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LiByke

 

 

 

 

LiByke. 1

Prima della partenza. 1

 

Prima della partenza

 

Il team Duna Rossa desidera ringraziare quanti a vario titolo hanno contribuito e sostenuto la nostra partecipazione alla Libyke.

I pochi non ancora a conoscenza di questo evento sportivo, sono rimandati a visionare l'articolo uscito la scorsa settimana sul "Corriere della Sera" !

 

L'evento verra' seguito da una troupe di rai3 e da altre TV straniere ; andando al sito internet ufficiale dell'organizzazion  "www.ppoitaly.com" e' possibile saperne di piu' e seguire giorno per gior no  gli avvenimenti dal deserto.

 

Il team Duna Rossa ( ispirato alle  dune rosse al tramonto) e' forte di ben cinque elementi ben assortiti,  affiatati e motivati (Gianni Vezzani, Carlo Vigiani, Ambrogio D'Adda,  Fausto Tozzi e me) che intendono interpretare questa spedizione col solito spirito che ha da sempre contraddistinto le nostre uscite in  Italia e nel mondo: il desiderio di conoscere nuovi posti e nuovi  popoli, la voglia di avventura, l'allegria dello stare insieme.

Malgrado il regolamento consenta l'uso del GPS, nessuno di noi sara'  provvisto di tale strumento: faremo uso della bussola, cartina,  contachilometri e road book in rispetto dei principi che animano questo  genere di competizioni, pedalando sempre in gruppo per meglio  affrontare le difficolta' del percorso e per avere piu' chances di concludere tutti il raid in un tempo che consenta al team di ben  figurare nella classifica a squadre.

Solo un paio di settimane fa, una ditta contattata su consiglio di un'amica casualmente incontrata sul treno, si dimostra disponibile ad   una sponsorizzazione dell'allora anonimo team Duna Rossa ...

 

E' stato come togliere il coperchio al vaso di Pandora !

Dovevamo dare visibilita' allo sponsor ed allora dovevamo proporci ai media, farci conoscere, incuriosire ...

 

      Grande e' stato l'entusiasmo ed il grado di coinvolgimento di molti a cui ci siamo appoggiati seguendo il nostro istinto e/o i consigli che  ci sono piovuti addosso, mentre eravamo ancora impreparati.

 

      Abbiamo deciso per la multidisciplinarieta' del team: Duna Rossa non e' solo bici, ma e' ovviamente vela a cui si ispira il nome, e' sci di fondo e alpinismo, e' canoa, trekking ... e' un modo di stare insieme  godendo dell'ambiente che ci circonda, e' cioe' tutto cio' che e'  stato e che sara'.

 

      Abbiamo deciso di prefiggerci degli obiettivi e di fare un salto di  qualita' mai pensato, cercato, sperato ...

 

      Nel giro di un paio di settimane, il team Duna Rossa e' apparso a  piu' riprese sui quotidiani:

 

martedi 12.02.02:  "Il giornale di Vimercate"

giovedi 14.02.02:  "Corriere della sera"

sabato  16.02.02:  "La gazzetta di Viterbo"     

  martedi 19.02.02: "il giornale di Monza"

 

... per non parlare delle prossime pubblicazioni:

 

giovedi 21.02.02:  "Il cittadino di Monza e Brianza"

?!? :  "Il secolo XIX" di Genova

?!?:   "Il giorno" di Milano

?!?:   "Il corriere mercantile" di Genova

 

Gareggeremo indossando due set di divise nuove fiammanti coi colori   bianco e rosso ove campeggera' il nome della squadra e quello degli  sponsor "MarZinc" di Viterbo e "Sportissimo" di Modena e riposeremo  utilizzando le attrezzature fornite dalla "Ferrino" di Torino.

 

Non tutto, pero', e' andato a buon fine, infatti il contatto con chi  avrebbe potuto fornirci le biciclette non ha avuto seguito per mancanza di lungimiranza dei nostri interlocutori e soprattutto di  tempo da parte nostra ...

 

Concludo questo lungo comunicato ricordando ancora il sito "www.ppoitaly.com" per seguire la gara su internet (immagini, foto e  testi scorreranno anche sulla TV stream)

 

Siamo arrivati terzi !

 

Questo e’ l’assegno che ci hanno dato

 

 

 

La medaglia

 

 

La Targa

 

 

 

 

                        La  " Libyke "

                                  (2^ edizione:  22 febbraio / 1 marzo 2002)

 

E' una gara di orientamento in autosufficienza alimentare che si corre in mountain bike con un programma che ha previsto quattro tappe, di cui una notturna, della lunghezza variabile da un minimo di 42 km ad un massimo di 65, da farsi nell'arco di quattro giorni. Ciascun partecipante ha l’obbligo di portare il suo equipaggiamento (acqua e cibo per la tappa oltre al materiale di sicurezza) in uno zaino per tutta la durata della prova.

 

Pena la squalifica, ogni tappa doveva essere terminata entro un’ora dalla partenza della tappa successiva, transitando obbligatoriamente dai controlli intermedi disposti lungo il percorso.

 

Il teatro della competizione e' stato il comprensorio nord del deserto libico dell'Akakus, nella regione di Ghat, posta a sud-ovest della Libia ad una cinquantina di km dal confine con l'Algeria; il percorso si e’ snodato in un paesaggio fantastico ricco anche di siti archeologici, percorrendo ogni tipo di terreno: sabbia, dune, pietraie, sentieri battuti e wady (fiumi prosciugati) 

 

Le condizioni di ammissione sono state tali da prevedere un numero chiuso di partecipanti, rispondenti a determinati requisiti attestanti l’idoneita’ alla prova, che hanno concorso ad una classifica generale. Erano anche ammesse le iscrizioni di  squadre (minimo tre persone) per entrare in lizza per la corrispondente classifica.

In contemporanea, sullo stesso percorso e con le stesse regole s e’ svolta la IV edizione della Desert Marathon, gara a tappe di maratone.

 

             Il team  " Duna Rossa "

 

Gianni VEZZANI: 

 

di origini venete, monzese di adozione, poco piu’ di cinquantanni, scapolo di professione, tecnico in una ditta di microelettronica; pratica piu’ discipline sportive senza prediligerne una in particolare; conta al suo attivo trekking in diversi continenti, spedizioni di sci-alpinismo in Norvegia e Marocco (oltre che sulle nostre Alpi), raid anche estremi in montain bike (Tunisia, Cipro, Creta, …).

 

Carlo VIGIANI: 

 

viterbese da qualche anno abitante in brianza, scapolo trentenne, ingegnere elettronico; la corsa e la bicicletta sono i suoi sport preferiti; la musica classica e le opere liriche rappresentano uno dei suoi maggiori hobby.

 

Fausto TOZZI: 

 

modenese al 100%, trentacinque anni circa, non ha ancora trovato la donna dei suoi sogni, tecnico informatico; predilige gli sport di resistenza, ma il suo fisico gli consentirebbe di fare qualunque cosa: riesce a passare con estrema naturalezza da una maratona ad un trekking sull’Himalaya e dalla canoa ad una lunga pedalata nel deserto; tra i suoi hobby c’e’ anche la degustazione dei vini (e’ sommelier diplomato).

 

Ambrogio D’ADDA: 

 

nato e vissuto nell’hinterland Milanese da circa 45 anni, scapolo; tecnico elettronico; la discesa di fiumi e torrenti in canoa e’ stato uno dei suoi primi amori, ma ora e’ orientato alla mountain bike, anche se non disdegna altri sport.

 

Pierangelo TESORO: 

 

nato a Genova meno di 45 anni fa, single con una figlia Stefania quattordicenne, ingegnere, lavora nel campo della microelettronica e da oltre un decennio si e’ trasferito nell’area Milanese; ha condiviso con Gianni tante esperienze ora di biker, o di trekker, o in canoa; appassionato anche di sci di fondo e vela, nei suoi hobby c’e’ la scrittura, infatti ha l’abitudine di tenere traccia dei suoi viaggi, arricchendoli con note personali sui luoghi, sulle persone, sui cibi, sulle curiosita’, …

 

          PEDALARE DI NOTTE NEL DESERTO

                                               (di Pierangelo Tesoro)

 

E’ mezzanotte e fa freddo, ma l’eccitazione e la tensione e’ tanta, per cui non lo accuso affatto; inoltre, sia la salopette che la maglia in “thermodress” riescono a darmi sufficiente confort per non battere troppo i denti. Nella bagarre della partenza il nostro team “Duna Rossa” non e’ in prima fila come nella tappa di esordio, ma al segnale del VIA, dato da Fiorini appollaiato sul suo inseparabile jeeppone, iniziamo finalmente a pestare sui pedali per sparare fuori la nostra tensione e vincere il freddo pungente.

Il nero assoluto delle tenebre ci inghiotte all’istante: la luna non e’ piena e non si ha una visibilita’ superiore a qualche metro davanti a se, malgrado tutto il lavoro fatto nel pomeriggio per montare i fari alogeni alla bici ed i frontalini fissati al nostro caschetto.

Ricordiamo che dobbiamo buttarci tutto a destra verso le montagne per trovare il terreno pedalabile, perche’ altrimenti resteremo irrimediabilmente impantanati se seguissimo la via piu’ diretta e, continuando a chiamarci per nome l’un l’altro, procediamo con tanta apprensione nel buio della notte.

E’ praticamente impossibile riuscire a capire dove puntare la gomma anteriore della bici per pedalare al meglio. Decidiamo di spegnere tutte le nostre luci per abituare gli occhi alla sola luna; malgrado non sia ancora piena, ha una luce fortissima capace di rischiarare sufficientemente la strada anche per noi biker, ma il risultato non cambia: continuamo a scendere dalla bici con troppa frequenza, poiche’ troppo spesso troviamo sabbia fine dove affondiamo inesorabilmente.

Probabilmente, poco distanti da noi (avanti, dietro, di fianco) ci sono altre persone, ma cio’ che si vede, a parte il fantastico cielo stellato, e’ la siluette nera delle montagne.

Pedalare in quel deserto dal terreno cosi’ variegato in cui sabbia, pietraie, rocce, erg, … si alternano e si mischiano fra loro in continuazione e senza soluzione di continuita’, richiede una grossa concentrazione e continua attenzione per non rischiare di andare a finire contro un arbusto secco provvisto di quei micidiali aculei di acacia che mordono la pelle e forano le gomme, per non rischiare di andare gambe all’aria per un qualunque banale motivo, o piu’ semplicemente per diminuire le probabilita’ di restare insabbiati …

Quando si e’ giu’ a spingere la bici nella fastidiosissima sabbia e’ decisamente piu’ faticoso procedere e soprattutto meno divertente (sono un biker non un podista), ma il lato positivo e’ dato dall’estrema tranquillita’ di cui si e’ pervasi: il silenzio assoluto interrotto solo dal soffiare del vento, l’opportunita’ di potersi guardare intorno e sopra le nostre teste senza alcun affanno e preoccupazione.

Il tempo scorre lentamente e la mente viene attraversata da pensieri di ogni tipo.

Per questa tappa notturna, ci eravamo studiati il percorso sulla cartina russa 1:20.000 confrontandolo con la descrizione riportata sul road-book, giusto per avere la conferma che Patrizio aveva scelto come terreno di gara un territorio decisamente meno infido del giorno prima: in questo caso ci trovavamo su un plateau e bastava stare ai margini delle montagne per restare su un percorso fattibile che si sovrappone, solo a tratti su quello ideale. Nel briefing, Patrizio ci aveva detto di aver infittito il numero delle balise piantate a segnalare il percorso (una ogni 1-2 km) ed inoltre su ogni picchetto aveva anche assicurato la trekking light, un aggeggio che sprigiona una luce fosforescente per diverse ore (teoricamente doveva durare tutta la notte); in queste condizioni, i paletti che indicavano la retta via dovevano essere piu’ visibili ed era sempre piacevole rilevarli ad intervalli per nulla regolari, poiche’ troppe volte ci discostavamo dal percorso che aveva tracciato l’organizzazione.

Dopo qualche ora dalla partenza della tappa, avvistiamo la tenda del primo punto di verifica; ci dicono che abbiamo ancora diversi altri concorrenti dietro di noi, ma non siamo poi cosi’ interessati alla competizione, siamo piu’ intenzionati a vivere in modo completo questa fantastica esperienza.

Tira un forte vento e sono sudato, dopo la punzonatura del mio cartellino, scendo dalla bici, infilo il k-way e mi siedo in terra al riparo della ruota anteriore del fuoristrada dell’organizzazione per mangiare qualcosa prima di ripartire. Scambio qualche chiacchiera coi verificatori e mi accorgo che sono copertissimi a confronto di come eravamo noi: sciarpe, berretti di lana, piumini e mi rendo conto che deve fare parecchio freddo … Altri ciclisti e podisti improvvisamente sbucano dal nulla, eseguono il controllo, bevono qualcosa e spariscono nuovamente, nel mentre che noi allegramente oziamo fino a quando avvertiamo con insistenza i brividi provocati dal sudore che si raffredda sotto i nostri indumenti: abbiamo coperto appena 14 km dei 65 previsti ed e’ bene riprendere il cammino.

Per un lungo tratto il terreno e’ favorevole ai ciclisti nel senso che ha la giusta consistenza che permette una buona pedalata senza particolari preoccupazioni: tutte le mie luci sono spente, spingo sui pedali e mi affido alla luna focalizzando di tanto in tanto una sagoma scura piu’ avanti, o piu’ indietro, o piu’ a destra, o piu’ a sinistra che non so esattamente a quale dei mei compagni appartiene, ma e’ li’, e’ con me e mi da’ affidamento. Non si e’ mai certi di andare nella giusta direzione, ma sono sereno e mi sento particolarmente leggero.

E’ in situazioni come questa col vento che eccheggia nelle orecchie, col terreno che crepita sotto le ruote, col cielo limpido che ti avvolge interamente trapuntato di stelle, che la mente se ne va per conto proprio e mille pensieri si presentano contemporaneamente: penso a mia figlia Stefania di tredici anni, penso a chi il giorno prima si era perso in questo territorio cosi’ fantastico, ma altrettando infido e pericoloso, penso a quegli altri amici coi quali ho diviso altre sensazioni di questo tipo e che non hanno ritenuto opportuno cimentarsi, penso a quello che potrei dire quando raccontero’ questi giorni cosi’ intensi, penso a quanto e’ bello il Piccolo Carro ed a come si vede nitida la costellazione di Orione e la seguo per individuare quanto sono luminose le Pleiadi … ma non faccio in tempo a scorgerle che vengo sbalzato dalla bicicletta ! Un grosso sasso aveva deciso di porsi sulla mia strada e la mia ruota anteriore ci e’ sbattuta contro con le conseguenze del caso.

Al km 28 c’e il secondo punto di controllo: i nostri contachilometri avevano misurato ben oltre quel chilometraggio, ma nessuna traccia della tenda verde.

Mi tornano in mente quei podisti che erano nella nostra tenda. Ricordo quando, appena ricevuto il road-book e le note aggiuntive, avevano inserito nei loro GPS tutti i way-point e penso a quanto poteva essere utile in casi come questo avere uno strumento che ti dice dove devi andare per trovare quello che stai cercando: spero di non doverci pentire per aver scelto di non ricorrere all’aiuto della tecnologia per l’orientamento ...

Cercavo di individuare i bagliori del fuoco del punto di controllo, piuttosto che la sagoma scura della tenda, quando Carlo rompe il silenzio urlando: “Tenda-tenda !”, parafrasando il grido “Terra-terra !”  dei naviganti. Anche il secondo “check point” e’ raggiunto.

Sara’ stata la presenza di Simona, capelli lunghi castani e gradevoli forme sinuose, appartenente allo staff medico al seguito della carovana, sara’ stato il calo della tensione emotiva, sara’ stata la stanchezza ed il freddo, sta di fatto che non ho affatto fretta di ripartire e ne approfitto per sostituire la camera d’aria anteriore che da diversi km mi costringe a fermarmi per rigonfiare la ruota: trovo un paio di spine piantate nel copertone che avevano attraversato anche il nastro protettivo interno e pizzicavano di tanto in tanto la camera d’aria.

Quando ripartiamo, sono passate le 3.30 di notte ed abbiamo ancora tanti chilometri da macinare: il morale e’ buono, le gambe vanno ancora bene e malgrado la stanchezza, la tensione ed il timore di fare errori di valutazione lungo il percorso, troviamo parecchi motivi per goderci ugualmente la nottata.

Se si escludono i pochi sporadici incontri ora con podisti ora con ciclisti, siamo sempre rimasti soli coi nostri pensieri e fantasie a seguire il nostro percorso, di tanto in tanto facendo riferimento alla luce artificiale montata su una delle nostre biciclette. E’ proprio seguendo il lampeggiare della luce rossa posteriore di Fausto che realizzo nuovamente quanto l’imprevisto e’ sempre presente; infatti, improvvisamente scompare la luce montata sulla bici e non vedo nemmeno la sua trekking light verde appesa allo zainetto: pochi istanti e metto a fuoco i contorni di un uomo che si rialza ed una bici a terra.

Da un po’ di tempo continuiamo a vedere davanti a noi delle luci che non sono nostre e che piano piano diventano sempre piu’ vicine; sia noi che loro stiamo seguendo la stessa pista, ma sono leggermente piu’ lenti di noi. Li raggiungiamo all’approssimarsi di un tratto roccioso ove di tanto in tanto dobbiamo scendere dalla bici per prevenire pericolose conseguenze: si tratta del duo Andrea-Roberto e dei cinque componenti la squadra svizzera. Compiamo in loro compagnia un lungo tragitto non disdegnando di fare battute e scambiarci impressioni, finche’ le nostre scelte divergono e via via i due gruppi si allontanano fino a restare nuovamente soli con i nostri pensieri.

Continuo a pestare sui pedali, ma la stanchezza inizia a farsi sentire.

Ennesima foratura … questa volta, addirittura doppia ! Sia Gianni che io dobbiamo sostituire la nostra camera d’aria all’unisono: abbiamo con noi un numero elevato di camere di scorta, ma non sono state sufficienti; siamo tutti e cinque al lavoro: uno smonta la ruota, l’altro ripara la camera d’aria, un altro pregonfia … siamo tutti indaffarati ed infreddoliti (il vento soffia insistentemente ed ogni volta che ti fermi, ti si asciuga addosso il sudore gelido) … quasi non ci accorgiamo di due ombre che arrivano correndo dalle montagne. Riconosco Karim Mosta insieme ad un altro francese: “Ou e’ le point de repere !” … capiamo subito che avevano compiuto un giro piu’ largo e stavano cercando il terzo punto di controllo, quello che per loro podisti rappresentera’ l’arrivo della tappa e la fine delle fatiche e il meritato riposo al caldo del sacco a pelo.

Mentre Gianni ed io completiamo la gonfiatura dei nostri pneumatici, Fausto, Ambrogio e Carlo ripartono per non ghiacciare nell’attesa. Trascorrono piu’ di una ventina di minuti prima che raggiungiamo due dei tre, infatti Fausto aveva seguito una pista che si spostava ad ovest verso le montagne, mentre tutti gli altri avevano preferito restare al limite della catena, memori del percorso segnato sulla cartina. Accendiamo tutte le nostre luci e proseguiamo urlando il suo nome, finche’ non udiamo una sua risposta e finalmente il team Duna Rossa si ricompatta. Rinfrancati e sollevati (soprattutto Fausto) pedaliamo verso il terzo chek-point.

E’ a questo punto che sentiamo un sordo rombo e vediamo dei fari in lontanza; e’ il fuoristrada con Fiorini a bordo che ci viene incontro: “Ci sono stati dei problemi causati dalla sabbia, per cui l’arrivo delle bici e’ quello dei podisti” - “Ma allora ci manca poco, siamo arrivati” - “Si’, ormai ci siete. C’e’ qualcun altro oltre voi ?” - “Dovrebbero essere in zona Karim ed un suo socio, per il resto non sappiamo …”

Nessuno di noi chiede informazioni sul perche’ della riduzione del percorso decisa durante lo svolgersi della tappa e pensa gia’ al sorso di the caldo ed all’enorme falo’ per scaldarsi che troveremo una volta giunti al campo e spinge con maggiore decisione sui pedali.

E’ proprio vero che gli ultimi chilometri sono i piu’ lunghi: un attimo prima sei concentrato e determinato per portare a termine una prova che richiede ancora piu’ di un’ora di impegno ed ora non vedi l’ora di arrivare ed ogni minuto sembra un’eternita’ …

Non sono trascorse cinque ore dalla partenza, infatti sono circa le cinque del mattino quando arriviamo al termine della tappa: non c’e’ neppure montato l’arco per indicare l’arrivo, ma la cosa non mi interessa … rimandero’ ad un altro momento il capire perche’ sono cambiate le cose e che cosa e’ successo, ora devo andare a scaldarmi davanti al fuoco ed a cercare il mio sacco a pelo .

L’equipaggiamento

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In base alle condizioni climatiche (di giorno la media e’ stata superiore ai 35^ e di notte e’ andata anche al di sotto dello zero) ed al proprio fabbisogno, ogni concorrente ha affrontato ogni tappa selezionando il materiale da portarsi appresso, rispettando l’obbligatorierata’ di:

-         uno zaino o equivalente: per contenere tutto il necessario

-         un casco: per proteggere la testa

-         una bussola, un contachilometri: per orientarsi e scegliere il percorso

-         una pila, un accendino, un coltello: accessori per varie ed eventuali

-         una pompetta anti-veleno: in caso di brutti incontri troppo ravvicinati

-         un fischietto, uno specchio di segnalazione: per farsi sentire e vedere

-         un telo di sopravvivenza: utile, se si e’ costretti a trascorrere la notte all’addiaccio

-         acqua per almeno 1.5 litri, cibo per almeno 2000 kcalorie: alimentazione di base

-         un kit di sicurezza comprensivo di un bastoncino luminoso, due razzi di segnalazione, carta in scala della zona , road book delle tappe

-         macchina fotografica con rullini: per fissare qualche immagine significativa

 

Andare in Libia

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La Libia puo’ rappresentare il fascino di una terra antica e straordinaria, custode di capolavori artistici che hanno sfidato il correre dei secoli; e’ un paese rimasto chiuso al turismo per lungo tempo, la cui politica, pero’, nel corso degli ultimi anni e’ mutata profondamente, aprendosi verso l’esterno come non era mai avvenuto in precedenza.

A dispetto’ pero’ della decisione del colonnello Gheddafi di aprire i confini libici al turismo internazionale, estremamente complicate sono ancora le procedure per l’immigrazione ed e’ ancora assolutamente impensabile credere di potersi organizzare autonomamente un viaggio in questo deserto.

Tanto di cappello percio’ alla PPO organization ed al suo fondatore Patrizio Fiorini, che e’ riuscito tra mille difficolta’ a realizzare un volo charter che da Roma Fiumicino ci ha portati direttamente in pieno deserto fino a Ghat, ben 1.500 km all’interno della Libia e a poche centinaia di km dal teatro di gara.

 

Accostarsi alla Libyke

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Per affrontare prove di questo genere non occorre un programma di allenamento specifico in cui si prevedono solo uscite in bicicletta, bisogna curare tanti aspetti che vanno dalla resistenza alla fatica, alla saldezza di nervi, alla capacita’ di adattarsi alle circostanze, al prevenire i possibili problemi. In altre parole, non basta curare solo la propria forma fisica (condizione necessaria, ma non sufficiente) occorre aver raggiunto anche un buon stato mentale; la determinazione deve sempre accompagnarsi al ragionamento; le cose non vanno improvvisate, bensi’ attentamente ponderate.

Tanti possono essere i motivi che spingono verso questo genere di competizioni sportive: il puro e semplice agonismo, la ricerca di nuove emozioni, il mettersi alla prova, la curiosita’ di provare nuove sensazioni, … qualunque sia comunque la ragione, non sono d’accordo con chi partecipa in maniera avventata, rischiando di mettere a repentaglio la propria sopravvivenza; penso che ci debba essere sempre il rispetto per gli altri, oltre che per se stessi.

Perdersi nel deserto significa non solo mettere in pericolo se stessi, vuol dire mettere in moto una complessa operazione di ricerca che non puo’ certo garantire il risultato e se l’organizzazione poi ha anche qualche piccola pecca, si puo’ arrivare al marasma piu’ completo. In definitiva, perdersi nel deserto per un proprio errore di valutazione puo’ far parte dei tanti rischi calcolati a cui si sa di andare incontro, ma perdersi nel deserto perche’ si e’ messo in conto di seguire gli altri o di sfruttare le tracce del passaggio di chi ti precede senza preoccuparsi di affinare le proprie conoscenze di orientamento per acquisire almeno un minimo di autosufficienza, direi che e’ da incoscienti.

Pur avendo ammirato ed applaudito quella persona che, malgrado il suo handicap, ha portato a termine la prima tappa la sera alle dieci, dopo aver vagato per oltre 13 ore nel deserto sotto un sole implacabile, resto del parere che non mi sento di giustificare la sua scelta ad esserci e credo di poter dire che l’organizzazione aveva il dovere di essere piu’ rigorosa riguardo il rispetto dei pre-requisiti per la partecipazione, in virtu’ soprattutto dei limiti che ha mostrato e che probabilmente sapeva di avere, se chiamata ad affrontare malaugurati casi di emergenza.

 

Accorgimenti per la bici e per se stessi

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Non occorre una bici speciale per fare una Libyke: puo’ andare bene anche una non ammortizzata piu’ leggera possible.

Meglio non adottare i pedali con gli attacchi perche’ la sabbia finissima li bloccherebbe inesorabilmente, per cui sono anche consigliate le scarpe da ginnastica (running) anche in considerazione che si scendera’ spesso a spingere nella sabbia.

Eliminare il portapacchi e serrare tutte le viti ed i bulloni; le incredibili vibrazioni cui e’ sottoposto il mezzo meccanico, porterebbero ad inconvenienti vari, per cui il materiale che serve per la tappa va messo in uno zaino portato sulla schiena.

Non oliare la catena ! La sabbia si incollerebbe e rovinerebbe gli ingranaggi, per cui occorre pulirla bene e mantenerla asciutta; durante la gara abbiamo ogni giorno usato un pennello per asportare i granelli di sabbia e sparso del borotalco per tenerla il piu’ possible pulita.

Il problema della riserva idrica puo’ essere risolto adottando uno zainetto che ha anche lo scomparto per il Camel-back, oppure installando sulla bici i supporti per almeno due borracce; ricordarsi che bisogna bere spesso, anche se non si sente la sete per non rischiare la disidratazione.

La scelta dei copertoni e’ molto importante. Due sono i fattori da tenere in considerazione: la presenza di tratti con rocce aguzze nonche’ gli arbusti secchi con le temibilissime spine di acacia, che significano frequenti forature; come affrontare nel modo migliore il terreno principalmente sabbioso.

Noi avevamo pensato di proteggere le camere d’aria dalle spine inserendo tra queste ed i copertoni uno spesso nastro di gomma distribuito uniformemente lungo la parte interna dei copertoni. Ha funzionato solo in parte sia perche’ le punte di acacia a volte riuscivano a superare tutti gli sbarramenti, sia perche’ a volte le spine penetravano lateralmente il copertone laddove non c’era la protezione interna in gomma.

Tutto cio’ per dire che la soluzione “tubeless” rappresenta forse la piu’ dispendiosa in termini economici, ma anche la piu’ valida per la loro mescola piu’ dura e resistente dei normali copertoni (meno forature) e perche’ in caso di forature e’ sufficiente una goccia di “attack” ed una bomboletta per riprendere a pedalare (meno tempo impiegato per la riparazione).

Non consiglierei di dare ascolto a chi suggerisce di praticare uno o piu’ fori addizionali nel cerchione per consentire l’uscita di una o piu’ valvole delle relative camere d’aria alloggiate all’interno dello stesso copertone: non appena si fora la camera d’aria in uso, si puo’ subito gonfiare quella di riserva per poi sostituire tutte le camere d’aria in una botta sola, quando sono tutte bucate.

Altra nostra scelta non azzeccata e’ stata quella di montare i copertoni artigliati a danno degli “slick”. Vero che sulle rocce il “grip” che esercitavano i pneumatici scolpiti dava piu’ stabilita’ nel procedere, ma altrettanto vero che sulla sabbia e’ necessario montare copertoni slick il piu’ largo possibile. Ricordo che la prima tappa mi ero messo alle spalle di Lillo (vincitore della Libyke precedente) mantenendo il suo passo  e soprattutto ricalcando le sue scelte di percorso: mentre lui andava via quasi galleggiando sui tratti sabbiosi, io ero costretto a pestare molto di piu’ e spesso dovevo scendere a spingere; in pratica, i miei artigliati crepavano maggiormente lo strato superficiale piu’ duro della sabbia favorendo l’affondamento dei miei pneumatici quando la velocita’ diminuiva al di sotto di un valore limite … gli slick invece garantivano una superficie di appoggio sul terreno sabbioso uniforme e molto piu’ vasta, decisamente piu’ favorevole e renumerativa a parita’ di sforzi.

Per quanto riguarda l’orientamento, noi avevamo scelto di fare ricorso ai soli mezzi tradizionali, per cui il supporto per il road-book e magari anche per la bussola e’ assai utile; in questo modo si hanno sempre sottomano le informazioni utili per la navigazione nel deserto. Il regolamento pero’, non solo ammette l’utilizzo del GPS, bensi’ le coordinate del punto di arrivo e dei controlli intermedi sono note a priori e quindi memorizzabili nel proprio sistema di navigazione assistita, sgravando il corridore di uno dei compiti piu’ impegnativi in gare di questo genere: l’orientamento. Perdersi e’ una questione di un attimo e lo stress legato al timore di aver sbagliato e’ altrettanto penalizzante … se resta in vigore l’attuale regolamento, suggerirei di mettere da parte tutte le nobili intenzioni di fare i “puri” usufruendo della tecnologia del GPS montato anche lui possibilmente sulla consolle. Per inciso, ben oltre la meta’ dei concorrenti aveva questo strumento ed ho ancora in mente, quando alla partenza della terza tappa il gruppone si e’ immediatamente diviso in due: una parte (podisti e biker) che seguiva le indicazioni del road-book (bussola a CAP 190^) ed un gruppo che si dirigeva decisamente piu’ a sud-est privilegiando la strada piu’ breve che congiungeva il punto di controllo memorizzato sul proprio strumento elettronico; probabilmente avranno seguito un tragitto meno pedalabile, di certo si sono risparmiati un largo giro che puntava verso le formazioni rocciose.

Per finire, le crème “sun-block” (fattore di protezione 36 in su’) sono fondamentali, ma chiudono i pori e non fanno respirare la pelle; meglio non esagerare col loro uso restando coperti il piu’ possible ed utilizzando una specie di telo per il collo.

Essenziali gli occhiali da sole per proteggersi dai raggi del sole ed in caso di vento che solleva la sabbia (altro spietato killer degli occhi).

Dell’acqua si e’ gia’ detto, mentre il cibo non e’ poi cosi’ critico: attenzione a non esagerare col dosaggio degli integratori in polvere, bene l’uso moderato di barrette energetiche, ottima la frutta secca, bene anche qualcosa di salato (cracker) … assolutamente da bandire il cioccolato, ottimo in montagna, ma poco adatto al calore del deserto che lo scioglie inesorabilmente

 

Confronto tra i maratoneti ed i ciclisti: 

 

si e’ detto che uno degli aspetti peculiari della gara era che due diverse discipline venivano poste quasi sullo stesso piano, infatti vedere fianco a fianco maratoneti e ciclisti ha senz’altro rappresentato una novita’ anche spettacolare, per certi versi. La “bagarre” sotto l’arco che indicava la partenza della tappa, vedeva ciclisti a sinistra e podisti a destra che non si sono mai danneggiati l’un l’altro. In teoria il percorso dei ciclisti, due tappe su quattro, doveva essere piu’ lungo di quello dei maratoneti (65-70 km contro 42), ma in realta’, per motivi a me poco chiari (non escludo quelli logistici) l’organizzazione ha deciso durante lo svolgimento della tappa (proprio quella notturna) di chiuderla per tutti al traguardo dei podisti.

In definitiva, la quarta edizione della Desert Marathon e la seconda Libyke si sono svolte esattamente sullo stesso percorso teorico; dico teorico perche’ ognuno sceglieva il suo proprio, seguendo il GPS, oppure la bussola, oppure il road book, oppure l’istinto, basandosi sul terreno che “leggeva” di volta in volta di km in km, sentendo dove tirava il vento …

Mediamente un ciclista riusciva a completare la tappa in poco piu’ di tre ore, mentre ad un maratoneta occorrevano circa quattro ore e mezzo per coprire la stessa lunghezza; mentre i piu’ forti ciclisti impiegavano due ore e mezzo (con minimi di poco piu’ di due ore), i loro pari podisti sfioravano le tre ore; le distanze si allungavano considerevolmente per i piu’ lenti, infatti i ciclisti viaggiavano sulle cinque ore con punte di anche sei, mentre i maratoneti restavano in ballo otto-nove ore con punte superiori alle 13 ore.

Questi numeri nudi e crudi la dicono lunga sulla differenza di impegno e di ripercussioni tra gli appartenenti alle diverse specialita’.

Chi riusciva a completare il percorso restando nei tempi medi, aveva il tempo per riposare, non restava sotto il sole implacabile che nel pomeriggio diventava anche insopportabile per l’assenza (per lunghi tratti) della brezza piacevolmente secca tipicamente mattutina, aveva la possibilita’ di distrarre corpo e mente dalla fatica e dallo stress di perdersi, aveva la possibilita’ di rifocillarsi e di chiacchierare, …

Mentre i ciclisti non ricorrevano (tranne qualche raro caso) all’infermeria, i podisti (tutti) erano costretti a curare le loro innumerevoli vesciche che immancabilmente si formavano e si estendevano di giorno in giorno sui loro piedi martoriati.

 

Pedalare nel deserto:

 

insieme all’orientamento, la pedalabilita’ rappresentava la nostra piu’ grossa incognita alla partenza dall’Italia. Le indicazioni che ci aveva fornito Patrizio, mutuate con quanto avevamo letto sull’edizione precedente della Libyke, avevano permesso di tratteggiare in modo piuttosto approssimativo un quadro che lasciava ancora troppi punti oscuri: quale poteva essere la percentuale di pedalabilita’ ? … come affrontare il grosso problema delle frequenti forature causate dale spine di acacia ? … meglio usare le gomme slick o quelle artigliate ? … come proteggere la catena e gli ammortizzatori dalla sabbia finissima che si infila dappertutto ? …

Il primo impatto con la realta’ del terreno c’e’ stato subito dopo aver rimontato le biciclette ed aver espletato tutte le formalita’ ed i controlli pre-gara: tanta fatica e poco risultato …

Tante sono le accortezze da tenere in considerazione che si acquisiscono a poco a poco a furia di provare e sbagliare:

-         il colore della sabbia: se e’ piu’ scura significa che e’ piu’ fredda, se e’ piu’ fredda e’ piu’ compatta, per cui piu’ tenuta

-         dove soffia il vento: la sabbia viene portata ed accumulata sottovento, per cui sopravvento restano i granelli piu’ pesanti e quindi quelli che danno maggiore tenuta

-         tracce di pista: sugli altipiani, ove il terreno e’ caratterizzato da sabbia e sassi, di tanto in tanto ci si imbatteva in piste tracciate dale ruote dei fuoristrada; sicuramente il passaggio dei pneumatici aveva spianato il terreno, altrimenti oltremodo fastidioso per le sue rugosita’, ma aveva anche spaccato la parte superficiale e rimosso la sabbia favorendo l’insabbiamento

-         velocita’: se si era in grado di mantenere un certo dinamismo, non solo diminuiva sensibilmente il tremore che si trasmetteva sul manubrio determinato dal terreno irregolare, ma si riusciva anche a procedere con minori problemi poiche’ quasi si riusciva a far galleggiare le ruote al limite della sottile crosta superficiale … vero che si pedalava con la sensazione di avere la bicicletta trattenuta da un elastico, ma almeno non si scendeva a spingere …

Pedalare in quel deserto significava non solo assolutamente non distrarsi cercando di riconoscere la sabbia che teneva di piu’, evitando sempre gli infidi arbusti secchi che spuntavano dal nulla ricchi di acuminate e lunghe spine di acacia, eseguendo i pericolosi passaggi tra gli incavi delle rocce con la massima determinazione e concentrazione perche’ troppo spesso erano sede di sabbia che bloccava inesorabilmente la ruota anteriore provocando rovinose cadute …

era anche fare un qualcosa che da’ piacere e sensazione di liberta’ in un ambiente che riesce ad estendere tutto al limite, anche le percezioni positive.

Pedalare nel deserto e’ stato anche intimamente respirare la liberta’, teneramente abbracciare la solitudine, tranquillamente cullarsi nella serenita’, estasiaticamente inebrarsi degli scenari e dei paesaggi.

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