di Dario
TerziÊ
"Sono Dario TerziÊ. Prima mi definivo Bosniaco Cattolico. All’inizio della guerra ti costringevano a dichiarare da che parte stavi e così io ho scelto la definizione più vicina a me, anche se era problematico perché non sono mai stato credente. Da questo punto di vista, definirsi così forse era più adatto per la mia famiglia. Io ho deciso di definirmi Bosniaco Cattolico perché questa entità era stata tradita da tutti. Pur essendo stata dichiarata all’inizio come status dal Governo Bosniaco, poi era stata rigettata anche da loro. Ora, dopo la guerra, nella situazione attuale, non ho più bisogno di cercare un’identità di questo tipo perché per quanto riguarda il "cattolico" potrei essere più facilmente un buddista."
Abbiamo atteso due giorni per questo incontro. Dario TerziÊ è sempre molto impegnato. Pur non avendo un lavoro fisso, e pur avendo un carattere riservato, è una persona molto disponibile e capace di assumersi diversi impegni contemporaneamente. Per questo è anche un punto di riferimento per tutte quelle piccole associazioni umanitarie che lavorano a Mostar est, in special modo italiane, anche perché parla quasi correttamente l’italiano. La sua storia personale è contraddistinta da gesti e scelte a volte radicali, che lo hanno portato all’isolamento all’interno delle rappresentanze sia giornalistiche che culturali di Mostar, oramai quasi tutte allineate con il potere locale. Dario TerziÊ è un giornalista, si interessa di musica e nel 1994 è stato anche inviato al Festival di Sanremo come rappresentante del neo Stato, allora in guerra, la Bosnia Erzegovina. Forse è anche con l'occhio del giornalista che ha vissuto dentro gli avvenimenti di questi anni, come in un reportage che questa volta non era da mostrare ad altri ma bisognava vivere e percepire dall'interno.
"Nel novembre del 1991, durante la caduta di Vukovar in Croazia, da noi la guerra non era ancora iniziata. E' vero, siamo stati un po' stronzi, pensavamo che la guerra l’avevano cercata. Sono stati loro a provocare, dicevamo, sono lontani da noi e qui non potrà mai accadere. In quei giorni lavoravo in un giornale chiamato "Sloboda", che non c’è più dal 1997, e ricordo che dopo la caduta della città di Vukovar in mano alle milizie serbe uscimmo con un titolo così: "Mostar dopo Vukovar". Certamente non eravamo dei premonitori, volevamo solo mettere in risalto come Mostar fosse, dopo Vukovar, la città con più matrimoni misti in tutta la Jugoslavia. Abbiamo giocato provocatoriamente con questo dato, il doppio senso voleva metter paura alla gente. Perlomeno a Vukovar la guerra è durata molto meno.
Una cosa che accomunava tutti noi mostarini è che nessuno ci credeva che la guerra sarebbe arrivata anche qui. Tutti pensavamo che non sarebbe mai accaduto. A Mostar avevamo sempre vissuto insieme senza problemi e distinzioni. Neanche quando la guerra è iniziata, nel 1992, eravamo coscienti. Pensavamo che sarebbe durata uno o due giorni e consideravamo pazzi chi sosteneva che sarebbe durata anni. Si sentiva dire: qualcuno spara. Ma chi spara? Contro chi spara?
In quel periodo l’Esercito Popolare Jugoslavo (JNA) era il nostro esercito legale e io ho impiegato giorni per capire che era proprio quell’esercito, quel mio esercito, che sparava contro di me. E’ stata la mia prima sconfitta. Possono anche tentare di farmi credere che sono stati provocati, però sono loro che hanno sparato sui civili, sulle donne, sui bambini, e poi contro i palazzi distruggendo gran parte della mia città.
No, non posso giustificarli. E’ anche vero che per fare una guerra occorrono almeno due eserciti, ma anche su questo Mostar è particolare. Qui ce n'erano tre di eserciti, il che è stato ancora peggio. Dopo la guerra del '92, nel '93 è scoppiata la guerra tra croati e musulmani."
La sua abitazione si trovava ad ovest della riva del fiume Neretva, che divide Mostar in due parti. Nella primavera del 1993, quando salta l’alleanza croato-musulmana in Erzegovina, la parte ovest della città diventa di fatto il capoluogo della neo proclamata Repubblica di Herceg Bosna e le truppe dell’HVO, il Consiglio di Difesa Croato, attaccano l’esercito governativo attestato nel lato est della città e lo chiudono in assedio.
"Io allora lavoravo alla Radio Ratni Studio Bih e non volevo lavorare per la radio dell’HVO. L’Esercito mi interrogò e mi chiese la nazionalità. Io mi dichiarai "bosniaco di religione cattolica" e venni considerato un traditore. Mi fecero indossare una mimetica dell’esercito HVO e mi accompagnarono al fronte di guerra che divideva la città lungo il Bulevar Narodne Revolucije. Mi spararono da tutte e due le parti ma riuscii ugualmente ad arrivare vivo dall’altra parte, neanche io so come. Una volta arrivato a Mostar Est rimasi lì. Un paio di mesi dopo in un ufficio del Comune trovai scritto nella documentazione che mi riguardava "nazionalità croato". Mi lamentai, dicendo di essere non un "croato" ma un "Bosniaco Cattolico". "Ci dispiace, fu la risposta, ma la definizione bosniaco cattolico non esiste". Ero rimasto fregato un’altra volta? In assenza di definizioni adatte al mio caso pensai che forse era meglio diventare: "nazionalità nessuno".
Quando sono stato a Bologna, dopo la fine dell'assedio nel 1994, avevo tutte le carte pronte per prendere la cittadinanza croata. Sarebbe stato molto più utile per gli spostamenti, rispetto al passaporto bosniaco. Dovevo solo andare al Consolato Croato di Milano, firmare alcuni documenti e diventare un croato: non ci sono andato, proprio non ce la facevo a vedere lo stemma dei croati sul mio passaporto. Davanti ai miei occhi c'era l’immagine di Mostar, di questa Mostar distrutta proprio da loro. Per me era, ed è, una ferita profonda. Io ad ovest ci sono nato e vissuto, ma ora non sento proprio nulla per quella zona. Ogni tanto ci vado dall’altra parte, a Mostar ovest, ma arrivo solo all’Hotel Ero, sede dell’EU situata vicinissimo al confine fra le due città. Li vedo i croati e simpatia non ne provo, anche se qualcuno di loro potrebbe essere un mio cugino o parente, considerate le mie origini croate."
Siamo seduti al Club Teatre, un ristorantino sulla Neretva da dove prima della guerra si poteva ammirare lo svettante e fiero "Stari Most". Un ponte che con una sola arcata raggiungeva la parte opposta del fiume alzandosi per ben ventisei metri sul livello dell'acqua, con una forma detta a "schiena d’asino". Fu terminato nel 1566 su progetto dell'architetto persiano Hairudin. La leggenda racconta che Hairudin scappò da Mostar la notte prima che il ponte fosse liberato dall’impalcatura che lo reggeva: troppo era bello ed alto per poter restare in piedi. Quattrocentoventisette anni dopo, il 9 novembre 1993, nel giorno esatto del quarto anniversario della caduta del muro di Berlino, il ponte fu abbattuto a cannonate da parte delle truppe croate che lo avevano definito un "obiettivo strategico". La leggenda in questo caso racconta che il carrista che ha assestato il colpo finale abbia ricevuto 100 dollari di ricompensa. Si conoscono nomi e cognomi di chi ha dato l’ordine e di chi ha sparato sul ponte. Le conversazioni sono state intercettate e rese pubbliche. Gli autori sono stati: il generale Slobodan Praljack dell’HVO e i comandanti: Milenko LasiÊ, Tihomir Buljan e Bruno KresiÊ.
"Contadini venuti dalle montagne. Così abbiamo pensato quando abbiamo visto cadere il ponte sotto le cannonate dell’artiglieria croata. Solo chi non era un vero mostarino poteva fare una cosa simile, poteva aver sparato contro il ponte. Poi quando abbiamo saputo i nomi ci siamo resi conti che fra di loro c’erano anche dei mostarini, dei veri mostarini sempre vissuti in questa città. Non ci giuro più che siano solo i contadini venuti dalle montagne la causa di ciò che è accaduto."
Sicuramente le divisioni sociali hanno costituito l’humus favorevole al lavoro di divisione dei nazionalisti. In seguito però hanno partecipato direttamente alle azioni militari anche cosiddetti intelluttuali o "cittadini". Ad esempio, una delle persone conosciute a Mostar ci riferiva di conoscere chi nel gennaio 1994, a guerra quasi finita, comandava la postazione da dove è partita la granata che ha ucciso i tre giornalisti italiani, Alessandro Ota, Marco Luchetta e Dario D’Angelo, della testata giornalistica regionale del Friuli. Si trattava di un mostarino, un ingegnere elettronico che alla sera tornando a casa aveva raccontato il suo lavoro del giorno ai vicini.
"Proprio quel giorno che ci fu l’esplosione alla Caserma Federale, oramai considerato da tutti il primo giorno di guerra, più di 30.000 mostarini sono usciti per strada per manifestare contro la guerra. E’ stata una cosa spontanea, non preparata.
Ricordo che quel giorno, il 5 di Aprile 1992, io stavo trasmettendo alla radio. Fummo informati da una telefonata che delle persone si stavano radunando spontaneamente per strada. Così siamo andati nell’attuale "Piazza Spagna" e da dieci persone che eravamo all’inizio, nel giro di pochi minuti siamo diventati migliaia. Abbiamo girato in corteo per la città gridando: "Ovoje Mostar-Questa è Mostar" e c’era anche chi portava grossi ritratti di Tito. Quella sera hanno fatto una danza tradizionale ed hanno ballato anche sotto la pioggia.
Il giorno dopo tutto era finito. Si è sparato di nuovo ma nessuno è più sceso per strada.
I serbi sono rimasti nella parte est di Mostar per circa tre mesi, poi si sono ritirati dietro le montagne, pur lanciando qualche granata ogni tanto. C’è stato un periodo di tregua di tre mesi circa, diciamo dal febbraio al maggio 1993, e tutti pensavamo che la guerra a Mostar fosse finita per sempre. Il 9 maggio 1993 scoppia la nuova guerra fra croati e musulmani. Anche allora ho pensato sarebbe finita dopo qualche giorno. Le trattative erano continue ma i mesi passavano.
La guerra a Mostar è iniziata nel 1992 e io mi sono accorto che si trattava di guerra solo quando è finita, nel 1994.
Nei mesi successivi, nonostante la tregua reggesse, avevo perso ogni speranza per il futuro e così me ne sono andato un periodo in Italia, a Bologna. Sembrerà strano ma avevo più speranze per il futuro durante la guerra che non dopo, quando era finita. L’attesa per qualcosa mi dava coraggio. Dice un detto: la certezza è bella ma l’incertezza ancora di più. E questo l’ho sperimentato sulla mia pelle, durante i nove mesi di assedio bastava una scatoletta di carne per far festa con gli amici."
Il Papa e gli U2, il sacro e il profano. Il primo è stato a Sarajevo nella primavera del 1997, i secondi vi andranno pochi giorni dopo la nostra chiacchierata con Dario.
Mostar Ovest è ancora tappezzata con i manifesti della visita pastorale del Papa, voluta tanto ostinatamente da questo anziano prete polacco durante la guerra, ma altrettanto negatagli ostinatamente da tutte le forze in campo, Comunità Internazionale in testa. Non per motivi di pericolo ma per una questione di equilibrismo politico. L’immagine del manifesto pubblicitario riporta un Papa che cammina sopra una bandiera a scacchi bianco-rossi, quella croata, con un pubblico che sventola bandierine della Herceg-Bosna, la Republika Croata di Erzegovina inventata da Mate Boban nel 1993. Una repubblica formalmente mai riconosciuta da nessuno Stato al mondo ma la cui bandiera campeggia anche sulle targhe automobilistiche che tuttora, nel 1998, è possibile vedere ad esempio sulle auto che sbarcano dal traghetto ad Ancona ed entrano nel nostro paese. Guardando il manifesto più attentamente, si vede che le bandiere dell'inesistente Republika dell’Herceg-Bosna sono degli approssimativi fotomontaggi, che stonano con la scritta che campeggia sopra la foto del Papa: "Sono con voi".
Mostar Est, la parte musulmana, è praticamente priva di questi manifesti ma in compenso ne troviamo altri più recenti: Pop Tour-U2. Anche su questo la città sembrerebbe divisa. La promessa fatta dal leader del gruppo, Bono Vox, nel 1995 a Radio Studio 99 si avvererà fra qualche giorno. Arriveranno finalmente, dicono tutti i ragazzi di Mostar, sia a est che a ovest. Si discute, si organizzano carovane di auto, le scuole saranno chiuse e i presidi acconsentono a organizzare pullman. Il prezzo del biglietto sarà di soli 15 marchi tedeschi. Un piccolo sacrificio alla portata di tutti o quasi.
Chi si ricorda del tour precedente degli U2, lo Zoo TV Tour, quando durante i mega concerti si collegavano in diretta via satellite con i ragazzi di Sarajevo sotto assedio? Chi si ricorda del progetto Passanger: Pavarotti, Bono, Eno, the Edge con la stupenda canzone Miss Sarajevo, il video che si concludeva con le immagini dell’elezione di Miss Bosnia Erzegovina edizione 1993, un’ostinata normalità sotto assedio? E chi si ricorda che quelle bellissime ragazze reggevano uno striscione con su scritto: "Don’t them killed us - Non lasciate che ci uccidano."
U2. Forse mai nessun gruppo rock si è impegnato così direttamente in favore della pace. Le tracce evidenti di questo impegno sono anche qui a Mostar est. Un edificio appena ricostruito svetta fra cumuli di macerie. E’ il Pavarotti MuziËki Centar, uno studio di registrazione fra i più moderni al mondo, costruito con i fondi ricavati dalle iniziative di Pavarotti, U2 e Brian Eno.
"Il giorno in cui è venuto il Papa in Bosnia io mi apprestavo a ritornare a Bologna - dice Dario a proposito di quella visita. No, non mi piace quello che ha fatto questo papa per la Bosnia, non sono d’accordo con lui. L’immagine che hanno dato i vostri telegiornali italiani, della visita del Papa come di un evento per tutte le etnie che compongono la Bosnia Erzegovina non corrisponde al vero. In special modo mi riferisco a quello che ha detto il TG1: sono un branco di stronzi. Il fatto è che non hanno mai avuto il coraggio di dire quello che hanno fatto i croati cattolici a Mostar. Sarebbe meglio che giornalisti come Filippo Landi & Co. non si rifacessero più vedere da queste parti. Hanno detto cose completamente sbagliate su quello che succedeva a Mostar: i serbi sono cattivi perché ortodossi, i croati buoni perché cattolici e i musulmani non sono né buoni né cattivi.
Invece Mostar è stata distrutta dai cattolici. Chi ha distrutto lo "Stari Most" portava la croce sul collo e questo è una vergogna. Io lo posso dire, ho il diritto di dirlo perché io sono un cattolico e non un musulmano, quindi imparziale.
Gli U2 andrò, invece, a vederli. Per me, come per tutti i giovani della Bosnia, questo è il vero segnale che la guerra è finita, un lento ritorno alla normalità. Forse per gli altri è stata la visita del Papa il segnale delle fine della guerra ma, vedi, il Papa è cattolico e parla solo per una parte, mentre gli U2 non fanno un discorso di religione: loro sono mondiali. Per il concerto sono previsti anche autobus provenienti dalla Republika Srpska, per la prima volta dopo la guerra dei giovani serbi, degli ex soldati o forse anche ex cittadini di Sarajevo ritorneranno da questa parte della Bosnia, senza distinzione etnica e saranno tutti dentro lo stadio Ko1evo. Questo grazie agli U2."
"A Mostar nulla è cambiato dopo la fine della guerra", dice Dario TerziÊ. "Mostar come Berlino: il muro della vergogna", è scritto con lo spray su un muro costruito lungo il lato ovest di quella strada che durante la guerra era la linea del fronte. E’ un muro lungo alcune decine di metri, pare che l’Amministrazione Europea lo abbia fatto abbattere già una volta ma poi sia stato ricostruito. Cerchiamo di capire chi è l’autore. Andiamo a vedere. Scopriamo che si tratta di un prolungamento del vecchio muro perimetrale di un convento francescano. I frati stanno anche costruendo una nuova e più grande basilica in cemento armato. Dicono che durante il governo di Tito era vietato costruire basiliche o conventi di grandi dimensioni. Ora finalmente possono allargarsi. Il muro dovrebbe servire solo a demarcare meglio il nuovo convento. E' solo una "coincidenza" che si trovi lungo il confine etnico-politico della città? Ma al di là dei muri e dei conventi, dei lavori di ricostruzione, o "dell’estetica" come dice Dario, come sono cambiate le persone attraverso queste esperienze così dure? E’ possibile rispondere a questa domanda o forse ancora è tutto troppo recente?
"Io, Dario TerziÊ, dico che sono rimasto sempre me stesso cambiandomi. Cambiare per rimanere sempre se stessi. Poi arriva la guerra e ti costringe a cambiare, e io sono diventato più duro, adesso ho capito, so chi veramente sono. In questa zona c’è un detto: perdonare ma non dimenticare. Io dico che non posso dimenticare, ma vivo adesso e non ho tanta voglia di ricordare. No, non perdonerò perché tante storie sono finite, tantissimi rapporti e relazioni sono finite e tante persone io non le posso perdonare per come si sono comportate.
Ma non c’è assolutamente vendetta, no, la vendetta non è nel mio modo di fare. Io penso che tutti dovranno essere puniti per quello che hanno fatto, spero che saranno puniti dall’universo e dalla Storia. Io non ci penso di sporcare le mie mani.
Nel paese, oltre all’estetica -sorride Dario TerziÊ, guardandosi attorno verso questi vecchi muri feriti che racchiudono la Neretva- è cambiato molto. Sono rientrato da Bologna perché a Bologna non c’è un bel fiume che passa dentro la città. Invece a Mostar c’è la Neretva. Chi viene a Mostar ogni tanto forse neanche se ne accorge di quanto è cambiata la città: tanta gente è arrivata dalle campagne portandosi nuove tradizioni e nuove abitudini. Ora tutti sono religiosi, ma è tutto falso; tutti ora si sentono musulmani, ma sono falsi. Tutti recitano il ruolo che la guerra ha loro assegnato.
A Mostar di quell’anima, di quello spirito che c’era prima della guerra non è rimasto più nulla. Forse durante la guerra era ancora vivo. Le persone che avevano quello spirito non si sono stancate neanche durante la guerra anche se alcuni erano voluti andare via: è la delusione del dopoguerra che li ha fatti scappare definitivamente. Fra il 1995 e il 1996 tutte queste persone sono uscite, non riconoscendo più lo spirito di Mostar, e purtroppo sembra che non tornino.
La situazione a Mostar non è ancora risolta. E’ risolta a Sarajevo. E’ risolta nella Republika Srpska, anche se ci sono alti e bassi. Ma a Mostar nulla è cambiato.
Una soluzione ci sarebbe per risolvere i problemi di questa città, ma penso che non si realizzerà mai. A Mostar c’è un fiume che si chiama Neretva. Finché il fiume nei suoi due lati avrà due popoli la città sarà sempre divisa, ma se saranno di nuovo tre popoli, Mostar non sarà più divisa. Vuol dire che ci mancano almeno ventimila serbi, ma non serbi qualsiasi perché non voglio reinventare qualcosa che non c’era prima: intendo dire esattamente i serbi che c’erano prima della guerra. Però per realizzare questo bisogna sentire cosa dicono i pastori alle loro pecore. Vale a dire Milo1eviÊ, che ha detto ai serbi di Krajina dove andare, oppure Tuðman, che ha detto ai croati cosa dovevano fare a Mostar e nella Bosnia Centrale."
Quando nel gennaio del 1999 incontriamo di nuovo Dario, ci dirà che le sue visite nel lato ovest della città sono diventate un poco più frequenti. Però scopriamo subito che non si tratta di avvio alla normalizzazione, di un ritorno "di quello spirito che c’era prima della guerra", ma esclusivamente dei vincoli familiari che lo tengono legato. Per il resto ci confida che anche lui sta iniziando a pensare che forse è meglio andare via del tutto e trasferirsi forse nel nord america. Con il suo carattere comunque pronto alla battuta ironizza anche sul titolo che abbiamo dato al racconto: "una città con un fiume così dove la trovo: forse in Canada?"