Introduzione di Tullio Bugari

La prima volta che sono tornato a Mostar dopo la guerra era già il 1996. Ero stato in questa città dieci anni prima, come turista, e ne avevo conservato un buon ricordo, legato ovviamente al Vecchio Ponte, ai ragazzi che si tuffavano nella Neretva, al sapore dei ËevapËiÊi e al fresco riparo dei cortili delle moschee in quel torrido mese di agosto.

Qualche anno dopo durante una proiezione pubblica avevo rivisto, attraverso le foto di Giacomo, che ancora non conoscevo, le immagini della città distrutta. Erano le stesse case e gli stessi angoli, perfino le stesse persone, come quell’artigiano dalla lunga barba bianca e il berrettino rosso di stile turco, fotografato da entrambi a distanza di anni. Esponeva i suoi prodotti vicino al Ponte, davanti al suo negozio aperto tutti i giorni con regolarità durante questi anni. Quasi una sfida a ciò che gli accadeva attorno.

Poi avevo assistito alla proiezione di un video girato dentro quei vicoli, e mi era sembrato di passeggiare davvero, riuscivo ad anticipare nella mente le immagini che apparivano sullo schermo. Compariva nel filmato anche un anziano signore di Mostar, un architetto che un po’ in francese e un po’ in italiano raccontava la storia del Ponte.

In ognuno dei tre viaggi che in seguito ho fatto a Mostar insieme a Giacomo, l’ho sempre incontrato il Professor Salih RajkoviÊ, con la sua bicicletta carica di giornali e quaderni. La seconda volta era il 9 novembre del 1996, terzo anniversario della distruzione del Ponte. Dopo la cerimonia, durante la quale i ragazzi avevano lasciato cadere garofani e gigli nella Neretva, lui è stato l'ultimo ad andarsene. E' restato lì da solo al centro della passerella di ferro per diversi minuti, assorto e con lo sguardo fisso verso l'acqua, come a cercare sul fondo i resti del ponte e chissà che altro ancora. Il giorno dopo lo abbiamo incontrato di nuovo, abbiamo chiacchierato un po' e alla fine ci ha affidato una specie di bigliettino da visita, un rettangolino di carta scritto a macchina, che ha personalizzato con una dedica e che io ancora conservo.

Appena ha scoperto che lavoro in banca ha iniziato a propormi chissà quali progetti di cooperazione culturale, tra il museo archeologico di Ancona e il suo museo di beni culturali di Mostar, di cui per diversi anni è stato direttore. Oramai aveva più di settanta anni il Professore, definiva primitivi tutti quelli che da qualsiasi parte avevano voluto la guerra, e appariva stanco, stracolmo di ricordi e carico di una lucidità di pensiero che appariva eccessiva, e anche un po’ vagabonda lungo quelle strade colme di ferite. Lui vive ad ovest ma è qui che di solito si aggira. Aveva nel portafogli alcune banconote italiane da mille lire: "Sono un ricordo, un souvenir di persone che ho conosciuto". Così anche noi abbiamo lasciato il nostro souvenir, con dedica. Nel suo breve numero il Professore ha trovato anche il tempo di raccogliere da terra un’ape in difficoltà, l’ha sollevata con delicatezza e l’ha tenuta nella sua mano finché non è stata capace di volare via.

Poi l’abbiamo intravisto di nuovo il 19 settembre 1997, sempre accanto alla sua bicicletta, ma non ci siamo fermati a parlare. Anche lui era taciturno, in mezzo a tutta quella folla silenziosa che da dietro le transenne osservava i danni di una potente auto bomba esplosa nel quartiere ovest durante la notte.

L’immagine della bomba, che è l’ultima che abbiamo avuto di Mostar prima di scrivere questo libro, non ha eliminato l’altra, dell’ape malandata che spicca di nuovo il volo alta sulla Neretva, che in un primo momento avevamo scelto di dedicare alle storie raccontate in queste pagine, come un simbolo della vita che ritrova la propria leggerezza e quindi è di buon auspicio. Poi però abbiamo cambiato idea: l'auspicio certamente resta ma l'ape che vola ci appare ancora troppo lontana, soprattutto pensando a tutti i bosniaci ancora lontani da casa e sparsi per il mondo. Così il titolo abbiamo deciso di dedicarlo a loro: Izbjeglice-Rifugiati. Una parola che mentre la guerra era in corso aveva un significato più immediato, quasi ovvio, adatto a descrivere una situazione transitoria, ma che ora ad alcuni anni di distanza assume un carattere più strano.

L’idea del libro era nata alcuni anni fa all’interno dell’associazione "Time for Peace" di Ancona, alla quale prima Giacomo e solo più tardi io abbiamo collaborato. Senza quegli stimoli sicuramente non ci saremmo messi al lavoro. In seguito, conclusa per noi quell’esperienza, ci è stato ancora più facile respingere la tentazione di raccontare di noi stessi e della nostra "bravura". Non volevamo nemmeno spiegare "politicamente" o "storicamente" le cause e i perché della guerra, ci sembrava un compito non adatto a noi. Abbiamo scelto di ascoltare alcune storie direttamente da chi ha vissuto quegli avvenimenti, e riscoprire per questa via una verità sulla guerra. La sensazione, a lavoro concluso, è che la verità, come sempre del resto, vada comunque inseguita e ricostruita dentro le percezioni di ognuno. Usando una metafora, è come nei frammenti di uno specchio frantumato, ognuno dei quali da solo riflette per intero tutto il mondo che ha davanti ma lo fa dall’angolatura in cui la sorte l’ha collocato.

Tre delle storie raccolte si riferiscono alla città di Mostar, due al paese di Stolac e tre al "pianeta Sarajevo". Ci sono poi le interviste alle presidi di due scuole elementari di Mostar, una di est e l’altra di ovest, alcune riflessioni sui mezzi di informazione e sulla situazione politica interna della Bosnia, e infine l’esperienza purtroppo tragica di un gruppo di volontari di Brescia.

Tutte le testimonianze sono state raccolte nel periodo che va dal mese di settembre del 1997 al mese di aprile del 1998, ad eccezione della storia raccontata da Esma PaliÊ, che abbiamo incontrato a Mostar alla fine di gennaio di quest’anno. E’ la storia ancora aperta dell’enclave di Æepa e della scomparsa di suo marito Avdo PaliÊ.

Il libro è nato da ore di discussioni; alcuni degli amici bosniaci intervistati hanno riletto e ricorretto insieme a noi le loro storie e ci hanno incoraggiato ad andare avanti; a tutti va il nostro ringraziamento per le testimonianze che hanno voluto affidarci, affinché potessimo raccontarle ad altri. Non è stato facile per loro rievocare momenti così particolari della propria vita. Ringraziamo inoltre tutti quegli amici italiani e bosniaci, tra i quali Mili e Renata CisiÊ, Alessandro "Sasa" Gori, Piero del Giudice, Razjia e Sena, Marco Mancinelli e altri, che ugualmente ci hanno aiutato.

Un ringraziamento va infine allo scrittore Predrag MatvejeviÊ, per il racconto che ha voluto regalarci.
31 gennaio 1999.
 
 

Post Scriptum

Il nostro libro è nato nel settembre del 1997, con le interviste allora raccolte a Mostar e Stolac (anche il viaggio raccontato da Predrag MatvejeviÊ avviene negli stessi giorni) e la sua stesura è terminata a gennaio di quest’anno, dopo l’ultimo racconto di Esma PaliÊ. In questi giorni, quando la tipografia era già pronta per la stampa, è scoppiata la "guerra del Kosova". Purtroppo non ha suscitato la nostra meraviglia, in quanto tutto era già atteso, però ha risvegliato la grande attenzione dell’opinione pubblica, con tutti i media sempre pronti a lanciarsi in blocco sull’ultimo avvenimento, come se questo scaturisse dal nulla (oppure direttamente dal medio evo e dalla battaglia di Kosovo Polje del 1389). Così ci siamo fermati per qualche settimana, per aggiornare le nostre riflessioni e riproporre il legame che unisce gli avvenimenti accaduti nella Jugoslavia e nei Balcani in questi ultimi dieci anni.

Come riproporre però questa riflessione? In questi giorni abbiamo letto sulla stampa o ascoltato alla televisione decine di nuove storie di kosovari in fuga, e ci siamo resi conto che questo, forse paradossalmente, non è ancora il momento di raccogliere testimonianze, storie, entrare dentro queste vite spezzate, perché tutto è troppo fresco ancora, doloroso, e porta addosso il segno della frattura.

Questo è piuttosto il momento della solidarietà, per porre un argine: abbiamo ascoltato dai vecchi amici conosciuti durante l’emergenza bosniaca che, come un destino che si ripete, si stanno riorganizzando le stessi reti di aiuto di allora. Del resto, anche le nostre storie bosniache le abbiamo raccolte soltanto dopo cinque anni che ce ne occupavamo, quando l’emergenza sembrava conclusa e le persone interessate, di cui molte purtroppo ancora oggi profughe (Izbjeglice in serbo croato e Refugjat in albanese), potevano finalmente rielaborare i propri ricordi e cercarvi magari una ragione.

Per riproporre questo legame (non solo tra gli avvenimenti ma anche tra le storie umane che vi sono dentro) allora abbiamo cercato la testimonianza di una persona del Kosovo che vive in Italia già da 8 anni e che ha iniziato il suo racconto a partire proprio da Sarajevo, dove nel 1991 era stato arruolato come militare nell’esercito jugoslavo (JNA). Oltre a questa storia poi abbiamo aggiunto il diario giorno per giorno trasmesso via e-mail da un giornalista di Belgrado, cioè dall’altra parte del nostro fronte, per aumentare gli angoli visuali dai quali si osserva la realtà. Infine abbiamo aggiunto alla cronologia sui principali avvenimenti della guerra di Bosnia, una seconda cronologia ove si sottolineano gli avvenimenti che riguardano in modo specifico il Kosovo, dal 1968 a oggi.

Seguendo gli eventi di questi giorni, quando questo note vengono scritte (essendo "in diretta" dobbiamo precisare la data esatta: 22 aprile 1999), abbiamo pensato ad un viaggio fatto nel 1993 nelle due capitali Zagabria e Belgrado. Tutti gli intellettuali conosciuti in quell’occasione dicevano la stessa cosa: "La guerra in Jugoslavia è iniziata nel Kosovo nel 1989 e laggiù ritornerà…."

22 aprile 1999


vai all'indice