di Fadila
"Sono nata a Visegrad, nella Bosnia orientale presso il confine con la Serbia, dove vivono prevalentemente musulmani e serbi. Mi sono laureata a Sarajevo presso l'Università matematico-scientifica; ho lavorato a Stolac, Ljiubinjie e dopo sposata a Mostar, dove ero insegnante. Negli ultimi anni la comunità dove ho lavorato è sempre stata mista etnicamente; eravamo tanto affiatati ed eravamo conosciuti nella città anche per questo. Tutti i miei piani, progetti, tutte le mie aspettative e riflessioni hanno sempre escluso la possibilità di una guerra su questi territori. I primi cambiamenti negativi sono comparsi quando hanno iniziato a formarsi le prime leghe politiche, diverse una dall'altra solo per nazionalità".
Abbiamo chiacchierato con Fadila due ore, nella sua casa di Fabriano, in una stanza piena di quadri dipinti da lei e che raffiguravano quasi esclusivamente ponti della Bosnia: quello di Mostar, da tutte le angolazioni possibili e da entrambi i lati, un ponte di Sarajevo, quello di Vi1egrad, la sua città natale. Tutti luminosi, vivi, quasi che li osservi di continuo un occhio libero, che riplasma quei paesaggi urbani e li mantiene freschi, ricchi di cielo e d’azzurro, funzionanti: una sorta di manutenzione dello spirito. Fadila vive qui da circa quattro anni, con le figlie, mentre suo marito continua a lavorare a Mostar e ogni tre o quattro settimane fa il pendolare, avanti e indietro attraverso l'Adriatico.
"Il partito comunista cominciava ad indebolirsi. I comunisti più importanti diventavano i maggiori rappresentanti delle nuove leghe nazionaliste. Anche io ero comunista, lo ero diventata da studentessa, ma non ho mai avuto l'intenzione di accogliere queste nuove proposte politiche che mi parevano assurde. Il partito comunista aveva dei buoni principi ma "non aveva la pratica". In quel periodo molte persone, dopo le riunioni alle sedi del partito, erano tese e nervose perché c'era sempre qualcuno che registrava ogni parola espressa, e così poi poteva capitare di essere trattati male, come ai tempi di Stalin. Per fortuna i membri del nostro gruppo erano persone positive, ma come accade sempre il rapporto con le persone "di potere" era molto difficile".
La percezione della guerra in arrivo: è una domanda che rivolgeremo a tutti gli intervistati. Vorremmo capire se esiste un episodio particolare, per certi aspetti imprevisto, che segnali in modo preciso il momento del cambiamento. Oppure se si tratti di un mutamento lento, e quasi impercettibile mentre lo si vive. Quali possono essere le riflessioni personali che emergono in quelle situazioni? Ci rendiamo conto che è difficile rievocare i pensieri di allora, "del prima". E soprattutto che è difficile farlo ora, dopo questi anni. Fadila ci chiede tempo. Nel primo colloquio che abbiamo con lei c’introduce solo per un piccolo tratto in questo mondo di ricordi ancora da esplorare. Sembra quasi che voglia tenerli a bada, tirarli fuori con cautela. "Non mi piace molto ricordare, preferisco pensare al presente". Così ci chiede d’avere pazienza perché preferisce mettersi a scrivere da sola.
"I Serbi iniziavano ad affermare di essere oppressi dagli altri gruppi etnici all'interno della struttura politica multietnica jugoslava. Volevano convincere il mondo di questo. Dopo l'inizio della guerra in Croazia e specialmente con la caduta di Vukovar, alla fine del 1991, il mio gruppo si è diviso, e così molte persone in città. Alcuni giustificavano le azioni della JNA (Jugoslovenska Narodna Armija -esercito popolare della Jugoslavia) in Croazia e Slovenia, e organizzavano o partecipavano a meeting chiamati "Movimento per la Jugoslavia".
Altri invece erano contro la guerra in Croazia e le azioni della JNA. In questo gruppo si schieravano i musulmani e i croati e c'ero anch'io. Con l'arrivo dei "riservisti", volontari mobilitati nell'esercito per la guerra, a Mostar la situazione andava peggiorando. Questi volontari cominciavano a sparare, a provocare i civili. Andavano la notte tardi a cantare canzoni "cetniche" dai testi orribili. Tutti allora pensavano che la JNA li avrebbe fermati, invece questo non accadde e a noi bastò per capire.
Il terrore di una possibile ripetizione degli orrori della seconda guerra mondiale ha costretto i musulmani ad unirsi con i croati, per difendersi meglio.
Mostar iniziò a perdere i collegamenti con le altre città vicine. I serbi iniziavano a rapire, ricattare e maltrattare le persone di altri gruppi etnici. Non eravamo più sicuri né del governo né della JNA.
Una settimana o due prima della guerra i serbi iniziarono ad abbandonare la città portando con sé tutto ciò che potevano. Partivano in particolare, con tutte le loro famiglie, coloro che lavoravano presso l'Armija. Io abitavo in quella parte della città. Ogni notte si sentivano gli aerei da carico che trasportavano tutto quello che era possibile. Avevo molti amici serbi che se ne sono andati senza neanche un saluto".
La guerra con i serbi in Bosnia scoppia ufficialmente il 5 aprile 1992, di domenica, ma la data forse, per una guerra non dichiarata, non è così precisa o probabilmente non è la stessa in tutte le città bosniache. Nel racconto di Fadila inizia dal lunedì, il primo giorno della settimana lavorativa, come se con il suo approssimarsi incerto alla fine fosse arrivata proprio come un'interferenza, estrema, alle normali attività delle persone, un disturbo fastidioso alle certezze quotidiane.
"Ricordo anche il giorno in cui è iniziata la guerra: era lunedì. Io sono andata al lavoro e le bambine a scuola. Nella mia scuola c'era una grande tensione, perché molti alunni e professori erano assenti, in particolare i serbi. Quel giorno lo abbiamo trascorso senza nessun ordine e orario.
I rumori delle granate e delle bombe si avvicinavano sempre di più alla città. I genitori venivano a prendere i loro figli; io andai a casa, vi trovai anche mio marito. Era l'ora del pranzo ma nessuno aveva voglia di mangiare. I vicini di casa scappavano verso la parte occidentale di Mostar. Noi decidemmo di andare da alcuni familiari che avevano la casa con una buona cantina sicura. Quella notte iniziarono a bombardarci con le granate.
Sembrava che la nostra città intera bruciasse e caddero le prime vittime. Nella cantina eravamo circa trenta persone. Tutti insieme cucinavamo e dormivamo come "sardine dentro la scatoletta". Lì dentro eravamo di diversa nazionalità. Io, nonostante quelle condizioni, continuavo ad andare a scuola. Gli alunni non ci venivano ma per noi insegnanti era d'obbligo presentarsi al lavoro. Non vedevamo più i serbi, non c'erano. Tutti oramai erano fuggiti verso la Serbia, il Montenegro, da altre parti o all'estero. Dopo una quindicina di giorni anche i croati cominciarono a lasciare Mostar, di nascosto come i serbi, senza dire niente e senza alcun saluto. Avevano iniziato a comportarsi in modo strano. Prima noi mangiavamo, bevevamo insieme e dormivamo nelle cantine e poi ad un certo punto ci guardavano con molta riservatezza, da sconosciuti. Noi non capimmo subito cosa succedeva. Così alla fine rimasero in quella cantina solo due famiglie: la mia e quella della sorella di mio marito, che era la proprietaria."
La diaspora etnica inizia subito. I serbi sono i primi ad andare via, senza nemmeno un saluto, e subito dopo anche gli sguardi che si scambiano croati e musulmani, chiusi insieme nelle cantine, non sono più gli stessi. Il sospetto o gli effetti di calcoli presi da lontano, e a loro insaputa, già avvelenano l'aria. Insieme alla diaspora etnica inizia il girovagare in cerca di vie di fuga, tra amicizie che si dissolvono e nuove solidarietà che nascono. La vita assume subito un ritmo incontrollabile, si fa fatica a stargli dietro. Neanche il tempo per pensare è più lo stesso. Le decisioni da prendere talvolta vengono rinviate di continuo, lungo momenti che paiono infiniti, oppure vengono attese così, con quel senso di impotenza addosso mentre ti bombardano sulla testa con le granate o con la provocazione becera della propaganda. Talvolta invece arrivano momenti in cui si decide in fretta, all'istante, e senza pensarci più.
"I cetnici -le milizie nazionaliste serbo-bosniache- lanciavano granate da Hum, Cobansko Poljie e Nevesinjie. Il maggiore Perisio, diventato un capo dell'esercito serbo, interferiva su radio Mostar con provocazioni di questo genere: "Cosa avete cittadini di Mostar? Forse alle vostre orecchie melodiche da fastidio il suono orecchiabile delle armi?" Ogni notte colpivano la via dove eravamo perché volevano distruggere le due chiese cattoliche lì vicino. Iniziava a mancare il cibo. Io dovevo uscire rischiando per raccogliere qualche erba (ortica), per poter dare qualche verdura ai bambini. I nostri mariti non erano con noi perché dovevano vegliare l'ingresso, le vie, ecc. In città si iniziò a costruire manualmente le armi ed altri oggetti di difesa. Un giorno noi insegnanti ci incontrammo a scuola, decidemmo di prendere ognuno i propri documenti e di non tornarci più. Tramite i miei vecchi vicini di casa seppi che il palazzo nel quale vivevo prima, nell'altro lato della città, era stato distrutto dalle granate e in seguito in quella zona erano entrati i cecchini: l'avevano occupata uccidendo le persone e svaligiando le nostre case. Non so quante persone esattamente uccisero ma dopo 4-5 mesi si scoprirono due grossi "cimiteri comuni". A luglio, quando i "nostri" (e i nostri -specifica Fadila- sono "nostri" in senso lato, cioè sia persone croate, che musulmane, serbe e altri ancora) liberarono Mostar dalle milizie serbe e tutta la zona intera verso Stolac, eravamo ancora insieme ai croati.
In seguito, mentre i nostri mariti rimasero a Mostar per partecipare alla difesa della città, io e la sorella di mio marito andammo con i figli da un'amica a Makarska. In Dalmazia c'erano molti profughi provenienti dalla Bosnia. Tutti vivevamo allo stesso modo, mangiando le stesse cose nella stessa cucina.
All'inizio eravamo molto amici ma poi dopo un certo periodo una parte dei profughi croati iniziò a comportarsi in modo strano verso di noi musulmani, chiamandoci "BALIJE", cioè "anime puzzolenti non battezzate". Questo succedeva di frequente tra i bambini. Una volta, per esempio, mia figlia più piccola che allora aveva otto anni, entrò in camera piangendo spaventata e dicendo come alcuni ragazzi (figli di nazionalisti croati) le avevano detto che era una "balija" e che perciò l'avrebbero violentata. Iniziarono a tirarci sassi addosso quando ci vedevano, riferendoci molte cose brutte che non posso neanche ripetere. Questo accadde in particolare nell'estate del '93, mentre a Mostar erano in corso grandi battaglie tra croati e musulmani. A dire il vero Mostar era in fiamme perché i Croati avevano lanciato un'azione chiamata "Terra bruciata". Le amiche croate non vollero neanche rispondere ai nostri saluti. Devo, però, far notare che non tutti si comportavano così, infatti alcuni di coloro che abitavano in Dalmazia erano corretti e a volte ci aiutavano di nascosto per non farsi vedere dai loro concittadini fascisti."
Finita la prima fase della guerra, con il ritiro dei nazionalisti serbo-bosniaci dalla città, dopo pochi mesi, nel maggio del '93, scoppia l'altra guerra, che oppone le milizie nazionaliste croato-bosniache dell’HVO all'Armata Bosniaca del governo di Sarajevo. Le conseguenze forse sono anche peggiori per la gente di Mostar. Anche questa volta però, nonostante i tanti segnali di crescente diffidenza o tensione, la guerra coglie i comuni cittadini quasi di sorpresa. Lascia increduli. Come commenta Fadila in quella prima chiacchierata a casa sua: "I musulmani sono ingenui, gli altri sono più furbi. Non si rendono conto, non imparano dalle esperienze. Quando è iniziata la guerra con i serbi noi eravamo insieme ai croati. Mio marito è andato insieme con gli altri per armarsi. Distribuivano le armi e le divise. Quando è arrivato il suo turno, gli hanno detto: "Ci dispiace, noi possiamo darti le armi solo se indossi questa divisa". Era la divisa nera degli usta1a, cioè dei fascisti croati. Lui ha detto: "No, questa divisa non la voglio". Così lo hanno mandato via senza armi. E' tornato per quattro o cinque volte ma è sempre andata così. Le armi non le hanno distribuite ai musulmani, se le sono tenute i croati. Non capivamo, o forse non volevamo capire."
Le divise di cui si parla sono quelle dell'HVO (Hrvatsko vijeÊe obrane-Consiglio di difesa croato) che inizia a formarsi in Bosnia e in particolare in Erzegovina, a Mostar, già nel 1991, quando la guerra non è ancora scoppiata e riguarda soltanto le zone di Vukovar e della Krajina, in Croazia. L'Armata Bosniaca, l’esercito regolare del nuovo governo, inizierà invece a formarsi a Sarajevo soltanto dopo l'inizio della guerra in Bosnia, nell'aprile-maggio del 1992. Fino a quel momento infatti l'unico esercito ufficiale che esisteva in Bosnia era ancora l’Esercito Popolare Jugoslavo (JNA). Un esercito che dopo le numerose dimissioni degli ultimi anni e in particolare dopo la caduta di Vukovar, di fatto si era sempre più "serbizzato".
Il tema dell'ingenuità invece lo troveremo anche in altre interviste e sotto forme diverse. E forse va al di là dell'essere musulmano o croato, o anche serbo, e ha che fare più con la dialettica stessa della natura umana. "Il bene è sempre più ingenuo del male", commenta il giornalista Paolo Rumiz nel suo libro "Maschere per un massacro", riprendendo una riflessione purtroppo antica come la storia dell'uomo.
Anche Fadila, in un diverso momento della nostra chiacchierata aggiunge questa osservazione: "Ci sono tre categorie di persone che si sono macchiate più di altre di delitti in questa guerra: i poliziotti, i medici e gli insegnanti. Tre categorie che come lavoro sono abituate a stare in contatto con gli altri. Perché?" E aggiungeva anche questa testimonianza un po' glaciale: "In una località c'è stata un'insegnante serba che ha ucciso e fatto uccidere tanti suoi alunni e i loro genitori che erano musulmani. Che male potevano fare dei bambini? Un'insegnante che uccide i suoi alunni: perché?"
"Tornai a Mostar nel '93, verso l'inizio di maggio. La mia casa era rovinata dalle granate, i mobili rubati, tutti i libri, documenti e foto che per me avevano un valore inestimabile, erano state buttate dalle finestre e bruciate. Così dovetti cercare nell'immondizia attorno alla casa quello che prima c'era dentro, come foto delle persone care ed altre cose che simboleggiavano il passato della mia famiglia.
Finora non ho detto quello che mi preoccupava di più. Fino a quel momento non avevo mai saputo niente dei miei genitori nella Bosnia orientale. Io cercavo loro e loro me in tutti i modi possibili, tramite radioamatori della Croazia, tramite la Croce Rossa, attraverso i giornali, attraverso la radio.
Di notte, senza farmi accorgere dagli altri, mi sintonizzavo su Radio Studio-Sarajevo per ascoltare quelle trasmissioni con messaggi sulle persone scomparse. Poi un giornale bosniaco pubblicò una lista di persone scomparse e in quell'elenco c'erano i nomi dei miei genitori e di una mia sorella con tutta la sua famiglia. Pensate come mi sentivo, mentre dalla camera accanto alla mia si udiva a tutto volume una musica fascista, con messaggi provocatori per noi musulmani. Dopo vari tentativi ricevetti informazioni su mia madre, che subì parecchio e morì al confine tra la Serbia e la Macedonia, dove alla fine aveva trovato ospitalità a casa di un buon albanese".
Quando è scoppiata la guerra con i nazionalisti serbi la famiglia di Fadila si trovava a Vi1egrad, dove anche lei è nata. E' la città del ponte sulla Drina raccontata da Ivo AndriÊ, che grazie a quel libro ha vinto il premio Nobel. "L'ho letto più di una volta perché è un grande libro, ci spiega Fadila, però AndriÊ è grande solo come scrittore, come uomo vale di meno. Il libro che ha scritto è bello ma è anche servito al regime di allora. Infatti si può interpretare anche come una giustificazione dei torti inflitti nell'ultimo secolo ai musulmani. AndriÊ nel suo libro li chiama sempre "turchi" e non bosniaci e così fornisce una giustificazione dell'odio nei loro confronti, perché in qualche modo li identifica storicamente con gli oppressori. I musulmani invece, qui, non sono mai stati turchi ma bosniaci. Il libro così contribuisce a diffondere l'immagine di un odio diffuso in Bosnia tra le popolazioni differenti, come AndriÊ ha scritto anche in altre occasioni. A loro volta i musulmani all'inizio di questa guerra hanno distrutto il monumento eretto in suo onore a Vi1egrad."
Vi1egrad è stata colpita molto duramente dai serbi durante la guerra, con una pulizia etnica inflitta addirittura al 70% della popolazione. "I nazionalisti serbi catturavano i musulmani, li conducevano sul ponte, li uccidevano e gettavano di sotto. C'è chi dice che non è vero, come Peter Handke in un suo libro, e anche altri. Non lo so perché dicono così. Io lo so, conosco le persone uccise, si conoscono nomi e cognomi degli uccisi e anche di chi li ha uccisi, in quella città come in altre."
Fadila ci racconta poi la storia di suo padre, immergendoci per un attimo quasi in una di quelle atmosfere create da AndriÊ quando racconta la storia del ponte. "Mio padre era rimasto intrappolato oltre Vi1egrad, e non poteva attraversare il ponte sulla Drina. Ha dormito per sei mesi all'aperto, nei boschi, coprendosi solo con una vecchia divisa militare, mangiando erbe, senza nulla, nascondendosi. Poi ha avuto una furbizia, è stato astuto. Un giorno in una casa abbandonata ha trovato dei vestiti tradizionali serbi e li ha indossati. Ha pensato: "sono via dalla città da sei mesi, mi credono morto e nessuno pensa più a me, sono dimagrito e con un aspetto brutto; con questi vestiti addosso non possono riconoscermi." E allora, "con le gambe piccole per la paura", si è incamminato tranquillo, fingendosi tranquillo, verso il ponte e come se niente fosse ha iniziato ad attraversarlo, camminando sotto lo sguardo di molti cecchini che erano lì a presidiare il passaggio. Lui ha salutato tutti nel modo serbo, mostrando le tre dita, parlando nel modo dei serbi, e nessuno lo ha fermato. Poi, una volta di là, è andato verso i boschi e si è nascosto di nuovo. Anche lì era una zona controllata dai serbi, ma ora poteva cercare una strada per raggiungere i suoi familiari."
Torniamo al racconto scritto da Fadila. La vigilia della guerra croato-musulmana è breve. Appena il tempo di ascoltare il consiglio giusto e riorganizzare frettolosamente la nuova partenza. Non c'è tempo: tutto è già pronto e gli avvenimenti stanno precipitando.
"Durante quella mia permanenza a Mostar andai a scuola. Niente era come prima. Solo pochi dei vecchi insegnanti erano rimasti. Gli altri, quasi tutti croati e pochi musulmani, venivano da Li1tica, "itluk, "apljina. Ripresi subito a lavorare ma già il primo giorno una mia amica croata, una vecchia collega, mi avvicinò durante la ricreazione dicendomi che non le piaceva quello che i "suoi croati" facevano ai musulmani. Mi raccontò che quella mattina era venuta a scuola con l'autobus da Li1tica e che l'esercito croato l'aveva fermata all'entrata di Mostar facendo scendere tutte le persone musulmane. Poi, confidandosi, mi disse che "loro" avevano intenzione di uccidere tutti e mi consigliò con queste parole: "Tu mi hai aiutata quando sono arrivata in questa scuola, io ora desidero darti una mano. Lascia il lavoro, la casa, porta via i bambini e scappa questa stessa notte e senza aspettare l'alba. Se vuoi, posso farti passare il confine croato tramite mio marito".
Così andai a casa, chiamai tutti i vicini dicendo di volere abbandonare Mostar quella notte e consigliandolo anche a loro. Molti mi dissero che avevo torto. Grazie a quella mia amica uscii da Mostar durante la notte e senza problemi. Dopo sette giorni i croati attaccarono Mostar e io alla televisione vidi i miei stessi vicini di casa nel campo di raccolta dei prigionieri all'Eliodromo."
Di nuovo profughi, per la seconda volta in meno di un anno. Questa volta è ancora più duro perché non è più sufficiente la costa dalmata. Ci vuole altro. Ad esempio un paese straniero, scelto a caso, perché tanto in quella situazione uno vale l'altro. Un paese di cui non si conosce nemmeno la lingua. Non si sa nulla. Si sa soltanto che anche altri sono già andati.
"Tornai di nuovo a Makarska, tentando di realizzare una vita più o meno normale. Volevo che le mie bambine andassero almeno a scuola mentre io avrei fatto la volontaria come insegnante. Tutti provammo a iscrivere i figli nella scuola del posto, ma le domande dei bambini musulmani non vennero accolte. In seguito improvvisammo una scuola per i bambini profughi, nella quale furono accettati tutti i bambini senza eccezione.
La situazione andava peggiorando. Con l'inizio di luglio iniziarono a mandare via dagli alberghi e dagli altri posti i profughi di nazionalità musulmana. Era una situazione molto difficile. La gente vendeva tutto ciò che aveva per potersi permettere un biglietto e scappare da qualche parte all'estero. Ci aiutavamo tra noi quanto ci era possibile e ci davano qualche aiuto anche i dalmatini. Molti nascondevano i musulmani nelle loro case, e davano loro da mangiare di nascosto finché non avessero trovato il modo per andare all'estero.
Io allora non potevo neanche mettermi in contatto con mio marito, che era rimasto a Mostar, perché la città era chiusa e non si poteva più entrare. Non potevo neanche rimanere più in Croazia. Dovevo andare da qualche parte con i bambini. Dove? Guardavo i prezzi dei biglietti per andare in Germania, Italia, Belgio, Norvegia, Svezia.....
I soldi che mi restavano erano appena sufficienti per tre biglietti di sola andata per l'Italia. Sapevo che gli italiani erano buoni e che non ci avrebbero rimandati indietro: la mia nonna mi aveva raccontato che durante la seconda guerra mondiale gli italiani si erano comportati correttamente e avevano fatto anche amicizie con la gente del popolo. Nel nostro gruppo che aveva deciso di partire per l'Italia c'erano 10 persone, tra le quali sei bambini. All'entrata sulla nave una poliziotta croata controllò i nostri biglietti e vari documenti che avevamo solo noi profughi e ci disse: "Se andate fuori dei confini croati, non ci potete tornare mai più". Fortunatamente sulla nave conoscemmo Sandro e Mladenka di Arci Nova: sono stati loro i primi ad accoglierci e così il 10 agosto '93 è stato il giorno in cui arrivammo ad Ancona."
La data di arrivo nel paese straniero è un evento che lascia una traccia nitida, non si può dimenticare o confondere. E' anche una data suggestiva per noi che ascoltiamo, perché coincide con la notte di San Lorenzo, quando le stelle incendiano il cielo e molte persone si fermano apposta a guardarle. Forse può apparire retorica quest’immagine, ma neanche a farlo apposta si presta ad un doppio significato che abbiamo scoperto soltanto dopo, parlando con Fadila del titolo che avevamo scelto per la sua storia: dalle sue parti, in "Jugoslavia", la stella che cade non è il simbolo della fortuna per chi, svelto, fa in tempo ad esprimere un desiderio. E’ piuttosto un simbolo che si associa ad eventi negativi.
"La prima cosa che ho notato appena sono scesa dalla nave sono stati i tetti delle case, interi e non rovinati o distrutti, e poi la gente che andava per le strade con libertà. Mi resi conto allora che avevamo dimenticato di camminare normalmente, sempre attenti o pronti a correre o a metterci per terra per le granate che potevano cadere ogni secondo.
Dovetti riconoscere che da tanto non avevamo mangiato così bene: non c'erano più le scatole e i pacchi militari americani, con biscotti della seconda guerra mondiale e pesce che neanche i gatti volevano mangiare, minestre con dentro la pelle suina con i peli, il riso con i vermi.
Dopo un periodo così lungo ho sentito di nuovo quel rapporto umano tra le persone, da umani e non da animali.
Nessuno di noi parlava l'italiano tranne saper dire "buon giorno". Iniziammo a studiare intensivamente l'italiano. Non era facile perché tutti i nostri pensieri erano rivolti alla Bosnia, perché avevamo perso tutti i contatti. Dopo, siamo stati aggiunti ad un gruppo di profughi di Bosanska Krajina, che era arrivato a Senigallia prima di noi.
Dopo Senigallia, il primo settembre '93 partimmo per Genga nella provincia di Ancona. Restammo lì fino al 23.11.'93: per me fu un periodo molto importante. Partecipammo alla marcia della pace Perugia-Assisi con l'Arci Nova. A Genga avemmo un piccolo corso di lingua italiana organizzato da don Alberto e alcune professoresse: Claudia, Mariola, Anna Maria, Costantina, Rossana, Rita, Giuseppina, Carla, Primo. Carla era un'infermiera volontaria, che ha aiutato tantissime persone anziane. I bambini cominciarono ad andare a scuola. Gli italiani si sono avvicinati molto alle mie figlie e sono nate molte amicizie che durano ancora e che dureranno per sempre.
In effetti, ogni volta che vado a Genga da Fabriano ho sempre quel sentimento come se ritornassi in un posto molto familiare, quasi come la città nativa.
Poi tramite Costantina e Celestina della Caritas di Fabriano, trovai la famiglia Latini. Loro mi hanno fornito il lavoro e l'appartamento nel quale abito. Grazie a Latini Leda, Romualdo e Donatella adesso facciamo una vita perlomeno tranquilla e normale. E' già quasi quattro anni che sto qui."
La diaspora sembra conclusa per il momento, e anche la realtà della guerra, rimasta al di là dell'Adriatico. C'è solo da avere pazienza, attendere che gli eventi riprendano un corso più favorevole e poi, chissà, forse un giorno si potrà ritornare in Bosnia e riavviare una nuova vita. Per il momento è bene riorganizzarsi qui, vivere di nuovo nel presente e lasciare che i pensieri si decantino un po' da soli. Poi, con il tempo, si vedrà.
"Per aiutare i miei in Bosnia devo lavorare molto. Ho cercato di instaurare una vita piacevole anche per le mie bambine. Loro vanno a scuola e sono buone studentesse. All'inizio Ottavio Margarucci e Celestina Papi mi hanno aiutato tanto. E poi anche il Dottor Darshan e Nello Tiberi. Non ho trovato tante difficoltà perché ho ricevuto grande sostegno e comprensione. In breve tempo ho contattato altri bosniaci che si trovavano qui nelle vicinanze. Ci aiutiamo reciprocamente e ci scambiamo visite. Ho fatto moltissime amicizie anche con gli italiani. La mia vita è cambiata al cento per cento ma io mi sono data molto da fare per renderla simile a quella degli altri. Amo questa città che è diventata il nostro nido e mi da sicurezza e calore come la mia città nativa, che chissà se potrò mai rivedere. Molto spesso sogno quella mia città e mi sveglio sempre con grande dolore nell'anima. La mia città nativa è Vi1egrad ed è stata "pulita etnicamente" dai serbi.
A volte trovo un po' di tempo anche per il mio hobby, la pittura. Faccio i quadri di cose che non vorrei dimenticare, i nostri ponti, fontane, paesaggi.
Ho familiari e amici sparsi in tutto il mondo. Ci scriviamo lettere e ci sentiamo al telefono. Quando uno di noi ritorna dalla Bosnia porta la stampa, video-cassette, foto e tutto il resto che per noi in questi momenti è importantissimo. Io oramai sono stata già due volte in Bosnia. Molte cose sono state cambiate. Lì si sono diffuse tanto la povertà e un gran "primitivismo". Non mi piace parlare dei tempi e delle cose passate, perché dopo mi sento tanto male, come se rivivessi tutto. Non amo parlare neanche del futuro, perché non è chiaro e troppo poco dipende da me quello che ci capiterà. Molto volentieri parlo di cose della routine, di quello che riesco a realizzare. Organizzo la vita giorno per giorno e credo profondamente che ci sarà una fine per tutto questo, anche se questa nostra sciagura bosniaca dura da troppo.
La lotta per la sopravvivenza è una cosa strana. Quando qualcuno vede cancellare la storia, cacciare via dalle case, uccidere le persone più care, viene una grande voglia fisica e psichica di difendersi.
La mentalità italiana somiglia a quella bosniaca. Devo dire che non avrei pensato che gli italiani ci aiutassero così tanto. Molti profughi che sono stati in Italia e poi in Svizzera, Germania, Turchia, mi scrivono che non potranno mai scordarsi dell'accoglienza degli italiani e sono dispiaciuti di non essere rimasti.
Dopo la seconda guerra mondiale molti problemi non sono stati risolti per niente o nel modo adeguato. Il nazionalismo si è nascosto per poi uscire di nuovo in questa guerra. Sia i cetnici che i fascisti sanno benissimo che i musulmani sono deboli, che è facile fare la "Grande Serbia" o "Bella Nostra" (cioè Croazia) dividendosi la Bosnia, senza neanche farlo sapere ai bosniaci. Noi non vogliamo niente da nessuno e non diamo quello che è nostro.
Per tutto il tempo trascorso in Italia non ho avuto mai problemi di nessun genere sul fatto di appartenere ad una religione diversa. La religione, secondo me, è una cosa personale, ognuno ha diritto di credere in quello che vuole e di praticarlo come crede.
Dopo tante tensioni e tragedie che oramai ho vissuto mi sento più forte psichicamente e fisicamente. Ho intenzione comunque di ritornare a vivere nella patria che voglio continuare a immaginare come uno stato multietnico dove il multinazionalismo sia una realtà, e non soltanto un sogno come nella ex-Jugoslavia."