Il giro sotto il letto in 70 giorni

il viaggio di Mustafà
 
 

Il racconto di Mustafà nasce da una lunga chiacchierata: noi lui e altri bosniaci insieme durante tutta la notte, dalle nove di sera, appena la nave lascia il porto di Ancona, fino al mattino dopo, quando arriviamo a Spalato. Lunghi monologhi, scambi di battute e pensieri nei momenti in cui la compagnia si allarga a più persone, brevi flash nelle pause mattutine tra un breve sonno e l'altro. Mustafà torna per alcuni giorni nella sua città, Mostar. Ha chiesto una settimana di ferie nella fabbrica di Recanati dove dalla fine del 1993 lavora come operaio. Sta andando a vedere cosa succede, se la situazione è abbastanza tranquilla per poter andare a controllare la sua vecchia casa e il suo bar.

"Prima della guerra il 90% della popolazione in Jugoslavia viveva e lavorava con salari che consentivano appena livelli di vita di sussistenza, e comunque si accontentava di ciò: non esistevano altre aspirazioni oltre al lavoro in fabbrica e a quel salario. Allora in Jugoslavia soltanto una piccola minoranza aveva guadagni maggiori e io ero tra questi. La nostra era una famiglia agiata. Eravamo io, mia moglie e due figli; a quel tempo, nel 1991, possedevamo due case, un bar, una pizzeria e cinque negozi; inoltre io lavoravo come rappresentante della Slovenia Legno, un'importante azienda pubblica della Slovenia che produceva e vendeva mobili per bar, per negozi e articoli di arredo. Già mio padre aveva investito i suoi risparmi acquistando subito dopo la seconda guerra mondiale molti terreni a ovest della Neretva, dove negli anni successivi era stato edificato e abitato un intero quartiere. Prima di questa guerra, quando Mostar aveva circa 100 mila abitanti, quel quartiere, Balinovac, contava circa 30 mila persone ed era un insediamento musulmano. Tutte le attività principali, commerci, negozi, bar, erano gestite da musulmani. Erano loro il tessuto sociale portante di quella zona di città. Erano loro la città. Però, già dalla fine degli anni '70 era iniziata una grande immigrazione di contadini dall'interno, dai villaggi di montagna. Erano persone che si trasferivano in città solo per lavorare in fabbrica e avere uno stipendio fisso, e che non aspiravano a diventare "cittadini". Non si integravano con il precedente tessuto sociale. Il sabato e la domenica ritornavano alle loro case di montagna, che avevano mantenuto, ai loro piccoli poderi, orti o allevamenti. Non hanno mai accettato la città. Quando è iniziata la guerra nel mio quartiere erano diventati loro la maggioranza e ce l'avevano con noi musulmani, oltre che con i serbi. A mio figlio, che è stato uno dei primi soldati ad arruolarsi nell'HVO (Hrvatsko vijeÊe obrane -Consiglio di difesa croato), dove era entrato anche perché io ero conosciuto da tutti, hanno sparato tre volte. Non cecchini di fuori ma gente del mio stesso quartiere."

Già da queste prime battute emergono due aspetti interessanti, che ritroveremo anche in altri racconti. Il primo è la teoria della campagna contro la città, ovvero la teoria dei "primitivi", come molte persone di qui, i "cittadini", chiamano le milizie etniche più o meno regolari che dai villaggi dell'interno bombardavano le città. Questo tipo di contrapposizione, descritta con molta efficacia da Paolo Rumiz nel suo libro "Maschere per un massacro", spiega certamente una parte importante della verità. Approfondendo però le singole storie risulta più difficile distinguere con precisione dove termina l'analisi sociologica degli effetti dell'inurbamento veloce di consistenti masse rurali negli anni '60, e dove inizia invece la voglia di proiettare su "altri" ciò che di negativo e irrazionale la guerra ha portato alla luce.

Anche lo scrittore Marko Ve1oviÊ interviene su questo tema ponendo dei dubbi; ad esempio in un'intervista pubblicata dal giornale italiano "Solidarietà Come" ricorda che KaradæiÊ, il principale leader serbo-bosniaco, era un professore universitario di Sarajevo, dirigeva una clinica ed esercitava anche privatamente, era consulente della Energoinvest e a Pale, con i soldi ricevuti, si era costruito una villa e un allevamento di polli. "Ha avuto tutto dalla città di Sarajevo e non è stato mai emarginato. Era anche psicologo di una delle squadre di calcio più importanti della Bosnia".

Il secondo aspetto che emerge è che la guerra tra croati e musulmani non scoppia inattesa. I segnali, le minacce, sono già visibili alcuni anni prima, sicuramente già nel 1991, mentre si combatte la guerra tra i nazionalisti serbi e croati a Vukovar, in Croazia.

"Io avevo buone amicizie; quando nel 1990 nasce l'armata di Bosnia mio figlio è uno dei primi che si arruola, però nel corso del 1991 subisce tre attentati, da cecchini che gli sparano proprio nel quartiere dove abitavamo, vicino la nostra casa. Un mio amico, che era generale, mi spiega che la situazione sta diventando difficile e mi consiglia di far scappare mio figlio. Nel 1991 mio figlio fugge in Norvegia."

Mustafà, oltre alle sue attività, era anche un arbitro di calcio professionista, arbitrava partite importanti e ogni tanto appariva in televisione. Era una persona molto conosciuta e godeva di buone amicizie che in più occasioni si dimostreranno molto utili. Intanto, dopo la fuga del figlio la situazione continua a deteriorarsi.

"Nel 1992, quando scoppia la prima guerra con i serbi, anche mio fratello, che è sposato con una donna serba, preferisce scappare da Mostar e si rifugia in Svezia.

Nel 1992 scappa anche mia figlia, che è sposata da poco -con un "croato"- e attende un bambino. Prima si rifugia a Spalato, dove vive in un albergo fino al maggio/giugno del '93, quando scoppia la guerra croato-musulmana. Poi fugge in Italia e si trasferisce a Porto Recanati, ma noi allora non conoscevamo il suo indirizzo.

Dal 1992 io e mia moglie restiamo soli. Nei mesi di giugno e luglio di quell'anno inizia la guerra serbo-croata in Bosnia e diventa molto difficile scappare via per un musulmano perché tutto è sotto il controllo dell'HVO. Nell'ottobre del 1992 tre persone con l'uniforme dell'HVO entrano nel mio bar e rubano cinque macchine per giocare. Il fatto accade di sera, quando nel locale c'è poca gente.

Due mesi dopo, a dicembre, subisco un attentato con la dinamite e mi distruggono l'ingresso del bar. Oltre a questo fatto, che è più grave, accadono continuamente altri episodi minori di provocazione contro di me. La situazione precipita definitivamente nella primavera del 1993.

In aprile, alle ore 1 di notte, irrompe nella mia casa un commando di 12 persone mascherate; rubano tre auto e mezzo milione di marchi tedeschi equivalente a 500 milioni di lire italiane, che avevo raccolto dalle banche perché mi stavo preparando a scappare dal paese. Io e mia moglie veniamo minacciati con la pistola alle tempie. Erano persone mascherate ma credo di averne riconosciute alcune."

In questa guerra tutti si conoscono e si incontrano lungo le stesse strade. Non è sufficiente una maschera sul viso per nascondersi, come pure, al contrario, non è sufficiente la "diversa origine etnica" per impedire di aiutarsi quando comunque si ha voglia di farlo. Nel modo in cui è possibile farlo, anche restando ognuno all'interno delle logiche che ora stanno guidando i comportamenti del gruppo a cui si appartiene. Sembra una guerra pervasa da una discrezionalità diffusa, totale, nella quale si mescolano da un lato i rancori o le invidie personali, le cattiverie dirette come il furto dei soldi del musulmano ricco, oppure in altri casi l'appropriazione del terreno più fertile del contadino vicino, che guarda caso è di un'altra etnia. Ma dall'altro lato la stessa discrezionalità emerge nelle eccezioni che si fanno quando si arresta o si salva una persona a cui si tiene. Tutto è mescolato in un intricato sistema di relazioni personali difficili da districare.

"Dopo questo episodio io e mia moglie iniziamo a dormire fuori casa. Il 9 maggio '93, primo giorno "ufficiale" della guerra croato-musulmana, alle cinque di mattina un gruppo irrompe nella mia casa e la distrugge. Per fortuna noi non ci siamo. Mi stanno cercando per ammazzarmi ma riescono a trovarmi solo più tardi, verso le ore 8. Io e mia moglie veniamo arrestati e separati. Mi portano via per uccidermi ma interviene quasi subito in mio favore ©telas MartinoviÊ, che ora è un generale dell'HVO e allora aveva una carica importante nell'esercito. Riesce a non farmi uccidere, così vengo trasferito al punto di raccolta dei prigionieri presso il campo sportivo, dove sono state già radunate oltre duemila persone. Anche le donne, circa duemila, sono state raccolte presso un altro campo sportivo.

Subito fuori dal campo sportivo sono allineati i cannoni che sparano verso il lato est della città: se da est i musulmani avessero risposto al fuoco di sicuro ci avrebbero colpito.

Subito dopo vengo trasferito dal campo sportivo all’Heliodrom, vicino all'aeroporto. Dopo 18 giorni arriva una delegazione internazionale, con il generale delle Nazioni Unite Morillon e accompagnata dal Sindaco di Mostar est OruËeviÊ e da Franjo Gregovic, che visitano il campo. Il sindaco mi riconosce e mi fa uscire poco tempo dopo.

Torno così a casa mia a ovest ma mi accorgo che diversi giorni prima era stata incendiata; allora mi rifugio a casa della sorella di mia moglie, in una diversa zona di Mostar, sempre a ovest. Nella stessa zona abitano i genitori di mia moglie, che però poco tempo dopo verranno uccisi dai croati.

Negli stessi giorni esce dalla prigione anche mia moglie.

Io resto libero solo 10 giorni, poi vengo di nuovo arrestato, soltanto che mentre mi stanno portando via e stiamo attraversando un giardino riesco a scappare, mentre loro mi sparano dietro, come in un film. Mi nascondo in casa di alcuni amici e sto nascosto per 70 giorni sotto il letto, in un angolo di appena 1/2 metro quadro, incastrato tra il letto e un armadio. I soldati vengono cinque volte a cercarmi ma non mi trovano mai. Soltanto mia sorella conosceva il nascondiglio."

Mustafà è una persona di statura alta, con un fisico sportivo e robusto. Come arbitro di calcio era abituato agli spazi aperti dei campi sportivi e al pubblico numeroso delle grandi occasioni. E lui, in quelle occasioni, era lì al centro, arbitro della situazione. Immaginarlo rinchiuso al buio e da solo, sotto un letto per settanta giorni, in uno spazio nel quale può restare solo seduto con le ginocchia premute sul petto, tutto chiuso in se stesso, suggerisce troppe metafore. Intanto, ci racconta di aver fatto parte come guardalinee della terna arbitrale della partita di calcio disputata il 13 maggio 1990 fra "Crvena Zvézda Beograd-Stella Rossa Belgrado" e "Dinamo Zagreb-Dinamo di Zagabria". Incontro di calcio reso famoso dagli incidenti etnici tra opposte tifoserie, quasi un preludio della guerra. Allora uno dei capi degli ultras serbi era stato Æeljko RaznjatoviÊ, che in seguito diventerà famoso con il nome di "comandante Arkan", uno dei peggiori boia attivi durante la guerra, che si incaricava di eseguire i lavori più sporchi di pulizia etnica, con furti, torture e massacri. E' interessante questo paradosso linguistico: lavori sporchi di pulizia etnica. Parleremo più approfonditamente di Arkan e delle sue "tigri" più avanti, in una scheda dedicata ad alcuni di questi "comandanti". Tornando a Mustafà si potrebbe dire, seguendo la tentazione della metafora, che quando gli ultras prendono in mano la situazione l'arbitro non ha più nulla da arbitrare, deve soltanto scappare via il più velocemente possibile, mentre gli spettatori non si sa bene per quale parte tiferanno: sicuramente non interverranno. La metafora della partita di calcio ritorna anche durante una pausa di questa chiacchierata, quando stiamo cenando nel ristorante della nave e alcuni ragazzi italiani seduti al tavolo vicino, stimolati dai nostri discorsi che stanno origliando, iniziano a parlare della guerra nella ex-Jugoslavia e ad un certo punto si chiedono: "chi ha vinto la guerra?"

"Finalmente il 4 settembre, in una giornata di pioggia, riesco ad andare via, accompagnato da mio genero che è croato, a "apljina, vicino al confine. Da qui, accompagnato da un altro amico croato prima vado a MetkoviÊ al confine, e quindi a Spalato. Un altro amico croato mi acquista i biglietti per Ancona. Tutti e tre ci imbarchiamo e viaggiamo insieme. Uno di loro parla l'italiano e una volta arrivato in Ancona mi aiuta a telefonare alla Sip di Roma, perché l'unica traccia che ho di mia figlia è il numero di telefono. Riesco così a rintracciare l'indirizzo di mia figlia e da solo prendo la corriera per Porto Recanati, mentre i miei amici rientrano a Spalato. I miei documenti erano regolari e quindi non avevo avuto difficoltà a scendere dalla nave e entrare in Italia. A Porto Recanati mia figlia abita in un appartamento dove non pagano nulla, perché il proprietario, il Dottor Tommasini, un ginecologo che lavora a Loreto, ha sposato una croata ed è molto sensibile ai problemi della nostra terra.

Io sono sempre stato abituato a gestire attivamente la mia vita e con buoni risultati, e ho una buona capacità di relazione con il prossimo; anche qui, dopo solo 10 giorni riesco a trovare lavoro. All'inizio è un lavoro "nero", non in regola, e saltuario; poi riesco a trovare un lavoro fuori Porto Recanati, a circa 10/12 chilometri, dove all'inizio mi reco in bicicletta. Sono già arrivati i mesi di ottobre e novembre e non è molto agevole questo tipo di vita, sia per la distanza che per la stagione che sta diventando fredda.

Dopo due mesi che sono in Italia riesco a rintracciare mia moglie, che intanto si è trasferita a Jablanica, una cittadina a metà strada fra Mostar e Sarajevo; allora pago 30 milioni, prestatimi da amici, per farla scappare. I soldi servono per preparare i documenti necessari; un amico croato l'accompagna a Zagabria dove tramite il consolato bosniaco riesce a preparare la sua partenza. Dopo due settimane si trasferisce a Zara e da qui si imbarca per Ancona.

Dopo un paio di mesi circa che sono a Recanati il proprietario della fabbrica dove lavoro mi procura l'acquisto a rate di una vecchia auto. Inizio così a riorganizzarmi. Ero venuto da Mostar senza nulla, in Italia sono riuscito a trovare lavoro, anche se per due anni ricevo uno stipendio più basso del normale, inferiore a quello degli altri operai, poco più di un milione al mese, lavorando normalmente nove ore al giorno e anche il sabato mattina. Contemporaneamente, per migliorare il mio stipendio, lavoro anche come autista il sabato notte, trasportando frutta e altri generi alimentari per i mercati.

Attualmente lavoro in un'altra fabbrica, con una mansione di operaio specializzato. Infatti io sono un ingegnere. La mia paga però è sempre circa la metà di quella degli italiani che fanno lo stesso tipo di lavoro. Il mio stipendio non è paragonabile a quello degli italiani ma a quello degli altri extra-comunitari senegalesi o marocchini che lavorano con me."

Mustafà ora sta tornando a Mostar per verificare la situazione e capire se riuscirà a realizzare qualcosa dalle sue vecchie proprietà. Infatti ha deciso di trasferirsi definitivamente a Recanati e ricostruire qui la sua vita, insieme alla sua famiglia. Qualche giorno dopo il viaggio in nave, quando lo incontreremo in un bar di Mostar est, ci dirà che non ha potuto andare a vedere la sua casa ad ovest perché la situazione è ancora troppo difficile e gli amici gli hanno consigliato di aspettare. Ancora non ha potuto andare "là, dove non c'è governo" o dove "c'è solo una simulazione di governo", secondo l'espressione che usa lui per parlare della zona ovest.

La convivenza, il ritorno alle abitudini di prima della guerra appare ancora lontano. Il tema della convivenza, del ritorno alla normalità, è emerso più volte durante la lunga chiacchierata in nave. Mustafà conosceva diversi bosniaci che come lui erano in viaggio per una breve "vacanza" al proprio paese e si è intrattenuto più volte a scambiare alcune frasi con loro. Ci ha anche raccontato alcuni frammenti di quelle storie. Ad esempio c'era una signora che viaggiava sola e che in guerra aveva perso tutti i familiari: "ora ci dicono che in Bosnia dobbiamo ritornare tutti insieme -commenta Mustafà-, ma come si fa in questi casi, come si può, ad un tratto, far finta che niente sia accaduto? Come si fa?" E poi aggiunge, come parlando da solo a voce alta, in una delle pause più malinconiche verso le tre o le quattro del mattino: "Quale futuro c'è qui, in Bosnia? Nessuno. Non ci sono prospettive in questo paese".



ritorna all'indice