Fai volare le tue idee con un aquilone
La storia di Dario, Mirjana e Zlatko
 

Quella che segue non è un'intervista ma la trascrizione delle chiacchierate scambiate con Zlatko, Mirjana e il loro figlio dodicenne Dario a Gradac, sulla costa dalmata, dove erano "profughi". Quella di Zlatko è una famiglia tipica di Sarajevo. Lui tassista, lei commessa in un negozio di abbigliamento, e un solo figlio come tante altre famiglie di una città moderna e di media grandezza. Ma ciò che li rende tipici proprio di Sarajevo e non di una città qualsiasi è che si tratta di una famiglia cosiddetta "mista", come in questa città lo erano una famiglia su tre. Zlatko è di origine croata, dalmatina per l'esattezza, mentre Mirjana è serba, come serba è sua madre che durante la guerra resta con loro. Ora è tornata a Belgrado. Durante la guerra tutti e quattro restano chiusi in città e ricevono, quando è possibile, aiuti anche dal fratello di Mirjana che vive a Belgrado, in Serbia, ed è preoccupato per i suoi parenti sotto assedio serbo a Sarajevo. Quando possono si sentono al telefono. Un fratello di Zlatko invece è in Germania, emigrato insieme a tanti altri "slavi del sud". La loro comunità di amici è mista, formata da serbi, da musulmani e da croati, o da famiglie "miste" come loro. Zlatko è un buon cattolico, praticante, e questa è la religione di riferimento in famiglia. Durante l'assedio della città ha fatto fare la prima comunione a Dario. Ora ci mostra soddisfatto le foto della cerimonia. La religione è un fatto normale, di convinzioni personali. Non è un elemento di divisione.

Zlatko, Mirjana e Dario li ho conosciuti attraverso le adozioni a distanza promosse da Time for Peace-Marche. Poi li ho incontrati di persona nell'estate del 1996. Per primo ho conosciuto Dario, che era venuto da solo al centro sociale dove si consegnavano gli aiuti, e dove nei giorni successivi mi ha fatto compagnia quando sono tornato per costruire aquiloni insieme ai bambini profughi, per lo più croati di Vukovar, di Vare1 e anche di Sarajevo. Vittime di tre differenti fronti di guerra: a Vukovar, in Croazia, le milizie serbo-croate e l'Esercito Federale di Jugoslavia avevano conquistato la città difesa dalle prime milizie organizzate dal governo di Zagabria; a Vare1, nella Bosnia-Erzegovina, l'Armata Bosniaca aveva liberato la città dalle milizie croato-bosniache dell'HVO; a Sarajevo sempre l'Armata Bosniaca, chiusa dentro la città bombardata dalle milizie serbo-bosniache. E dietro ogni fronte delineato da eserciti e milizie più o meno regolari, sempre la stessa popolazione divisa con la forza, secondo criteri etnici non sempre facili da individuare, come nel caso di Zlatko e Mirjana.

Poi una sera a Gradac i nostri amici hanno voluto organizzarci una cena a base di ËevapËiÊi e altri cibi tipici bosniaci. La casa dove vivono è stata messa a disposizione dai parenti di Zlatko; è bassa, ha solo il pianoterra e il tetto a terrazza. Si trova in pratica in mezzo ad un incrocio di strade e vicoli, come isolata, attorno ha anche un piccolo giardino con una palma. Nel sole di Agosto sembra quasi il bungalow di un villaggio turistico e sta regalando alla famiglia di Dario una piccola vacanza di tranquillità. Loro sono rimasti a Sarajevo per tutta la guerra e sono usciti solo durante gli ultimi mesi di assedio, nel corso del '95.

Prima di cena aiuto Dario a far volare l'aquilone che abbiamo costruito, un bell'esagono giallo e viola con una lunga coda di pennacchi. Però c'è poco vento. La costa dalmata, così chiusa dalle montagne che si innalzano rapide dietro le sue spalle non pare molto adatta per gli aquiloni, ma Dario non si arrende. Ha un carattere tenace e generoso, così sale sul tetto piatto della sua piccola casa e insegue quel gioco come se volesse arrampicarsi nel cielo. Si tratta addirittura di un aquilone con il baricentro un po' sbagliato, in disarmonia con se stesso, che Dario continua con ostinazione a lanciare mentre il vento, che sembrava aspettarlo, tutto ad un tratto inizia a soffiare con sbuffi improvvisi e intermittenti, sbatacchiando quei pennacchi di qua e di là. Il polso di Dario è sicuro e fiero, e anche il suo sguardo che da sotto lancia verso l'alto occhiate di incoraggiamento. Sta fermo per qualche attimo, come in posa, l'aquilone, a otto o dieci metri di altezza mentre io li immortalo entrambi con la mia macchina fotografica. Basta un niente e il cielo puoi afferrarlo così come è, una specie di gioco. Ora è lanciato e non c'è più verso di farlo scendere l'aquilone e ancora più difficile è far scendere Dario dal suo tetto, immerso nel suo cielo, che sbraccia e corre e incita. Sembra essere lui il padrone del vento, lo comanda di qua e di là, lo afferra, lo sospinge, lo cavalca, gli affida quell'aquilone col baricentro fuori posto. Intanto, giù nel cortile, la comitiva si sta animando attorno alla legna che arde e alla brace che sta cuocendo la nostra cena. Ora tutto è pronto, possiamo riporre i giochi e sederci a tavola.

"I ËevapËiÊi a Sarajevo costano sei mila lire al chilo mentre qui a Gradac costano il doppio, e non sono gli stessi". Inizia così la lunga chiacchierata con Zlatko e Mirjana. I ËevapËiÊi Zlatko li ha comprati il giorno prima alla Ba1Ëar1ija di Sarajevo apposta per noi, sapendo che eravamo qui, e ora ce li sta cuocendo sulla brace preparata nel piccolo cortile della casa dei suoi parenti, dove ha avuto la fortuna di sistemarsi con la sua famiglia. E' uscito da Sarajevo poco meno di un anno prima, dopo essersi guarito dalle ferite di una granata che lo aveva colpito assieme ad altre cinque persone, e che aveva danneggiato anche la sua macchina, il taxi con cui lavorava. E' uscito dalla città di nascosto, come se fosse un ladro a casa sua, lungo quel tunnel di circa ottocento metri, alto centoventi centimetri e largo ottanta, puzzolente e senza aria, con il puzzo di quel vomito che molte persone non sono riuscite a trattenere, camminando carponi e nel buio, senza vedere nulla. Era quella l'unica via di comunicazione con l'esterno, sotto all'aeroporto, e lo sapevano anche i cecchini che tenevano sotto controllo l'uscita, per cui una volta arrivati all'aria aperta, niente euforia, occorreva calcolare lo scatto, cogliere l'occasione favorevole. Un po' di nebbia era l'ideale ma non potevi star lì ad aspettare le condizioni giuste e dunque quel che c'era da fare bisognava farlo, e subito.

Quella sera a cena a casa loro abbiamo sentito tanti racconti su quella città. Forse troppi, non per noi che ascoltavamo ma per loro che li rievocavano alla rinfusa, ingorgati di ricordi come in una specie di esorcismo. Ma questo non è un esorcismo e le immagini che si tirano fuori acquistano ancora più evidenza se restano lì ferme sulla superficie dei ricordi. Ogni racconto continua a scorrere e ne tira fuori un altro, e ogni volta quella stessa modalità quasi stravagante di raccontare, che dicono sia tipica di questa città, Sarajevo. Quello spirito un po' particolare che a conoscerlo rende ancora più straziante la differenza per ciò che è andato perduto. Con quello spirito, quasi divertendoci con aneddoti curiosi, come amici che si raccontano del più e del meno, Zlatko ci racconta dei suoi mille momenti: della polvere rossa comperata al mercato da Mirjana, perché lui le aveva chiesto di cercare del peperoncino, e poi una volta a tavola tutti soddisfatti lo provano e si accorgono che è polvere di mattoni grattugiati, "Scusa, quanto era oggi il prezzo delle mattonelle?"

E quel loro amico, che si era offerto di sfidare i cecchini e andare a ritirare un sacco di farina per fare il pane, e lungo la strada, mentre correva, avevano cercato davvero di sparargli addosso, e poi, ancora correndo purtroppo, senza mai fermarsi per un po' di calma, aveva ritirato il sacco e quindi via di nuovo a tuffarsi sotto il tiro di quegli assassini a pagamento: aveva sbagliato magazzino, non era farina ma gesso buono per i muratori.

Un’altra volta un ciclista era stato colpito ad una gamba dal solito cecchino di turno e subito erano accorse due persone per aiutarlo. Per prima cosa si gettano sulla bicicletta e si attardano. Mentre il cecchino ancora spara e tenta di colpirne un altro, loro non riescono a mettersi d'accordo su chi dei due ha il diritto di tenersi la bici dopo che avranno accompagnato in ospedale quel povero cristo sanguinante lì a terra, che li guarda e li scongiura: "Sbrigatevi a mettervi d'accordo".

Vengo a sapere da Mirjana e da Zlatko che a Sarajevo sono intervenute anche associazioni umanitarie -occidentali ovviamente- in difesa dei cani con il pedigree, che portavano aiuti alimentari ai migliori esemplari della razza canina. Un cugino di Zlatko un giorno tornando a casa trova sua madre che sta versando il barattolo di cibo in una ciotola per il cane. Finalmente qualcuno solidarizza anche con me, avrà pensato il cane, ma quello invece lo prende per la collottola e gli dice, "no no, tu no", poi lo scaraventa fuori della finestra e si mette a mangiare al suo posto: finalmente carne, oggi.

I cani con il pedigree: neanche per i cani andava bene essere di "razza mista" a Sarajevo. In realtà in molti racconti e testimonianze di Sarajevo troviamo dei cani come protagonisti, anche loro profughi in casa loro e abbandonati a se stessi dai loro padroni. Inizia così anche il libro di Marko Ve1oviÊ ("Scusate se vi parlo di Sarajevo", edito da Sperling & Kupfer), che cita la sua cagnetta Linda -"la sensibilità degli occidentali è più stimolata quando si parla dei cani"-, ed è un cane, Sniffi, anche uno dei personaggi principali del "Diario di Maja", di Nenad VelickoviÊ, edito dagli Editori Riuniti, oppure nel filmato di Adriano Sofri "I cani di Sarajevo".

Più favorito dalla sorte invece, come ci racconta Zlatko, lo era stato il cane del ladrone arricchitosi con il contrabbando e il mercato nero, che si dilettava ad afferrare al volo i ËevapËiÊi lanciatigli da quella faccia di merda del suo padrone, strafottente e pieno di indifferente disprezzo verso quelle persone che gli chiedevano qualcosa da mangiare: non le guardava nemmeno in faccia.

Questa scena del ladrone fa venire in mente un brano di Ivo AndriÊ: "Coloro che opprimono e sfruttano i più deboli lo fanno odiando, e rendendo così quello stesso sfruttamento cento volte più duro e più ripugnante e portando le vittime a vagheggiare giustizia e rappresaglie talmente cariche di vendetta, che se mai si realizzassero secondo le loro fantasie, dilanierebbero l'oppresso assieme al tanto odiato oppressore". "Queste sono le cose che non si possono dimenticare", commenta Zlatko. Anche in questa guerra, come in tutte le altre, chi tiene la faccia come il culo può arricchirsi facilmente: "Le occasioni non mi sono mancate, se solo avessi voluto afferrarle; io avevo un taxi, ero autista, bastava un niente per trovare roba da trasportare da un parte all'altra e giocare sulle differenze di prezzo, ammanicarsi con le persone giuste per transitare le frontiere e i posti di blocco, ma come può vivere dopo una persona, quali pensieri si porta dentro? Bisogna esserci nati per esser capaci di comportarsi così: chi non lo ha fatto mai non può improvvisare queste cose, gli vengono male, non sono per lui, ma purtroppo c'è sempre qualcuno che invece trova il modo di approfittarne, che c'è portato per queste cose".

E continua a raccontare, Zlatko, sempre con quel suo tono sostenuto e quasi divertente che ti fa dimenticare da dove è venuto, cosa ha attraversato e di cosa veramente ci sta parlando. Solo qualche volta, durante piccole pause, lui e Mirjana per un istante si guardano e fanno quell'impercettibile gesto che sta a significare che tutto ciò è accaduto davvero. Non si sa come, ma è accaduto. E forse, con quel breve sguardo che si lanciano, cercano tra di loro una conferma, come per convincersi essi stessi, come se temessero che la distanza che oramai li separa da quei giorni possa separarli anche da chi ora è seduto davanti a loro e li ascolta, così come si può ascoltare un qualsiasi racconto "normale". Per un momento me li immagino quindici anni prima, in viaggio di nozze a Venezia, tra i colori caldi di quelle case sospese nell'acqua.

E i racconti continuano, mescolandosi tra loro. Il freddo d'inverno, quando dovevano uscire per fare legna, puntando gli alberi dei giardini pubblici, progettando il momento e il modo, pregustando lo scoppiettio della brace, uscendo la mattina presto quando ancora era buio o c'era nebbia e i cecchini non potevano vederli. Qualcuno aveva delle seghe, più efficienti, ma lui aveva solo una piccola roncola -la stessa che è lì dietro a noi appoggiata al muro, con la quale ha tagliato le tavole per il fuoco di questa sera- e con quella, in soli venti minuti aveva tagliato un albero, con le mani che sanguinavano, giù, veloce, un colpo dietro l'altro, con rabbia, prima che il rumore o un bagliore della luce lo tradisse, via più svelto con quella roncola che già il solo agitarla faceva venire i brividi, e poi di corsa a casa con quel po' di riscaldamento legato in un fascio.

Per fare legna si andava di fretta, per fare acqua occorrevano anche diciannove ore, in fila uno dietro l'altro: venti litri la razione da portare via. E dopo tutta quella fila quando finalmente la tanica era sotto il filo d'acqua che scendeva, anche tu eri sotto lo sguardo di un cecchino che ti cercava. Spesso si mandavano i ragazzini a riempire le taniche, perché talvolta i cecchini sono un po' più teneri e risparmiano i ragazzi, ma non sempre funzionava questo metodo. ("Quel ragazzino mi ha eccitato, si è messo davanti così, non potevo trattenermi", ho letto in un'intervista ad un cecchino, perché anche i cecchini sono intervistati).

E dopo l'acqua e la legna ci vuole una stufa per accendere il fuoco e Zlatko è intraprendente e scova ulteriori modi per ricavare utilità dagli aiuti umanitari. Con un bidone di conserva costruisce una stufa, una specie di rudimentale camera di combustione, e con una fila di barattoli infilati uno sull'altro costruisce anche il tubo per il fumo di scarico e il tiraggio. Funziona bene la stufa e così, trovato un bidone più adatto, Zlatko ne costruisce una più raffinata. Oramai è anche abile dell'esperienza acquisita con la prima stufa e dunque gli viene proprio bene, è soddisfatto del suo lavoro, davvero. Ora quella stufa funziona ancora, a Belgrado, la sua suocera, tornando a casa, se l'è portata via perché è proprio una buona stufa. "Perché non la brevetti, Zlatko, se non trovi un lavoro di autista puoi sempre metterti a costruire stufe". "Bravo, è una buona idea".

E ancora ci racconta del cibo, di quelle minestre cariche di erbe raccattate qua e là. Una volta ha trovato in una casa abbandonata dai suoi inquilini serbi un grosso barattolo di lardo e allora è stata una festa, una fetta di pane impastato e cotto chissà in che modo, con un po' di lardo spalmato sopra era proprio una cena perfetta: "Ha durato quasi due mesi".

E il caffè: chissà con cosa era fatto? E poi, dopo il caffè via in strada, a trasportare persone sotto il tiro dei cecchini, che sono lì in attesa dal mattino presto e non si può farli attendere per nulla. E dunque fuori, tutta quella gente abituata a uscire, entrare, camminare, cercare un po' di roba da mangiare, andare al lavoro anche senza riscuotere nessuno stipendio, perché in questi casi l'importante è fare comunque qualcosa, e via, sempre sotto il tiro dei cecchini. Quando non sono i cecchini ci pensano le granate, con la loro lotteria. Ricorda quella volta che Mirjana con il piccolo Dario e la nonna attraversavano un ponte e all'improvviso le granate iniziano a cadere tutte attorno, proprio lì, e allora non sai se è meglio tornare indietro o proseguire, o fermarti, tanto non sai mai dove cadrà la prossima, e allora che senso ha pensarci su o prendere paura, tanto la paura oramai non sai più cosa sia, mescolata come è con la voglia di sopravvivere comunque, per dispetto. E allora continui ad avanzare lungo quel ponte mentre le granate continuano a scoppiare, fino a che alla fine sei arrivata dall'altra parte e hai scoperto che non era ancora questo il tuo turno, per morire o restare storpiato.

Il turno di Zlatko invece arrivò ma la fortuna ha voluto che gli restasse addosso, come ricordo da portare nel tempo, solo una cicatrice alla gamba. Un'altra volta trasportava delle persone col suo taxi quando uno zip -sì proprio zip, come il rumore dei fucili nei fumetti di Tex Willer- gli era passato ad un centimetro dal naso, mentre nello stesso istante i due finestrini dell'auto, a destra e a sinistra, esplodevano. Zip, ogni zip a segno era un premio per quel cecchino regolarmente pagato.

Altre volte sembra che i cecchini venissero anche gratis o per bassi compensi, c'era un'agenzia turistica in Svizzera, o da qualche altra parte, che organizzava week end di guerra per chi voleva provare l'ebbrezza di ammazzare una persona vera. Anche diversi italiani venivano da queste parti ad ammazzare per il migliore offerente. Parliamo di queste cose con i nostri amici e non riusciamo a sentire nessuna leggerezza o frivolezza nella nostra voce.

Questa volta sono Zlatko e Mirjana che stentano a crederci. Lo sappiamo bene tutti, anche se non abbiamo voglia di soffermarci su queste cose, che i killer possiamo trovarli ovunque, dentro ogni popolo, basta solo dargli l'occasione di emergere.

L'odio di cui parla AndriÊ, che cova sotto gli strati geologici della Bosnia, chissà se come una metastasi tumorale si è da sempre diffusa su tutta la crosta della terra e da lì sotto scava. L'odio "che cova sotto" di cui parla più volte AndriÊ è una teoria che talvolta non piace quando sembra giustificare la divisione etnica o un carattere congenito di violenza delle genti slave o balcaniche. Quei cecchini venuti da fuori, pochi o molti che possano essere stati, e insieme a loro i trafficanti d'armi o i produttori di mine di molti paesi, compreso il nostro, forse sono proprio l'esempio vivente che la teoria di AndriÊ deve essere liberata dal contesto balcanico per essere ricondotta in una dimensione più universale: la dialettica della natura umana.

Zlatko e Mirjana ci ringraziano per l'adozione che abbiamo sottoscritto per loro, e soprattutto si riferiscono all'aiuto morale, "al pensiero, una volta arrivati qua senza più nulla, che qualcuno di un altro paese solidarizza con te".

Cosa è la cultura? Dice Zlatko che non manderà mai suo figlio in una scuola dove insegnano l'odio: sulla copertina del libro di testo a Sarajevo c'è una foto, e la didascalia spiega come l’usta1a croato sta uccidendo un musulmano: "Non voglio che mio figlio si vergogni di essere croato, non si deve educare all'odio."

Mentre Zlatko era a Sarajevo con i "Difensori della città", dove musulmani, serbi e croati, -proprio così: musulmani, serbi e croati, glielo facciamo ripetere a Zlatko per essere sicuri di aver capito bene,- combattevano uniti contro il loro nemico esterno, -i serbi delle campagne vicine, anche loro di Bosnia,- la sua città, la loro città, stava cambiando lentamente dall'interno, alle loro spalle, nelle retrovie. Si stava riempiendo dei contadini e dei pastori musulmani profughi da quelle stesse campagne vicine: "Quei pastori e contadini che pascolavano le capre nell'autostrada che entra in città. C'era stato anche un contadino arrabbiato perché non lo facevano salire sull'autobus con la sua capra al guinzaglio".

In pratica è da loro che ascolto per la prima volta la teoria dei "primitivi". Il giorno prima, seduti sempre sotto quella palma a chiacchierare e bere caffè, Mirjana ci aveva già anticipato più o meno così: "Tornare a Sarajevo ora che la guerra è finita? Dipende dalle elezioni politiche di settembre, vedremo. I nazionalisti dello SDA di IzetbegoviÊ? Non ci penso nemmeno a votare per loro, ci sono altre forze politiche, più democratiche. La guerra che c'è stata è il risultato dell'alta politica: il popolo non voleva quello che è successo, ma poi sono arrivati i 'primitivi' al potere e tutto allora è cambiato in Bosnia; noi siamo stati fortunati, non abbiamo perso parenti, siamo tutti vivi, ma chi ha perso i propri familiari come farà a dimenticare ciò che è successo? Ora la città è in mano ai nazionalisti, appoggiati da tutti i profughi musulmani cacciati via dai serbi dalle campagne vicino Sarajevo. Non è più la stessa città, non c'è più la cordialità e convivenza di un tempo, quando eravamo amici tra croati, serbi e musulmani: non c'è più tolleranza oggi".

Ora era questa la maggioranza della popolazione in città: persone sistematesi nelle case lasciate vuote dai sarajevesi in fuga e grate al governo nazionalista per l'avanzata sociale che comunque, grazie alla guerra, avevano conosciuto. Dunque in giro per Sarajevo una famiglia "mista" come quella di Zlatko, per di più con quel cognome croato, no, proprio non va. Non c'è possibilità di lavoro per chi ha difeso la sua città se di quella città non possiede più le caratteristiche attuali, ora che è cambiata e forse irrimediabilmente. I nostri amici sono ancora in contatto con alcuni dei vecchi amici, serbi, croati e musulmani, sparsi qua e là nel mondo e nessuno di loro, forse, vorrebbe tornare a casa ora, perché non riconosce più la propria città, quel modo di vivere in cui sono cresciuti. Anche Zlatko e Mirjana stanno pensando di trasferirsi in Canada o in Germania, ancora non hanno deciso.

Partiranno poi per il Canada soltanto due mesi più tardi, appena avranno finito di riparare l'auto e venderla insieme agli altri oggetti regalati loro dai parenti in questo periodo. Venderanno tutto, anche quello che resta della casa di Sarajevo e andranno via, in una diaspora che accantona l'idea stessa del ritorno.

Con Zlatko ci saluteremo qualche giorno dopo. Un intero pomeriggio trascorso di nuovo a chiacchierare sotto un pergolato di viti, in una casa di campagna arrampicata sul monte dietro Gradac, di fronte all'Adriatico. Eravamo lì ospiti di un'anziana coppia di contadini che ci ha offerto mandorle, formaggio, fichi, e tanto vino e tanta "rakija". Ci siamo salutati con una buona dose di allegria in corpo.

Quando sono tornato due mesi più tardi non c’erano più, erano già partiti.


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