per musulmani. Sono ragazzi di famiglie che ancora non possono rientrare e che quindi continueranno ad abitare a Mostar. I loro ragazzi però inizieranno a venire a scuola qui, con la corriera, e insieme a loro verranno anche gli insegnanti da Mostar.
In tutto dovrebbero essere circa 20 o 25 bambini, di diverse età, divisi dalla prima elementare alla terza media. Avranno una loro scuola in un locale separato dalla scuola dei croati. Purtroppo non sarà facile per gli insegnanti avere tutti insieme ragazzi di età così diverse. Non è una bella situazione per ora ma io credo che presto, forse non nel prossimo mese ma tra un anno o due, si potrà tornare a vivere tranquilli. Magari non proprio come prima della guerra, con la stessa amicizia che c'era allora tra le persone, perché una differenza rimarrà sempre nei confronti di persone che hanno ucciso e ti hanno fatto del male. La vita tornerà normale ma non tornerà l'amicizia.
In attesa che arrivino questi nuovi ragazzi da Mostar è mia figlia che ogni giorno va a scuola in corriera. Qui per ora ci sono solo due bambini, lei e un altro. Quindi mia figlia non ha molta compagnia per giocare. Sta qui, davanti alla casa, gioca con poche cose, con il gatto o con due galline che sono qui attorno. Spesso passano per Stolac delle associazioni umanitarie e allora si fermano tutti a casa nostra, perché sanno che c'è una bambina. Si fermano, giocano un po' con lei, scattano delle foto.
La vita scorre così. Io, come tutti gli altri che siamo ritornati, non posso lavorare. Viviamo con gli aiuti che i nostri amici ci spediscono da Mostar. Tutti dipende da Mostar e se qualche volta gli aiuti tardano dobbiamo arrangiarci. Magari qualche volta c'è poco da mangiare e allora si saltano i pasti, in attesa degli aiuti. Noi non possiamo fare nulla per noi stessi, tranne restare qui, nelle nostre case."
Il ritorno alla convivenza tra croati e musulmani è un argomento di cui si discute con qualche difficoltà. Come dice la nostra amica, tra un anno o due forse tutto ritornerà normale e tranquillo, la vita riprenderà ma non ci sarà più la stessa amicizia di prima. Qualcosa è cambiato. Però, parlando e scorrendo con loro i piccoli episodi quotidiani scopriamo che comunque la convivenza riprende, seppure molto lentamente e tra grandi paradossi e difficoltà. Il dialogo è quasi del tutto assente tra queste persone divise dalla guerra. Da un lato i croati, alcuni già cittadini di Stolac e altri trasferiti qui dalle loro località lontane, e dall'altro i musulmani che vivono trincerati nel loro quartiere, chiusi e protetti come in una gabbia, dipendenti in tutto e per tutto dai loro concittadini ancora sfollati a Mostar. Però, nonostante questo, il solo fatto di essere qui costituisce una novità rilevante, che stimola i primi contatti tra le persone, anche se ancora l’imbarazzo è grande.
"Come è la convivenza tra croati e musulmani? Posso dire che c'è ancora un grande odio. Non dovete pensare che io odio i croati in quanto tali. Odiamo quei croati che hanno fatto quelle cose, che hanno ammazzato, gli estremisti, o le persone che hanno commesso gesti estremi, che ci hanno cacciato dalle nostre case e le hanno distrutte. Questi sì, li odio profondamente e influenzano il mio modo di vedere i croati in generale. E' molto difficile avere rapporti con loro. Io non vado a cercare nessuno e mi reco giù in paese solo quando devo andare alla fontana a prendere l'acqua. Allora capita anche che qualche croato si avvicina e mi insulta pesantemente, vuole provocarmi ma io non reagisco, non voglio e non posso reagire, rispondo come se nulla fosse: "buongiorno, io sto bene, grazie", non faccio capire che mi disturba la sua provocazione anche se dentro mi sento scoppiare. Questi croati che fanno così mi fanno ridere, sono dei poveri. Ma non sono tutti così. Succede anche che alcuni croati vengono qui a casa mia. Sono persone che prima della guerra erano amici o vicini di casa. Ora vengono qui e io, anche se non li gradisco, non posso cacciarli da casa mia, devo riceverli. Si mettono seduti, io preparo il caffè e loro stanno qui, parlano di fatti privati, chiedono cosa fai, come stai, cosa è successo, e basta. Si parla esclusivamente del più e del meno. Non capisco bene perché vengano. Non lo fanno con arroganza. Chiacchierano, stanno un po' e poi se ne vanno. Non c'è nessuna amicizia, i rapporti sono freddi. Io li caccerei via volentieri da casa mia ma non posso farlo, devo dimostrare che li accetto, anche se conosco quello che hanno fatto durante la guerra e come si sono comportati ad esempio con mio marito, i torti che gli hanno fatto subire ma non posso fare niente per dire loro queste cose. Devo solo stare zitta, aspettare che bevano il caffè e se ne vadano via. Mi raccontano favole, dicono: "non è colpa nostra, siamo stati costretti a fare la guerra con la forza, noi non volevamo". Forse cercano un perdono questi croati che vengono qui a casa mia a bere il caffè, ma io non posso perdonare così, con leggerezza."
La nostra amica vive qui da sola con sua figlia. Suo marito purtroppo non è sopravvissuto alle fatiche della guerra e ai problemi sorti dopo la "liberazione" di Stolac dalle milizie nazionaliste serbe. Raccontare quegli avvenimenti non è facile, le stesse date si accavallano in modo disordinato, con salti in avanti e ritorni indietro, come se la forza delle emozioni non consenta ancora di riordinare i propri ricordi.
"La nostra famiglia era composta da tre persone. Io lavoravo come operaia qui a Stolac, in una grande fabbrica tessile con diverse centinaia di operai. Mio marito era un economista e lavorava molto prima della guerra poi però, nel 1991, ha iniziato a diminuire le sue ore di lavoro e poi ha smesso del tutto. All'inizio della guerra con i serbi c'era una sola armata composta da croati e musulmani, ma già allora erano i croati a dirigere. Sembrava un esercito croato più che un esercito misto. L'occupazione serba di Stolac è iniziata nel maggio del 1992, ma già poche settimane dopo i serbi si sono ritirati, senza veri combattimenti. Così il 16 giugno del 1992 è entrata a Stolac l'HVO, l'armata croata. Già un'ora dopo il loro arrivo avevano messo dappertutto le loro bandiere croate, e non quelle della Bosnia, e andavano in giro per il paese cantando inni croati. Dicevano che era soltanto merito loro se i serbi erano stati cacciati, mentre i musulmani avevano favorito l'ingresso dei serbi. Fin da subito era evidente che le cose non andavano bene, però allora si combatteva ancora tutti insieme contro i serbi, che intanto continuavano a sparare dalle montagne vicine. La situazione è precipitata un anno dopo, nel maggio del 1993, quando è stato raggiunto un accordo tra croati e serbi. Allora è finita ogni finzione di esercito misto di croati e musulmani e hanno iniziato ad arrestare tutti i nostri uomini.
I musulmani avevano già molti problemi e avevano subito cose brutte. Venivano minacciati, fino a che è arrivato l'ordine di prenderli e portarli nei campi di concentramento, iniziando dai più importanti, come "Meho" Dizdar, i nostri poliziotti, le persone più in vista. Soprattutto "Meho" Dizdar ha avuto molti problemi per aver cercato di aiutare i musulmani, prima con i serbi e poi con i croati che lo hanno mandato in prigione. I croati lo hanno accusato di tradimento perché, dicevano, lui non si era opposto in precedenza all'ingresso dei serbi a Stolac ma li aveva aiutati ad entrare.
Per la mia famiglia è stato molto difficile. Ancora faccio fatica a ricordare queste cose. All'inizio, nel 1992, io e mio marito siamo rimasti qui, mentre mia figlia è andata a Gradac, sulla costa dalmata, con la nonna. Poi, nel 1993, quando i croati hanno portato via i nostri maschi, hanno arrestato anche mio marito. Io invece sono rimasta ancora un po', insieme alle altre donne, fino a quando qualche mese dopo, in agosto, hanno portato via anche noi. Ci hanno trasportato un po' con il camion e poi siamo state costrette a proseguire a piedi fino a Blagaj, a pochi chilometri da Mostar. Più tardi io ho ripreso mia figlia, che era ancora in Croazia ed è stata accompagnata da me da un croato. Mio marito intanto era stato portato sulle montagne con l'esercito, ma poi si è ammalato. Noi siamo vissuti sempre vicino Blagaj e non sapevamo niente di Stolac e della nostra casa. Sapevamo soltanto che si erano trasferiti a Stolac altri croati che venivano da località diverse dell'Erzegovina. Solo più tardi abbiamo saputo che molte case erano state distrutte e incendiate. Anzi, molte case, più di mille, sono state distrutte dopo gli accordi di pace del 1995. Dopo la nostra cacciata da Stolac è stata distrutta completamente anche la Moschea; l'avevano già incendiata e saccheggiata quando noi ancora eravamo qui e poi hanno finito di distruggerla."
La Moschea la "vedremo" quando più tardi usciremo in auto dal paese, o meglio, "non la vedremo" perché al suo posto è rimasto solo un largo piazzale polveroso che viene utilizzato come parcheggio per le auto. Uscendo dal paese con le nostre amiche che ci hanno accompagnato da Mostar, Sena e Razija, che sono madre e figlia ed entrambe originarie di Stolac, abbiamo anche l'occasione di sperimentare alcune delle cose raccontate poco prima. Lungo la strada un signore croato di Stolac le riconosce e ci invita calorosamente a fermarci. Ne nasce un breve ma affettuoso saluto, tra due persone che non si vedono dal 1993 e che prima della guerra lavoravano insieme in una fabbrica di abbigliamento che si trova qui in paese. Quando ripartiamo il loro amico le saluterà più o meno in questo modo: "Mi dispiace che sia andata a finire così". Poi, prima di lasciare Stolac, non possiamo fare a meno di passare con l'auto davanti alla casa delle nostre amiche, che si trova nel quartiere ancora proibito. Vogliono solo darle un'occhiata. Infatti, non possiamo fermarci, non è prudente, è già rischioso soltanto passare di qui, lungo questa stradina senza sbocco e che quindi dobbiamo percorrere due volte.
I nostri ricordi vanno all’aprile del 1994, quando Sena ci chiese di andare a vedere se la sua casa era distrutta oppure no. Anche allora percorremmo la stradina due volte e senza fermarci. Attorno alla casa era pieno di soldati ubriachi in compagnia di alcune ragazzine. Sul muro c'era una scritta con la vernice rossa: "Sex and Drugs". L’abitazione fungeva da bordello per le truppe. A Sena rispondemmo con una bugia: "La casa è intatta e disabitata".
Ora non si vede nessuno. Mentre
passiamo guardano la loro casa quasi con la coda dell'occhio, come se dovessero
nascondersi o fingere indifferenza: "To'! quella è casa mia!"