HANNO SCRITTO DI LUI...

La prima pagina de "Il Messaggero" del 25 febbraio 2003
Un uomo buono a dispetto dei suoi personaggi (G.Satta)
La grande anima di Roma  (W.Veltroni)
Personaggio immortale (S.Loren)
La testimonianza di Luigi Magni
"Che risate con lui e Fellini" (F.Interlenghi)
Il benefattore (R.Bottari)
"E' stato un grande osservatore dell'umanità" (E.Scola)
"Quella sera a MonteCarlo" (M.Costanzo)
"Ballammo insieme il Tuca-Tuca" (R.Carrà)
Buon gustaio all'italiana ..... (G.A.Dente)
"Al primo incontro le gambe mi tremavano" (G.Governi)
"Ci capivamo al volo ..... " (E.Vanzina)
Non era soltanto un attore era il Paese stesso (F.Ferzetti)
"Interpretò i sentimenti degli Italiani nei momenti più duri" (C.A.Ciampi)
La dedica di Jannacci
Il Palazzo lo corteggiava  (M.Ajello)
Storia di un Italiano  (Il Regista)
Storia di un Italiano  (l'Allievo)
La volta che ammise "Alla Mangano ho voluto bene"   (M.Costanzo)
Testimonianze  (Vari Personaggi)
Il Ricordo  (L.Jattarelli)
Non solo cinema  (R.Sala)
Vera icona della prima Repubblica  (E.Menduni)
"Ci sentiamo più soli"  (S.Berlusconi)
Il mondo dello sport  (M.Ferretti)
"E' stato un maestro al livello di Totò"   (R.Simone)
"I nostri set che Paradiso"  (N.Manfredi)
La vita  (L.Jattarelli)
La camera ardente  (M.Lombardi)
Geniale per America e Francia  (S.Trincia)
Quella stella nel cielo di Positano  (P.Saluzzi)
Nel suo volto il nostro romanzo  (G.Fofi)
"Rutè nun je la faccio più, me so' già pentito"

 


Un uomo buono a dispetto dei suoi personaggi

di GLORIA SATTA
E’ MORTO un uomo buono, che nella finzione della sua arte ha incarnato cialtroni, vigliacchi e canaglie ma ha vissuto i suoi 82 anni praticando scrupolosamente i principi cristiani dell’onestà, della solidarietà, del rispetto degli altri. Alberto Sordi è stato un cittadino sempre ligio alle istituzioni, un cattolico non sfiorato dal dubbio, un personaggio pubblico mai animato da livori o risentimenti, un protagonista dello spettacolo mite e accomodante al quale era sconosciuta l’invidia per il successo altrui.
E’ morto un uomo generoso, che sul mito della propria avarizia costruì una carriera ma nella realtà ha sempre destinato la sua ricchezza a chi aveva meno di lui e ha aiutato i poveri, gli orfani, gli anziani, i giovani bisognosi. La fama di re dei taccagni, maturata negli anni della Dolce vita in cui Sordi lavorava senza sosta e perciò non aveva tempo per divertirsi,  è stata contraddetta dalle numerose donazioni, dalle opere di beneficenza, dagli oboli cospicui che hanno contrassegnato (il più delle volte in segreto) la vita dell’attore e da quelle che rappresenteranno ora la sua eredità concreta.
E’ morto l’uomo di successo, il personaggio pubblico abituato alle celebrazioni, ai bagni di folla e agli omaggi internazionali ma sempre attentissimo a difendere la propria vita privata dalla curiosità, dai pettegolezzi, dalle intrusioni dei media. Pochissimi erano ammessi a frequentare la bella villa del Celio, che Sordi considerava immorale ostentare e nella quale trascorreva, soprattutto negli ultimi anni, la maggior parte del tempo con la sorella Aurelia e con il piccolo gruppo degli intimi: il musicista Piero Piccioni, le addette stampa Maria Ruhle e Paola Comin diventate negli anni persone di famiglia, la montatrice Tatiana Morigi, la signorina Nunziata che con tanta dedizione presiedeva l’ufficio dietro via Veneto, il luogo di rappresentanza dove convergevano lettere, regali, suppliche dei fans, i medici Rodolfo Porzio e Luigi Baratta.
E’ morto l’uomo che al suo mestiere aveva consacrato se stesso al punto di rinunciare a una moglie, a una famiglia, ai figli: Alberto Sordi, che liquidò con memorabili battute la propria allergia al matrimonio («e se poi quella, mentre dormi, ti trafigge l’orecchio con uno spillone?») fu sposato tutta la vita con il suo pubblico così come un monaco dedica l’esistenza alla missione religiosa.
E’ morto l’artista che alla frequentazione di scuole e accademie aveva preferito l’osservazione diretta della realtà. Era fiero, lui che per via della pronuncia romanesca si era visto respingere dall’Accademia dei Filodrammatici di Milano (la stessa che sessant’anni dopo l’avrebbe diplomato ad honorem, con tante scuse), di aver inventato il "neorealismo comico" dopo il nerorealismo drammatico di De Sica, Zavattini e Rossellini. E aveva attinto tutto da quella vita reale che anno dopo anno, film dopo film, avrebbe poi incamerato le battute, i modi di dire, le espressioni lanciate dall’attore ("lavoratori...tié!", "ammazza che fusto", "ce l’hai una casa? E vattene a casa"...).
E’ morto un uomo integro, che non piegò a compromessi la propria notorietà rifiutando fino all’ultimo il corteggiamento della politica e le lusinghe della pubblicità. E’ morto un artista che, dopo essersi fatto ambasciatore della terza età (Nestore l’ultima corsa resta uno dei suoi film più toccanti, quasi un testamento), avrebbe voluto dividere con le generazioni più giovani il proprio patrimonio professionale, culturale, di vita: Storia di un italiano, il collage dei film di Sordi alternati a immagini di repertorio su un secolo di storia italiana, doveva essere distribuito nelle scuole ma l’attore se n’è andato prima che il progetto si realizzasse, probabilmente perché la sua imponenza ha spaventato i politici. Ed è questo l’unico cruccio, la spina nel cuore che ha funestato gli ultimi mesi di Alberto, monumento della storia italiana che non finiva mai di ringraziare il Padreterno per la fortuna che gli aveva regalato.

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LA GRANDE ANIMA DI ROMA

di WALTER VELTRONI
LA NOTIZIA è come un colpo di frusta. Ora, senza Alberto, saremo tutti più soli. Ci mancherà una parte di noi stessi, nella nostra identità di romani e di italiani; ci mancherà lo specchio nel quale la sua umanissima sensibilità ci ha restituito, con passione, con ironia, con intelligenza, con pudore, l’immagine di cinquant’anni della nostra storia. Storia pubblica, storia privata. Bene e male, virtù e difetti, coraggio di vivere e debolezze.
Ho un ricordo di Alberto Sordi fatto di tante cose. Era stato amico di mio padre, che lo avvicinò alla radio, era amico mio e della mia famiglia. Pensare che non lo vedrò più mi dispiace, ma non mi dà tristezza. Un artista non scompare mai, si dice, perché lascia un forte segno di sé nel nostro mondo di uomini vivi. Per Alberto questo è ancora più vero: vorrei che, per rendergli almeno un po’ di quanto gli dobbiamo, ognuno di noi pensasse, oggi, a quante ore di divertimento ci ha regalato, quante risate ci ha strappato, quanta commozione ci ha lasciato nell’anima. E quanta verità ci ha insegnato: quante occasioni per guardarci come siamo, costringendoci a fare i conti con i vizi pubblici della società italiana e le nostre debolezze private e avendo sullo sfondo, come una certezza, una pietà profonda per le asprezze, le contraddizioni, le più amare vicissitudini del “mestiere di vivere".
In questa virtù della pietà sta, forse, la cifra dell’ottimismo dell’uomo. L’ultima volta che parlammo con lui, un paio di settimane fa, dopo la cerimonia per il conferimento del Premio Campidoglio alla quale la sua salute gli aveva impedito di partecipare, disse a me e ad Ettore Scola: «State tranquilli. Verrò, verrò a ritirare il premio. Verrò appena farà meno freddo».
Non è venuto. Non ce l’ha fatta e con lui, s’è detto, se n'è andato un pezzo di Roma, un pezzo del cuore di Roma. È vero: pochissimi grandi artisti — mi vengono in mente Belli, Trilussa, Petrolini — sono stati tanto “romani" quanto lui. Il bene che questa città gli ha voluto ha anche questo segno, quello di un legame profondo, pur se allegro, ironico, disincantato, ammiccante, con quella che chiamiamo l’anima di Roma. Un legame che Francesco Rutelli volle sottolineare, nel giugno del 2000, chiedendogli di fare, per un giorno, lui, proprio lui, il Sindaco di Roma.
Ma Alberto Sordi è stato, resta, il protagonista e l’interprete di una storia che è una storia unica: quella della capitale e quella dell’Italia insieme. Chi può sostenere che Una vita difficile non sia il film di una storia “italiana"? Chi può dire che il romano della Grande Guerra non fosse, quanto il milanese interpretato da Gassman, un personaggio “italiano"?
La stessa storia: pagine del medesimo libro che nessuno riuscirà a stracciare e neppure a leggere deformandola con le lenti dell’odio, dell’ignoranza, dell’intolleranza e della divisione. Nello stesso modo in cui De Filippo e Totò sono stati, restano, napoletani e italiani, Alberto ha calato dentro la sua straordinaria “romanità" lo spirito universale dell’arte, quello che vola al di sopra dei confini e delle province dello spirito e che ci fa capire le lingue, i dialetti, i gerghi che tutti rimandano alla stessa umanità. Quello cui ha fatto riferimento, giorni fa, Martin Scorsese parlando a Roma dei film di Alberto. O quello di cui faceva cenno Jack Nicholson quando disse di aver imparato cosa sia la comicità “dall’italiano Sordi".
Ma ha calato anche, nel suo lavoro di artista, quel “quid" che intere generazioni di intellettuali, specie nel secondo dopoguerra, hanno inseguito dentro e fuori di sé raccontando l’Italia che andava trovando il proprio riscatto dalle miserie della storia e la ricostruzione materiale e morale della propria ricchezza di Nazione. Con il suo spirito lieve, la sua ironia, il suo modo gioioso di stare insieme con gli altri che non sono stati soltanto l’apparenza della sua arte ma la sostanza della sua vita.

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Loren: «Personaggio immortale»

ROMA - «Un personaggio immortale, che rimarrà nei nostri cuori per sempre». Sofia Loren ricorda così Alberto Sordi. «Ero molto amica di Alberto -dice - nonostante non abbiamo mai fatto un film insieme a parte uno all'inizio di carriera intitolato Due notti con Cleopatra del 1954 (di Mario Mattoli) che resta per me un carissimo ricordo. Alberto mi aiutò moltissimo, era un film comico e allegro, lui è stato veramente un grande maestro. Nonostante avessimo deciso di fare qualcosa non ci siamo mai riusciti. L’ho sentito qualche mese fa ma non sapevo che stesse così male. È un uomo che rimarrà nei nostri cuori per sempre - conclude - un personaggio immortale, meraviglioso per noi italiani. Ci ricorda un cinema di altri tempi, un tempo glorioso e d'oro. Alberto ha saputo raccontare vizi e virtù degli italiani. Con Totò è stato il personaggio più bello che il cinema ci ha dato». Ma con Sordi la Loren dice di essersi anche divertita: «Il ricordo più divertente? Quando mi parlava di mangiare: il suo pasto della domenica era una specie di sogno, avrebbe desiderato che tutti i giorni fosse così. Oggi è una giornata davvero triste non solo per me ma per tutto il cinema italiano».

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LA TESTIMONIANZA di LUIGI MAGNI

NEL mio secondo film, Nell’anno del Signore, Alberto era il frate che assisteva i due carbonari Targhini e Montanari, condannati a morte, per salvare la loro anima dalla dannazione. Letto il copione, mi chiese con sorpresa: «Ma questi non se pentono?». No, risposi. «E perché?», mi chiese. Perché nella storia non si sono pentiti. E, comunque, se si pentissero cambierebbe anche il senso del film. «Ma così vanno all’Inferno», obiettò seriamente Alberto. Io dissi: pazienza. Poi mi chiese: «Tu quando mori non ce voi annà in Paradiso?». Risposi: e a me che me ne frega. Mi guardò severamente. Poi aggiunse con un tono di voce che non ho mai dimenticato: «Peggio per te».
Alberto era un cristiano devoto e fedele, per cui in questo momento non ci chiederebbe applausi di addio e ricordi di circostanza ma, nell’antica tradizione, solo un silenzio consapevole. Con lui finisce il nostro tempo: l’epoca in cui abbiamo vissuto e sperato in un mondo diverso. Da oggi noi saremo più soli, ma anche Roma sarà più buia.

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«Che risate con lui e Fellini»

di Franco Interlenghi

ROMA - Franco Interlenghi, l’ultimo “vitellone" rimasto, ricorda il set dello stupendo film di Fellini che lo vide protagonista accanto a Sordi nel 1953. «Non glielo volevano far fare I vitelloni. Invece lui era il più grande attore del mondo. Alberto aveva appena fatto Mamma mia che impressione che era andato male. E, con Fellini, era stato fischiato per Lo sceicco bianco. Così Federico mi disse: “Franco, Sordi mi piacerebbe nel ruolo di Alberto ma non lo vogliono". Poi cambiarono idea, per fortuna, e alla prima scena, quella in cui usciamo dal carnevale, capii subito che mi trovavo di fronte a un genio. Era in più grande di tutti, anche di Totò. Nei Vitelloni io ho il primo nome sulla locandina ma era lui che lo avrebbe meritato. Lui era davvero un poema. Del successo del film non ce ne rendevamo conto, con Alberto e Federico stavamo sempre a ridere. Ricordo che ci mettevamo in camera, in un alberghetto triste di Viterbo, con il fratello di Federico, Riccardo, di guardia che, al momento opportuno, urlava: Arriva la Masina!". Ultimamente ero andato a trovarlo all'Ambra Jovinelli, dove doveva intervenire per una serata del Roma Film festival: mandò un video da cui ho capito che stava male. La verità? È stato davvero un grande».

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Il benefattore/Contro la leggenda che lo voleva avaro, l’attore è stato generoso. Donò anche un terreno di otto ettari per l’Università Campus Bio-medico
Altruista silenzioso, ha aiutato anziani e bambini
La Fondazione che porta il suo nome crea borse di studio e porta avanti progetti in campo scientifico

di ROBERTA BOTTARI

ROMA - Alberto Sordi ha passato tutta la vita a nasconderlo. Fino a ieri. Nel giorno della sua morte, sono arrivate tutte le testimonianze della sua generosità. A cominciare da quella di don Giovanni Di Ercole, il suo confessore. La leggenda che lo voleva avaro lo ha accompagnato fin dai primi anni della sua carriera. Lui, però, non si mai dato da fare per smentire quella diceria. «Perché», spiegava, «chi vuole essere altruista e prodigo deve farlo in silenzio, nell’anonimato». E così è stato: Alberto Sordi ha fatto più beneficenza di quanto si possa immaginare. La Fondazione che porta il suo nome, una delle sue poche opere umanitarie conosciute, era nota soltanto perché in questo modo sperava di raccogliere più fondi. Creò e fece crescere il progetto dell'Università Campus Bio-Medico di Roma dedicato a chi non è più giovane. Seguì passo passo la costruzione del “Centro per la Salute dell'Anziano", che fu inaugurato con lui nell'anno del Giubileo. Dopo aver venduto all’ateneo romano, nel 1991, 20 ettari di terreno a Trigoria, si entusiasmò e decise di far nascere la Fondazione Alberto Sordi, donando come patrimonio un terreno di 8 ettari per ampliare il progetto universitario e sanitario. L’istituzione, grazie all’attore, ha sviluppato una particolare attenzione verso le persone anziane, soprattutto quelle in condizioni di disagio psicologico, che chiedono affetto ancor prima che assistenza. Oggi a Trigoria, la Fondazione raduna molti anziani, impegnati in arti manuali, in incontri culturali e in altre iniziative per conoscersi e aiutarsi. Accanto, è cresciuto un Progetto giovani (sempre voluto da Sordi), che assegna borse di studio e dà sostegno agli studenti in difficoltà economiche.
Si racconta che esigesse per contratto tutti i vestiti indossati sul set. Non solo i cappotti, le giacche e i pantaloni, ma anche le camicie, le cravatte, i pullover, le canottiere e gli slip. Era vero: in mezzo secolo di carriera si è fatto donare migliaia di indumenti. Ma quello che non si sapeva è che tutti questi vestiti sono finiti in un istituto romano che aiuta i poveri.
Non era nato ricco e amava ripetere che detestava lo spreco. Il suo stile di vita è sempre stato assai parco. Mangiava poco, non frequentava salotti mondani, non gli piacevano i viaggi. Il suo divertimento preferito era giocare a scopone con il fratello e la sorella. La sera, prima di andare a letto, prendeva soltanto mezza aspirina: diceva che gli teneva lontani tutti i malanni.
«Non è vero che era avaro. Faceva tanta beneficenza, solo che non amava che se ne parlasse». Lo ricorda così Silvio Rotunno, amico di Alberto Sordi da 30 anni e suo consulente economico. «Aveva a cuore in particolare gli anziani e i bambini, ma - afferma Rotunno - lo definirei un generoso a 360 gradi, anche nei sentimenti». Tre operatori dell’Ama, dopo aver deposto un mazzo di fiori davanti al cancello della sua villa, ieri hanno raccontato: «Ritiravamo i rifiuti sul retro della sua villa. A Natale ci dava una busta con dentro una strenna».
Un giorno, Sordi chiamò un tecnico del suono della Fono Roma: aveva fatto un eccellente lavoro per il film Fumo di Londra (1966) e l’attore gli mise in mano una banconota da 50 mila lire. In quegli studi, ancora raccontano la faccia, sbigottita, del tecnico. E nel dicembre del 2001, in una puntata di Porta a Porta, Alberto Sordi fece due confessioni a Bruno Vespa: la prima era che rimpiangeva di non aver mai preso un Oscar, questa era la seconda: «Lascio tutto quello che ho realizzato nella carriera alla mia Fondazione».

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Scola: «E’ stato grande osservatore dell’umanità»

ROMA - «Se ne è andato un grande osservatore dell'umanità che ha incarnato e riprodotto attraverso i suoi personaggi in maniera satirica ma con grande profondità». È il ricordo del regista Ettore Scola che usa queste parole uscendo dalla casa di Sordi dove si è recato ieri per rendere l'ultimo saluto all'artista.

«È stato il primo, e l'unico che ha avuto il coraggio di prendere in giro i giovani per esempio con Nando Moriconi. Con questo ruolo ha ironizzato su un personaggio stupido che si innammora di miti che non gli appartengono».

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QUELLA SERA A MONTECARLO

di MAURIZIO COSTANZO
LA CONSEGNA dei Telegatti è in genere una cerimonia accaldata e dopo un po’ noiosa. Qualche anno fa una affermazione di Dustin Hoffman mi portò a ringraziare il caso che mi aveva fatto assistere alla premiazione. Hoffman disse: «Quello che ho imparato per fare l’attore comico lo devo ad Alberto Sordi». Mi sembra la prima cosa da ricordare nel parlare del più grande attore brillante (la parola è riduttiva essendo Alberto anche interprete drammatico) che l’Italia ha avuto negli ultimi cinquant’anni e di più. Sordi, interprete dell’italiano, Sordi in grado di farci fare un esame di coscienza (“Lo scapolo", “Il vedovo", ecc.) ma anche di farci conoscere un personaggio come il Marchese del Grillo e due grandi padri: “Un borghese piccolo piccolo" e “In viaggio con papà". Non voglio citare altri titoli anche perché questo è un esercizio che facevo con Sordi chiedendogli notizie su una sequenza, su una battuta o su quando, mentre girava “La grande guerra" era capace di scovare all’interno di una casa, un mobile antico di grande valore. A dir la verità questo me lo raccontò Gassman che aveva fatto con lui quel film. Gassman mi disse anche che un giorno Alberto gli confidò di guardarsi intorno nella grande villa dove non faceva accedere estranei e poi commentare: «Ho intestato quasi tutto alla Chiesa, non si sa mai». Può non interessare ma io ho perso un amico che poco più di un anno fa, a cena a casa mia, rispose finalmente ad una domanda che gli facevo spesso; «Alberto ma tu con la Mangano...», in genere cambiava discorso, faceva una delle sue facce oppure rideva. Quella sera, ed è l’ultima volta che ho avuto occasione di parlare con lui a lungo, volle rispondermi di colpo: «Sì, le ho voluto bene». Furono gli altri commensali a cambiare discorso.
Ho voluto bene a Sordi per le emozioni che mi ha regalato con i suoi film e per la sua autentica generosità. E’ una leggenda metropolitana quella che vuole un Sordi avaro, algido nei sentimenti, incapace di affetti. I ricordi mi si affollano e da questa mattina, da quando ho saputo della sua scomparsa, convivo con le tante occasioni di colloquio e confidenza. Quando Francesco Rutelli lo volle sindaco per un giorno, lo accompagnai in parte di quella sua giornata straordinaria e conversammo per quasi un’ora davanti alle telecamere ancora una volta con sincerità e, ripeto, con affetto. Sempre in quella giornata la sorella Aurelia, l’unica rimasta (immagino quanto sia profondo il suo dolore e lo sgomento per una assenza incolmabile) rimase a chiacchierare parlandomi del fratello al quale per altro somigliava e domandandomi se c’era qualche lettera per lui a “C’è posta per te" dato che lo avrebbe voluto vedere nella trasmissione di Maria. La lettera c’era e Sordi arrivò. Fu accolto come ormai gli capitava sempre da un grande applauso. Però ci sono anche episodi divertenti e inediti. Più di venti anni fa ci ritrovammo a Montecarlo dove io conducevo un programma radiofonico proprio per Radiomontecarlo e lui era ospite. La verità era che il programma si registrava a Roma ma lui ottenne di andare a Montecarlo. L’accompagnava una ragazza avvenente ma di poche parole. Andammo a cena con il regista del programma, il direttore di Radiomontecarlo e la ragazza. Quest’ultima si allontanò per andare al bagno. Passò mezz’ora e non tornava. I commensali si preoccuparono ma Sordi imbastì un dialogo con me per cui non ci muovemmo. La poveretta si era sentita male e fu portata in ambulanza in albergo. Sordi mi disse: «Chi l’avrebbe detto... una ragazzona così forte» e io capii che avrebbe certamente avuto cura di lei ma che un po’ lo indispettiva questo week-end monegasco compromesso. La sera andammo al casinò dove si produsse in un esercizio spettacolare, evitando che troppe persone gli stessero intorno e congedandosi sempre con un “Ciao cara, ciao caro" che gli permettevano di svicolare. L’indomani, ad un pranzo, intuì che una signora accanto a lui apparteneva alla categoria delle donne che si stupiscono di tutto. Prese l’avvio un indimenticabile atto unico dove Alberto indicava una forchetta o un bicchiere e la signora si lasciava andare a degli "Oh" di stupore come se fosse entrato un alieno o come se Alberto gli avesse mostrato un Capodimonte di altissimo valore. Più tardi mi disse: «Ogni tanto mi piace recitare per me, come quando stavo seduto ai tavolini del Caffè Esperia a piazza Cavour e mi divertivo a guardare passare la gente, e cercavo di intuire la professione e di scoprirgli i tic». Accidenti, mi sento sempre più povero. Anche lui dopo Gassman, dopo Totò, dopo Tognazzi, dopo Fabrizi, dopo Mastroianni è andato ad infoltire un cartellone che non avremmo mai più possibilità di applaudire. A noi, suoi amici affezionati orfani del suo talento e della sua umanità ci consenta di ricordarlo senza temere la retorica. Quando muore Alberto Sordi non muore soltanto un grandissimo artista ma un parente stretto.

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Carrà: «Ballammo insieme il Tuca-Tuca»

ROMA - «Cosa provai quando ballammo insieme il Tuca Tuca? Pensai, “Sicuro, stavolta mi cacciano dalla Rai"». Raffaella Carrà ricorda così Alberto Sordi. L'attore fu protagonista con la showgirl di un memorabile sketch sul Tuca Tuca a Canzonissima '70. «Sordi era una persona di parola - dice la Carrà - mi disse che gli era piaciuto il Tuca Tuca e che di lì a qualche settimana sarebbe venuto ospite in trasmissione. Lo fece e al momento del ballo, Alberto mi poggiò le dita sui seni e sull'ombelico. Pensai che mi avrebbero cacciato. Invece, per fortuna, fu un trionfo».

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Buongustaio all’italiana contro la nouvelle cuisine

di GIACOMO A. DENTE
ROMA - Sparisce con Albertone un grande testimonial dell'italiano medio, dei suoi vizi e delle sue virtù, una icona del romano disincantato, anche di fronte ai grandi riti della tavola, come emerge da tutti i suoi film, dove la cucina ha sempre un ruolo centrale, e non solo di colore . Sarebbe stato uno straordinario testimonial dell'anti-sushi, Alberto Sordi, un giocoso negatore della seduzione di fusion e cruderie varie. Lo spot del suo manifesto? L'"outing", come si direbbe ora, con la moglie obesa ne Le Coppie, dove -in barba ad ogni altra religione alternativa - esclama « di' quello che te pare, ma le fettucine sono sempre le fettuccine». In fondo nulla alla fine cambia. Ha un bel dire ( Un giorno in pretura) Nando Meniconi « Un drink come a Kansas City », ma poi il cuore batte lungo i filoni consolidati del Frascati e dei bucatini. E' la grande morale, a distanza di poco meno di cinquant'anni, dell'Americano a Roma di Steno e della celebre scena del "macarone" e dell'ormai mitico "io te distruggo", meravigliosa satira del provincialismo esterofilo che si redime nel rassicurante orizzonte di un piatto di pasta.

Figlio della guerra e della fame - in La più bella serata della mia vita di Scola c'è il racconto di una confortante scodella di grandine, giusto per riempire lo stomaco, condivisa con l'amico Agustarello - Sordi è l'antitesi credibile e popolare a tutti i fumi della nouvelle cuisine e dintorni. Altro che mini-porzioni:il cuore batte sempre tra anima pastasciuttara e sapori forti della campagna. Nel Medico della mutua di Zampa, intento ad un abbacchio al ristorante Il Giardinaccio, si fa negare al telefono al paziente disperato. Poi, nella veste dell'anziano ingegner Andreoli, si consola con un bel piatto di maccheroni per aver perduto in una botta moglie e amante. D'altronde è la morale gioiosamente reazionaria del fruttarolo Remo che, ossessionato dal figlio rompipalle che lo vuole mettere a dieta in Dove vai in vacanza?, di notte mangia di nascosto pane e salsiccia, prima di finire, stufo di vacanze intelligenti, sotto lavanda gastrica per indigestione di pappardelle alla lepre e maiale arrosto. I personaggi di Albertone sono così. Nel cibo trovano sostanza e giustificazione alla loro emarginazione sociale, ovvero alla loro corsa alla ricerca di uno status, dolorosi, patetici, talvolta commoventi. Come nel geniale affresco di Una vita difficile di Risi, dove, insieme a Lea Massari, nella parte dei cogniugi Magnozzi - nomen omen - si spara voracemente un pasticcio di carne, mentre tutto intorno, tra i padroni di casa, è tristezza per gli esiti del referendum sulla monarchia, metafora impareggiabile sull'indifferenza della storia. Abbuffone, sorridente, beffardo, perfino genialmente crudele. Forse, richiesto di un parere sulla cucina dei nostri giorni, Sordi l'avrebbe liquidata con la sua celebre battuta, nelle vesti di un conte decaduto col servo, in Arrivano i dollari « tiè, magnate il pappone».

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Al primo incontro le gambe mi tremavano

di GIANCARLO GOVERNI
QUANTE cose sono state dette su Alberto Sordi… tante, tantissime da persone autorevoli, da studiosi, da suoi colleghi di lavoro e da tante persone semplici. E le parole dette dalle persone semplici sono quelle che mi hanno colpito di più, perché ci hanno fatto capire che Alberto era uno di loro, uno del popolo, un italiano, un italiano vero che ha raccontato la nostra storia con arguzia, con maestria e anche con impietoso accanimento.
Io, prima di avere la fortuna di lavorare con Alberto e di diventare un “sordologo", sono stato uno del popolo che lo ha amato, che lo ha seguito, che non si è mai perso un suo film. E quando Massimo Fichera il direttore della Seconda Rete (quella vera, quella delle origini) mi chiese di lavorare con lui, venticinque anni fa, confesso che mi sentii tremare le gambe e arrivai emozionato al nostro primo incontro. Ai lettori del Messaggero voglio raccontare la storia di questo incontro e di questo straordinario programma che fu Storia di un italiano.
E’ la prima volta che lo vedo ‘dal vivo’. Di lui so quasi tutto, o almeno credo, e ho visto tutti i suoi film. Lo seguo dal tempo del “Compagnuccio della parrocchietta" e posso dire di essere cresciuto con i suoi personaggi, di essermi nutrito delle sue battute, di averlo usato come specchio della realtà in cui ho vissuto.
“Ma quanti film ha fatto?", gli domando. Centocinquanta, centosessanta... in realtà ha perso il conto anche lui, nonostante la sua meticolosità e la sua ottima memoria. In certi anni, i primi del suo grande successo cinematografico, girò anche undici film in un anno. Tutti lo volevano, il pubblico correva a vederlo e lui era preso da una specie di febbre che gli imponeva di rappresentare tutti i personaggi che incontrava nella vita reale e che pullulavano in una Italia in rapida e allegra trasformazione. Passava da un set all’altro senza soluzione di continuità, ma sempre preparandosi con cura e senza ripetersi mai. “Se trenta anni fa mi fossi sposato, oggi avrei figli grandi e magari sarei anche nonno. Non l’ho fatto – dice – perché mi sono dedicato interamente a questo mestiere ed oggi mi ritrovo per figli e per nipoti questi centocinquanta film".
Dopo alcune settimane di lavoro durante le quali abbiamo visionato tre film al giorno, anche se non abbiamo il coraggio di confessarcelo, non pensiamo più al programma di un’ora: la nostra mente è rivolta ad una lunga storia degli italiani dagli inizi del secolo fino ad oggi, a questo italiano che è sempre presente in ogni momento cruciale della nostra storia. C’è la prima guerra mondiale e lui è lì in trincea, suo malgrado; finisce la guerra, arriva il fascismo e lui si leva il frac dell’attore di variété e si mette la camicia nera; passa da una guerra all’altra, fra un armistizio ed una liberazione, giù giù fino al miracolo economico, all’arte di arrangiarsi, fino al volto da belva umana di Un borghese piccolo piccolo, tragica maschera dei nostri giorni. Una storia, insomma, che Sordi ha raccontato nei suoi trenta anni di cinema con scrupolo, con meticolosità, quasi con accanimento e di cui noi ritroviamo il filo nella sua sterminata opera cinematografica.
Da quella mattina di primavera, per due anni, quasi ogni giorno, ho visto Sordi e ho parlato di tutto: della Roma e della Lazio come del rapimento di Moro; del passato e del presente; di Mussolini e di Andreotti; di De Sica e di Wanda Osiris; di Fellini e di Totò. Ma soprattutto ha raccontato a me e a Tatiana Casini, la montatrice del programma che lavora con Sordi da sempre, la sua carriera, i suoi film, la sua vita, se stesso. Ho rivisto tutti i suoi film, quelli che mi avevano accompagnato dagli anni della mia adolescenza fino alla maturità, che mi avevano suggerito le battute e gli slogan del nostro linguaggio (“Ce l’hai una casa? Ma vattene a casa!", “ Ammazza che fusto!" e mille altri), mi sono buttato sulla nastroteca della radio ed ho ritrovato tutti i suoi sketch radiofonici dal Signor Dice al Compagnuccio della parrocchietta, da Mario Pio al Conte Claro. Questa storia d’Italia, che e poi la nostra storia, della generazione di mio padre, della mia e di quella dei miei figli (il fascismo, la guerra, la ricostruzione, il boom, la crisi) l’ho rivisitata insieme a lui.
Il personaggio Sordi caro a tutti gli italiani della mia generazione è diventato per me Alberto, un maestro che ha regalato la sua amicizia a me e alla mia famiglia che è durata tutta la vita. In questi anni di frequentazione ho capito che Sordi ci ha sempre rappresentati nei nostri aspetti negativi, nelle nostre debolezze ma anche in certe nostre qualità. Sordi in cinquanta anni di lavoro ha fatto con grande coerenza l’italiano ...a tempo pieno. Insomma, Alberto Sordi siamo noi!

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Ci capivamo al volo: in me riviveva gli anni con mio padre

di ENRICO VANZINA
ERA il più bravo. Era il più grande. Era come Ribot. Era come Petrolini. Era come Pelé. Era come Sugar Ray Robinson. Era come Louis Armstrong. Era un'altra categoria. Era il più buffo, ma soprattutto era il più spiritoso. Ed era un gran signore. Un signore di origini popolari. Dunque il più bel signore che un signore può essere. Non era mai volgare, mai cafone, mai superficiale, mai gratuito. Era sempre perfettamente in linea con la sua onestà intellettuale di attore semplice. E proprio per questo raffinatissimo. Era benpensante, tradizionale. Ma modernissimo. Il suo compagnuccio della parrocchietta fu una fucilata di intelligenza dopo anni di telefoni bianchi e di commedie smielate. Il suo Nando nei film di mio padre Un giorno in pretura e Un americano a Roma era così avanti da essere moderno ancora oggi. Era un po’ matto. Basta pensare alle sue canzoni. Era modesto. Mai presuntuoso. Ha insegnato a tre generazioni che la carriera di un artista non dipende solo dai grandi film ma dalla voglia di far bene il proprio mestiere anche nei piccoli film. Amava dire che non si era mai sposato perché, con un patto non scritto, aveva sposato il pubblico. E' così. Alberto è stato il marito in tanti film ed allo stesso tempo è stato il marito di milioni di spettatrici. Ne è stato anche il vedovo. E' stato il nostro papà, il nostro vigile, il nostro medico. E' stato fifone, coraggioso, vigliacco, opportunista, idealista, cattivo, generoso. E' stato l'icona di celluloide che meglio ha rappresentato il campione comportamentale degli abitanti di questa penisola. Quello, però, che è assolutamente stupefacente è che Alberto ha imitato alla perfezione gli italiani ma poi, per un misterioso meccanismo d'identificazione al contrario, sono stati gli italiani a imitare lui. Lui era noi e noi siamo tutti un po’ lui.
La sua scomparsa mi addolora profondamente. Alberto era uno dei migliori amici di mio padre. Lo conoscevo da quando ero nato. Gli volevo bene e lui voleva bene a me e a mio fratello Carlo. Mi dava delle carezze. Anche quando mi incontrava in questo ultimo periodo. Lui diventato la metà di se stesso e io con i capelli bianchi. Ci capivamo al volo. Forse lui in me rivedeva quegli anni entusiasmanti della sua giovinezza quando Vittorio De Sica lo aveva scelto come eroe comico di questa nazione e mio padre lo aveva consacrato facendogli fare il bagno nudo nella “maranella" insieme a dei ragazzetti di periferia. Io, in lui, vedevo il senso profondo della nostra professione, fatta di sacrificio, di passione e di amore smisurato per il pubblico. Adesso, lassù, dove lui ha sicuramente una “suite" (me lo aveva detto, alzando gli occhi al cielo: «Ho parlato con Lui... E mi ha detto che ho una stanza riservata»), ritroverà Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Sergio Amidei e il suo piccolo amichetto Steno. Lo stavano aspettando. Perché in Paradiso forse ci si annoia un po’ e l'arrivo di Sordi sarà una gioia per tutti.
Il giorno del funerale di mio padre l'ho visto piangere nascosto dietro una colonna. Forse pensava che un comico non deve farsi vedere con le lacrime agli occhi. In questo momento dietro la colonna ci sto io. E piango per lui. Ciao Albertone.

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NON ERA SOLTANTO UN ATTORE ERA IL PAESE STESSO

di FABIO FERZETTI
NON ERA un attore, era un paese intero. Non è stato solo il miglior attore italiano del dopoguerra e uno dei più grandi del mondo, ma l’Italia stessa. O meglio l’interprete che più di chiunque altro ha rivelato agli italiani il loro paese. Con le sue glorie e le sue miserie, i suoi vizi e le sue viltà, le paure ataviche e quelle dettate dal momento storico, la guerra, la fame, la ricostruzione, il boom economico, l’avidità materiale. E il consumismo, l’americanizzazione, l’emancipazione femminile, la contestazione, la restaurazione.
Se lo stesso Sordi, grande archivista del proprio lavoro, ebbe buon gioco a intitolare Storia di un italiano il suo fortunato programma-antologia, è perché dietro ognuno dei suoi film correva il filo rosso della storia nazionale. Una storia senza maiuscole e tutta raccontata “dal basso", come sapeva fare il nostro cinema di una volta, dando vita a una galleria senza eguali di personaggi sempre incredibilmente veri — e talvolta più veri del vero. Che morissero da eroi urlando «Non voglio morire, sono un vigliacco!» (La grande guerra). O che si vendessero un occhio per mantenere il tenore di vita (Il boom).
Come scriveva Brancati già nel 1936: «Quando una società diventa al più alto grado materialista, gli artisti che vogliono rappresentarla devono necessariamente essere comici». E infatti. Dite un “tipo", un problema, un carattere, un conflitto della nostra storia recente, e lo troverete incarnato da Alberto Sordi. Titoli come Il seduttore, Il moralista, Lo scapolo, Il vigile, Il marito, I magliari, I complessi, e poi Un giorno in pretura, Un americano a Roma, Un italiano in America, Il medico della mutua, Detenuto in attesa di giudizio, Bello, onesto, emigrato Australia, sposerebbe compaesana illibata, parlano da soli. E film come Lo sceicco bianco e I vitelloni di Fellini, La grande guerra e Un borghese piccolo piccolo di Monicelli, Tutti a casa di Comencini, Una vita difficile di Risi, Il maestro di Vigevano di Elio Petri, basterebbero da soli a farne uno dei volti chiave del nostro cinema.
Ma Sordi è stato molto più che una maschera prodigiosa e capace di creare una sociologia per così dire “in diretta". Romano fino al midollo, dunque geneticamente scaltro, papalino, diffidente di ogni autorità, all’occorrenza servile, corazzato di cinismo irridente, tutte caratteristiche che travasava a meraviglia nei suoi personaggi, è stato anche uno degli attori italiani più amati nel mondo proprio perché al cinema la verità procede sempre dal particolare all’universale, e in questo non era secondo a nessuno. Ma era pure uno dei non molti attori capaci di imporre la propria personalità sempre e comunque, anche ai registi più grandi.
Non c’è film con Sordi che non sia anche un film “di" Sordi (che passò tardi alla regia, con esiti alterni ma talvolta notevoli come nel crepuscolare Nestore, l’ultima corsa). E questo perché non aveva paura di nulla, anzi. Come ricordava il suo sceneggiatore di sempre, Rodolfo Sonego, si gettava su «personaggi di una grettezza quasi ributtante, su racconti abbastanza folli e inaccettabili, e infatti inaccettati da molti altri attori», con «il colpo d’occhio infallibile, il giudizio immediato e fulminante (...) di un animale selvaggio, un animale del bosco che ci vede anche di notte». E che «riesce, per misteriosa intuizione, a rendere con assoluta verità vizi che non ha, sentimenti che non ha mai provato».
I suoi registi magari ne avevano anche un po’ paura, proprio per questa sua capacità di darsi totalmente al ruolo, di viverlo quasi in trance, senza fermarsi di fronte a nulla. Ma Sordi, che in una delle ultime interviste confessava di «non aver mai pensato ad altro che a fare l’attore da quando sono nato», li ripagava con la sintesi folgorante e spietata che è il marchio dei grandi.
Nessuno meglio di lui ha saputo essere insieme «infantile e decrepito, ingenuo e corrotto, saggio e scemo, tiranno e schiavo... un bambino malvagio e vizioso che mentre pecca si odia e si ama, ha orgoglio e pietà di sé», per citare uno dei suoi primi grandi estimatori, Giuseppe Marotta. Nessuno più di Sordi, con il suo gusto per le avventure oltreconfine, ha inverato la celebre battuta di Flaiano secondo cui il nostro popolo è comico in quanto tale e basta mettere un italiano al Polo Nord per smitizzare perfino l’immensa distesa di ghiacci.
E questo non per qualche misterioso carattere “nazionale" ma perché, come ben vide sempre Flaiano, in un paese ancora privo di una lingua ma allietato da innumerevoli dialetti, i soli idiomi capaci di riflettere la realtà, «i ladri, i servi, gli spacconi della Commedia dell’Arte» non solo sono ancora vivi e vegeti, ma «da personaggi secondari sono diventati personaggi principali». E gli attori che meglio hanno saputo incarnarli, i Sordi (e i Tognazzi, i Gassman, i Manfredi, etc.), sono i migliori proprio in quanto «portavoce di una vaga sentimentale incoscienza nazionale, anzi di un rifiuto della coscienza in favore della rappresentazione». Che ha fatto dei servi, concludeva Flaiano, «la nostra vera, continua autobiografia».
Si capisce perché il campione di tutt’altro genere di autobiografismo, il Nanni Moretti di Ecce Bombo, si scagliasse a suo tempo contro questo campione di mediocrità nazionale («Ve lo meritate, Alberto Sordi!»). Ma la sua era la rabbia dell’autarchico, del solitario che tenta di riformare il cinema e il costume nazionale senza rinunciare a un grammo di sé. Mentre la grandezza di Sordi, titano di un’epoca ormai conclusa, protagonista di 150 film, consisteva proprio nel fagocitare, riprodurre, reinventare tutto, anche il peggio, senza distinzioni. Senza paura di essere maggioranza.

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Carlo Azeglio Ciampi :"Interpretò i sentimenti degli italiani nei momenti più duri"

ROMA - Erano coetanei e soprattutto amici. Il cordoglio di Carlo Azeglio Ciampi per la scomparsa di Alberto Sordi è davvero sincero e sentito. Quando lo avviciniamo, dopo una cerimonia al salone delle feste del Quirinale, allarga le braccia: «E’ stato un grande dolore. Veramente Sordi ha interpretato i sentimenti degli italiani, soprattutto nei momenti più difficili e duri». Il Presidente ci ripensa ai film sulla guerra (Un nome per tutti: "Tutti a casa"). «Ma non solo quello». «Sordi - precisa ancora il capo dello Stato - ha rappresentato i sentimenti degli italiani mentre il Paese si stava sfasciando. Però nelle sue interpretazioni non c’è mai la rappresentazione dello sfascio senza speranza. Ecco è qui la profonda italianità di Alberto Sordi». Ma quando lo ha incontrato l’ultima volta, Presidente? Ciampi risponde: «L’ho visto ripetutamente al Quirinale. Una delle ultime volte, venne a mostrarmi la riedizione di tutti i suoi film. Ora che spero che siano visti anche nelle scuole. Sarebbe un modo per rappresentare visivamente tutti i drammi degli anni Quaranta».
In effetti, non molto tempo fa Sordi era stato invitato al Quirinale per assistere insieme al Presidente e a donna Franca una ricostruzione degli spezzoni dei suoi film dell’Istituto Luce. Sordi aveva ribadito la sua intenzione di far diffondere nelle scuole la "Storia di un italiano". E Ciampi aveva dato il suo assenso alla meritoria iniziativa.
Anche donna Franca non sa trattenere la commozione quando ricorda Sordi. «E’ veramente una grande angoscia. Era un amico e noi gli volevamo molto, molto bene. Andremo a salutarlo. E’ stato un vero italiano. Quei film che raccontavano la nostra ultima guerra, il disagio terribile della nostra popolazione. Ma tutto ciò era ricostruito da lui con incredibile senso di verità. Sì, lo vedevamo con una certa frequenza».
Nel pensiero del Presidente e di donna Franca, Sordi è stato un testimone, «una delle figure più rappresentative del Novecento italiano». Ciampi lo dice esplicitamente nel messaggio di cordoglio inviato ai familiari dell’attore. «Con Alberto Sordi - scrive il capo dello Stato - scompare un grande artista, amato e ammirato in Italia e nel mondo».
«Sin dal suo esordio, appena ventenne - soggiunge - ha rivelato le sue straordinarie qualità espressive, riuscendo a cogliere con virtuosismo raro e con profonda ironia, venata di affetto e talora di rimpianto e di amarezza, le virtù e i vizi della "commedia umana"...Ci lascia una lezione di rigore professionale e di amore per gli altri...Lo ricordo e lo ringrazio per quanto ci ha donato». Nel pomeriggio, l’estremo saluto all’"amico Alberto". I coniugi Ciampi vengono accolti in Campidoglio dal sindaco Veltroni e dalla sorella dell’attore. Sostano a lungo, in raccoglimento, davanti al feretro nella camera ardente allestita nella sala Giulio Cesare.

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La dedica di Jannacci lunedì sera alla radio

ROMA - «Senza di lui non ci sarei io, non ci sarebbe il cabaret, non ci sarebbero tante cose». Così Enzo Jannacci, lunedì sera, durante il concerto che RadioRai ha trasmesso in diretta da via Asiago.
Una dedica a Sordi toccante, salutata da un grande applausi da parte del pubblico. Nessuno sapeva che Albertone era così prossimo alla fine e il tributo acquista quindi maggior valore.

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IL PALAZZO LO CORTEGGIAVA - Un modello invidiato da tutti i politici

di MARIO AJELLO
ROMA — E’ morto il politico perfetto. Noi qui a inseguire improbabili modelli istituzionali (modello Westmister? modello tedesco? modello birmano corretto all’islandese?), e l’unico modello concreto che avevamo (il modello Albertone, geniale miscuglio di spirito bipartisan, millenario scetticismo post-ideologico e infinito appeal mediatico) purtroppo non c’è più. Un modello che tutti i politici corteggiavano e avrebbero voluto imitare. Ma, per dirne uno, Rutelli - che pure nella caricatura inventata da Corrado Guzzanti gli somiglia - è un romano troppo poco antico, un cattolico troppo improvvisato e un uomo con moglie troppo ingombrante per essere Albertone («Ecche-me-metto-’n-estranea-’n-casa?»). E Berlusconi di questi tempi rischia di essere simile non tanto a Sordi quanto a Nando Moriconi, proverbiale eroe dell’americanismo a Roma «senza se e senza ma» ma con qualche irrefrenabile tentazione per il piatto di spaghetti: «M’hai provocato? E io me te magno!». D’Alema migliorerebbe nel rapporto col pubblico, se riuscisse a far scivolare nel proprio eloquio qualcuna di quelle battute sapienti alla Sordi che sanno sdrammatizzare meglio di mille «disciamo» e di centomila inciuci bicamerali. Comunque, prima di tutti, Andreotti ha capito la profonda valenza politica dell’attore romano, fino a fargli da spalla nella celebre scena del «Tassinaro». E ora rievoca lo statista Dc: «Con Sordi, ci conoscemmo negli anni ’50. All’inizio lui temeva di starmi antipatico, per via di quel suo film in cui prendeva in giro ragazzotti dell’Azione cattolica. Lo rassicurai subito».
Corteggiato da tutti e pronto a spendere una buona parola per tutti («Berlusconi? Un tipo educato»), Sordi non si è mai fatto arruolare da nessuno. Indefinibile e evasivo anche rispetto al grande potere dello Scudo Crociato. Gli è stato chiesto, per esempio, di fare il sindaco di Roma o addirittura il Papa o almeno il premier. «Le cedo il posto che sarà mio!», gli ha detto Berlusconi, per fare lo spiritoso, prima delle ultime elezioni. E lui rispondeva con quella seriosità grave che è tipica dei comici ogni tanto: «Non ce la faccio a prendre sulle mie spalle la responsabilità di un popolo». Se avesse accettato qualche offerta, avrebbe sfasciato il «modello Albertone». Quel suo non stare nè di qua nè di là perchè stava ovunque. Quella naturale predisposizione all’ecumenismo dentro il quale riusciva a far passare però, morbidamente, proprio come faceva la migliore Dc, anche temi tutt’altro che conformisti e moderatucci: il garantismo in «Detenuto in attesa di giudizio»; lo sfottò nel ’51 contro i ragazzini delle parrocchie in «Mamma mia che impressione!» (film bandito dalla censura cattolica); le denunce del magna-magna nel sottogoverno e la premonizione di Tangentopoli in «Tutti dentro» (dell’84, quasi dieci anni prima delle inchieste del pool di Milano) nel quale Albertone è un Di Pietro ante-litteram e fra i suoi inquisiti ce n’è uno che si chiama «il Cavaliere». «Non sono io - dice il Cavaliere - che ho preso la tangente. E’ colpa della legge che è fatta male...». Sarebbe servito un Cirami anche nel film. Atlantico senza esagerare, addirittura con qualche allergia («Gli americani non sanno ggnente!», ha detto alla festa per gli 80 anni in Campidoglio), il «modello Albertone» può piacere perfino ai ragazzi no-global. Perchè Sordi, al contrario di Benigni, ha sempre rifiutato le offerte delle produzioni americane («Io non faccio la macchietta holliwoodiana») e «Finchè c’è guerra c’è speranza» (storia di un trucido commerciante di armi nel Terzo Mondo) lo vedremo presto in qualche manifestazione pacifista di «Emergency».
Insomma, un politico perfetto. O, come minimo, un realista per nulla fiducioso, come il 99 per cento dei suoi connazionali, di qualsiasi riforma che possa perfezionare il bimillenario sistema Italia e affezionato - a dispetto dei nuovismi - del metodo della concertazione fra le parti sociali. Nessuno più di Sordi è stato, e sarà, capace di esibirsi nell’abbraccio dei vigili, nella carezza ai fotoreporter, nella strizzatina d’occhio a custodi, autisti, portinai, nel dialogo trasversale e interclassista che odora di mousse e di gelatina ma nel bene o nel male ha tenuto insieme tutto. Verrebbe infine da pensare, davanti a questo animale politico lungimirante e «anticipatore», come lo ha definito ieri Rutelli, che nella «Grande guerra» (del ’59) Albertone si stesse fosse rivolgendo a Bush e a Saddam: «Boniiii...State boniiii....!».

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STORIA DI UN ITALIANO

IL REGISTA
E’ SCOMPARSO l’attore italiano più grande del secolo. Il più dotato, il più completo, il più generoso. Non ho dubbi: Alberto è stato all’altezza di Buster Keaton, Charlie Chaplin, dei fratelli Marx. All’estero, soprattutto per sua scelta perchè non volle mai andare a girare film in America, non godeva della popolarità italiana, ma sono sicuro che verrà presto conosciuto e riconosciuto come un grande.
Sordi è stato un comico ma soprattutto un autore. Ha costruito un personaggio unico di italiano: fazioso, feroce, vile, sopraffattore, volgare, corrotto e corruttore. Ha tracciato, attraverso i suoi duecento film, il ritratto più impietoso e più autentico del Paese che era appena uscito dalla catastrofe della guerra e del fascismo.
Alberto ha rivelato agli italiani di che pasta erano fatti facendoli ridere di loro stessi. E grazie a lui, rivedendosi nei suoi personaggi canaglieschi, vigliacchi, tutt’altro che edificanti, gli italiani hanno fatto passi da gigante perché hanno imparato a riconoscere i propri difetti, anche i più inconfessabili. E forse, proprio per questo, hanno trovato lo spunto e la forza per cambiare.
Abbiamo girato insieme tanti film, Alberto e io, da La grande guerra a Un borghese piccolo piccolo. E’ stato per me un compagno felice e indimenticabile. Un uomo pieno di allegria, generosità, idee, voglia di osservare e di conoscere il mondo intorno a lui. Non manifestò mai alcun tipo di presunzione, pur essendo un grande, né provò gelosia per gli altri attori come spesso avviene nel cinema.
Era cattolico nel più profondo dell’anima. Lo scoprii durante le riprese di Un borghese piccolo piccolo. Eravamo al cimitero di Prima Porta, per girare la scena in cui il protagonista si imbatte nelle bare accatastate nel deposito. Mentre noi lavoravamo, arrivavano in continuazione convogli funebri veri, accompagnati da parenti in lacrime. Alberto guardava stupito. Disse: «Non capisco il perché di tanta disperazione. In fondo, la separazione dura poco, presto si ricongiugeranno ai loro cari in Paradiso». Aveva una grande fede, che trasferiva nella vita di tutti i giorni.
A dispetto della sua fama di avaro, ha sempre devoluto in beneficenza buona parte dei suoi guadagni ma facendo bene attenzione a non divulgarlo in giro.
Abbiamo passato insieme ore meravigliose, sul set e fuori. Quando un attore possiede la qualità, non solo artisitica ma anche umana, è più facile lavorarci insieme. E io oggi rimpiango un amico, un collega, un uomo che ha dato tanto al cinema, all’Italia e agli italiani.

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STORIA DI UN ITALIANO

L’ALLIEVO

ALBERTO è stato un attore immenso, la maschera per eccellenza del cinema italiano. Ha raccontato cinquant’anni della nostra vita come nessun altro. E’ stato un grande uomo e un un grande personaggio. E come tutti i grandi, aveva due facce. In pubblico era simpatico, brillante, a volte anche feroce, aveva la battuta sempre pronta. In privato, però, sapeva mostrare aspetti anche malinconici. Era geloso dei suoi spazi, a volte anche diffidente come si conviene a chi, come lui, ha un successo così grande da diventare un’istituzione.
Diventare amico di Alberto non era facile. Infatti, per tutta la vita e nonostante fosse oggetto di un autentico assedio da parte di centinaia di persone, si è circondato di pochissimi intimi: l’antiquario Apolloni, il musicista Piccioni, Silvana Mangano, la storica montatrice Silvana Moriggi... Alberto adorava concedersi al suo pubblico ma a amava anche stare solo con se stesso.
Oggi che non c’è più, io sono tristissimo. Avevamo un rapporto molto bello, da padre a figlio. Con me, lui si apriva e mi confidava i segreti del mestiere. Io gli parlavo a cuore aperto. Sul set del film che girammo insieme, Viaggio con papà, avemmo incontri e anche scontri. Oggi ricordo quei momenti con immensa commozione e mi rendo conto del privilegio che ho avuto. La mia partecipazione alla pellicola fu come formalizzare artisticamente una qualche forma di parentela, mai io mi sono sempre ritenuto un allievo. Da lui ho assorbito tanto, ho anche imparato una certa filosofia dello stare sul set e della vita dell’attore. Ho imparato ad esempio a prendere con filosofia le critiche, anche quelle ingiuste.
Se non fosse stato per lui, se non avessi visto tutti i suoi film nei cineclub durante negli anni dell’adolescenza e della giovinezza, da Un americano a Roma a I vitelloni, da Lo sceicco bianco a Una vita difficile, non sarei diventato attore.
Ma era scritto nel destino: da piccolo, abitavo in una casa del centro e le finestre della mia camera davano su via delle Zoccolette, dove si affacciava anche la camera da letto di Alberto. Se io facevo chiasso, si affacciava una delle sorelle dell’attore e mi intimava: «Zitto, che Sordi dorme!».
Il film che più di ogni altro ha concentrato i mille volti di Alberto è senza dubbio I vitelloni, un’opera corale che esprime pienamente il suo Dna. Fellini aveva capito tutto di lui, della sua grandezza. E per questa sua grandezza non ci saranno altri Sordi. Lui non può avere eredi, forse qualche discepolo. Con la sua scomparsa, così come con quella di Gianni Agnelli, si è chiusa una pagina della storia d’Italia e del cinema. Entrambi hanno rappresentato il nostro Paese in maniera esemplare, ciascuno per il mestiere che svolgeva, dal dopoguerra fino a dieci anni fa. L’Italia, Roma, il mondo delle cultura hanno perso un gigante che ha raccontato il Paese e rinnovato la comicità.
Io perdo un amico, un modello, una guida, l’uomo che mi ha insegnato tutto.

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La volta che ammise: «Alla Mangano ho voluto bene»

di MAURIZIO COSTANZO
il caso che mi aveva fatto assistere alla premiazione. Hoffman disse: «Quello che ho imparato per fare l’attore comico lo devo ad Alberto Sordi». Mi sembra la prima cosa da ricordare nel parlare del più grande attore brillante (la parola è riduttiva essendo Alberto anche interprete drammatico) che l’Italia ha avuto negli ultimi cinquant’anni e di più. Sordi, interprete dell’italiano, Sordi in grado di farci fare un esame di coscienza (“Lo scapolo", “Il vedovo", ecc.) ma anche di farci conoscere un personaggio come il Marchese del Grillo e due grandi padri: “Un borghese piccolo piccolo" e “In viaggio con papà". Non voglio citare altri titoli anche perché questo è un esercizio che facevo con Sordi chiedendogli notizie su una sequenza, su una battuta o su quando, mentre girava “La grande guerra" era capace di scovare all’interno di una casa, un mobile antico di grande valore. A dir la verità questo me lo raccontò Gassman che aveva fatto con lui quel film. Gassman mi disse anche che un giorno Alberto gli confidò di guardarsi intorno nella grande villa dove non faceva accedere estranei e poi commentare: «Ho intestato quasi tutto alla Chiesa, non si sa mai». Può non interessare ma io ho perso un amico che poco più di un anno fa, a cena a casa mia, rispose finalmente ad una domanda che gli facevo spesso; «Alberto ma tu con la Mangano...», in genere cambiava discorso, faceva una delle sue facce oppure rideva. Quella sera, ed è l’ultima volta che ho avuto occasione di parlare con lui a lungo, volle rispondermi di colpo: «Sì, le ho voluto bene». Furono gli altri commensali a cambiare discorso.
Ho voluto bene a Sordi per le emozioni che mi ha regalato con i suoi film e per la sua autentica generosità. E’ una leggenda metropolitana quella che vuole un Sordi avaro, algido nei sentimenti, incapace di affetti. I ricordi mi si affollano e da questa mattina, da quando ho saputo della sua scomparsa, convivo con le tante occasioni di colloquio e confidenza. Quando Francesco Rutelli lo volle sindaco per un giorno, lo accompagnai in parte di quella sua giornata straordinaria e conversammo per quasi un’ora davanti alle telecamere ancora una volta con sincerità e, ripeto, con affetto. Sempre in quella giornata la sorella Aurelia, l’unica rimasta (immagino quanto sia profondo il suo dolore e lo sgomento per una assenza incolmabile) rimase a chiacchierare parlandomi del fratello al quale per altro somigliava e domandandomi se c’era qualche lettera per lui a “C’è posta per te" dato che lo avrebbe voluto vedere nella trasmissione di Maria. La lettera c’era e Sordi arrivò. Fu accolto come ormai gli capitava sempre da un grande applauso. Però ci sono anche episodi divertenti e inediti. Più di venti anni fa ci ritrovammo a Montecarlo dove io conducevo un programma radiofonico proprio per Radiomontecarlo e lui era ospite. La verità era che il programma si registrava a Roma ma lui ottenne di andare a Montecarlo. L’accompagnava una ragazza avvenente ma di poche parole. Andammo a cena con il regista del programma, il direttore di Radiomontecarlo e la ragazza. Quest’ultima si allontanò per andare al bagno. Passò mezz’ora e non tornava. I commensali si preoccuparono ma Sordi imbastì un dialogo con me per cui non ci muovemmo. La poveretta si era sentita male e fu portata in ambulanza in albergo. Sordi mi disse: «Chi l’avrebbe detto... una ragazzona così forte» e io capii che avrebbe certamente avuto cura di lei ma che un po’ lo indispettiva questo week-end monegasco compromesso. La sera andammo al casinò dove si produsse in un esercizio spettacolare, evitando che troppe persone gli stessero intorno e congedandosi sempre con un “Ciao cara, ciao caro" che gli permettevano di svicolare. L’indomani, ad un pranzo, intuì che una signora accanto a lui apparteneva alla categoria delle donne che si stupiscono di tutto. Prese l’avvio un indimenticabile atto unico dove Alberto indicava una forchetta o un bicchiere e la signora si lasciava andare a degli "Oh" di stupore come se fosse entrato un alieno o come se Alberto gli avesse mostrato un Capodimonte di altissimo valore. Più tardi mi disse: «Ogni tanto mi piace recitare per me, come quando stavo seduto ai tavolini del Caffè Esperia a piazza Cavour e mi divertivo a guardare passare la gente, e cercavo di intuire la professione e di scoprirgli i tic». Accidenti, mi sento sempre più povero. Anche lui dopo Gassman, dopo Totò, dopo Tognazzi, dopo Fabrizi, dopo Mastroianni è andato ad infoltire un cartellone che non avremmo mai più possibilità di applaudire. A noi, suoi amici affezionati orfani del suo talento e della sua umanità ci consenta di ricordarlo senza temere la retorica. Quando muore Alberto Sordi non muore soltanto un grandissimo artista ma un parente stretto.

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Testimonianze

ROMA - Commozione, testimonianze affettuose, sconcerto. Il mondo dello spettacolo rende omaggio al grande Albertone.

Dario Fo: «Non preoccupiamoci di celebrarlo da morto. Un artista come Sordi vivrà in eterno attraverso i suoi film». Per il Premio Nobel «Sordi non era solo un interprete comico. Era un indiscusso attore drammatico. Tutto era reinventato per la scena, per attaccare e denunciare».

Paolo Villaggio: «E’ stato il comico più grande perché è stato il primo a smascherare, esorcizzare con la sua naturale intuizione l’essenza provinciale e cinica dell’italiano».

Pupi Avati: «Tutti qui a Cinecittà parlano di Alberto, si sente l’affetto per una persona che si era relazionato con tutti a tutti i livelli, non teneva conto delle gerarchie. Tutti a Cinecittà, dagli autisti ai portieri, parlano di Alberto». Il regista e presidente di Cinecittà Holding, annuncia un tributo all’attore insiena all’Istituto Luce «basato sullo sterminato materiale che lo riguarda».

Lina Wertmuller: «Abbiamo perso un pezzo grosso, una metà di Roma se n’è andata, ed era la metà più ironica, più irriverente».

Max Tortora: «La mia imitazione televisiva muore con lui».

Citto Maselli: «Come se non bastassero le tragedie che vive il cinema italiano in questo periodo, con il governo Berluscono che lo sta facendo morire, la scomparsa di Sordi rischia di diventare un elemento in più di crisi. Ma credo - dice il regista - che proprio la sua morte possa servire da richiamo a tutti noi, per un nuovo rilancio, per un risveglio di creatività».

Claudia Cardinale: «Alberto era un grande che non è mai stato molto apprezzato: era considerato un attore comico e per questo non è mai stato sufficientemente sostenuto all’estero». L’attrice, che ha recitato con Sordi nel ’62 nel film Bello, onesto, immigrato in Australia, sposerebbe compaesana illibata, ci offre una testimonianza: «Di quel film ho un ricordo di grande divertimento. Si rideva in continuazione. Era molto difficile rimanere seri con Alberto».

Suso Cecchi D’Amico: «Con i suoi personaggi ha fatto l’Italia, ne ha solcato in lungo e in largo vizi e virtù, insomma è stato un autore ancor prima che un attore». «Credo che il cinema italiano che gli deve molto abbia per prima cosa adesso il dovere della gratitudine e della memoria», dice la sceneggiatrice.

Lea Massari: «Recitare con Alberto era come ballare un valzer. Non eravamo vicini come carattere. Ma a lui era impossibile non voler bene. L’unica gioia che ma ha dato Alberto negli ultimi anni è stato sapere che aveva imparato ad amare gli animali».

Il figlio della Sora Lella: «Era un vero signore»

ROMA - «Lo ricordo con tanto affetto. Gli volevamo tanto bene. Tutti gli volevano bene». Così Aldo Amleto Trabalza, figlio di Lella Fabrizi, ricorda Alberto Sordi. Trabalza dal suo ristorante “Sora Lella", sull'isola Tiberina di Roma, ricorda che Sordi girò nella trattoria il film Scusi, lei è favorevole o contrario? insieme con la madre. «Era un vero signore».

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Il ricordo/Il regista di “Una vita difficile”, “Il vedovo” e “Il segno di Venere” racconta il suo affetto per Sordi e le tante scorribande comuni
«Aveva uno stile inconfondibile, come Picasso»
Risi: era un grande osservatore, raccoglieva i tic e le manie della gente comune, dal bullo al professore 

di LEONARDO JATTARELLI
ROMA — «Per favore, niente lacrime. Anche perché ancora non posso credere che Alberto non ci sia più. E’ entrato non solo nella storia del cinema ma in quella degli italiani. Io voglio parlarne sorridendo. Essergli stato amico? Un vero privilegio». Dino Risi ha ancora davanti a sé le immagini di un Sordi felice, simpatico, gagliardo. L’Albertone degli anni migliori, quelli siglati, guarda caso, proprio accanto a lui, con lui. «Insieme abbiamo fatto film importanti come Una vita difficile. E ancora Il vedovo e Il segno di Venere». E’ negli annali del cinema la sequenza di Una vita difficile in cui Sordi-Magnozzi, l’ex partigiano divenuto il tirapiedi di un importante uomo d’affari, alla fine ha un soprassalto di dignità e butta in piscina l’industriale. Così come indimenticabile, l’amaro quanto grottesco ritratto che Sordi offre ne Il vedovo.
E quel set veneziano...
«Me l’ero lasciato apposta per ultimo perché mentre giravamo il mio Venezia, la Luna e tu insieme a Marisa Allasio e a Nino Manfredi, accadde qualcosa di molto divertente e insieme malinconico...».
Perché non ce lo racconta?
«Dunque, l’anno era il 1958 e il periodo, proprio quello in cui il Parlamento approvava la celebre Legge Merlin. Insomma, i casini avrebbero avuto ancora poche ore di vita. Vedo Sordi che arriva con una bottiglia di champagne in una mano e un vassoio di paste sull’altra: “Allora andiamo?" mi dice “andiamo a salutare le ragazze. Dobbiamo commemorare in qualche modo questa orribile data". Ci aspettava Il Dollaro, uno dei casini più eleganti di Venezia. Accanto alla maîtresse, quella sera c’erano conti e marchesi tutti in lacrime. Alberto riconobbe tra le ragazze una soubrettina che aveva lavorato con lui. Lo vidi sparire dietro di lei, su per le scale».
Chi era Alberto Sordi?
«Un fratello, un padre, un figlio. Un uomo che ci ha fatto divertire davvero. Un grande attore, eccellente comico e poi innamorato, davvero innamorato della vita. Era un "gasato" dell’esistenza si direbbe oggi. Attento nell’osservare, nel cogliere i tic, le manie della gente comune. Un artista che è riuscito a raccontare bene l’Italia e gli italiani, dal bullo romano al professorone, dal togato all’emigrato e ancora il seduttore e il padre distrutto dal dolore. Un professionista a tempo pieno».
Il suo tratto distintivo?
«Cosa posso dire? Erano i suoi film, il suo modo di girare, la sua intelligenza registica. Un po’ come Picasso che quando andava al ristorante amava disegnare sulle tovaglie di carta. Quello era il tratto di Picasso, anche una semplice linea. Inconfondibile, come il cinema di Sordi».
Cosa amava maggiormente di lui?
«Il piacere di vivere e la generosità, a dispetto di tutte le dicerie sulla sua tirchieria. Ho visto Alberto aiutare tante volte compagni di lavoro meno fortunati rimasti senza una lira. Li chiamava e li faceva lavorare nei suoi film. E poi gli piacevano le donne, una cosa che ci accomunava».
Ed è riuscito a difendere la sua vita privata...
«In modo esemplare direi. Di giorno era sul set, poi la sera si chiudeva nel suo “castello" romano blindatissimo. Si faceva coccolare dalle sorelle, riguardava i suoi vecchi film e, ogni tanto, a Capodanno apriva le porte della sua residenza. Aveva comprato una enorme roulette e lui teneva sempre il banco. Insomma, quello che spendeva per gli invitati alla fine se lo riprendeva al gioco».
Un giudizio sul Sordi attore?
«Era quello che si chiama uno “scavalcamontagne", uno che la gavetta l’ha fatta tutta davvero, fin dai tempi dell’avanspettacolo, quando il pubblico buttava i gatti morti in scena, come ricorda Fellini in Roma. E poi negli anni del grande varietà, quello con la Osiris. Per il cinema, trovo straordinaria la sua interpretazione in Una vita difficile anche se il Sordi più grande rimane sempre quello di Zampa, Un giorno in pretura e di Steno, l’Americano a Roma che guarda assatanato il piattone di spaghetti e dice “Maccarone, m’hai provocato e io te distruggo».
Cosa potrebbe rimpiangere della vita?
«Credo proprio nulla, ma queste sono cose troppo personali. Però ha evitato gli scogli più pericolosi, il matrimonio e i figli. L’unico che non è riuscito ad evitare è stato la morte. Si era fermato come attore e credo che per questo motivo potesse mancargli anche il senso della vita. Così si è ammalato, come tante persone che vanno in pensione».

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Non solo cinema/Un lungo percorso iniziato con la bocciatura ai Filodrammatici di Milano, a causa dell’accento romano. In tv solo con i film o per brevi apparizioni
Dalla Osiris a Mario Pio, il teatro nel sangue
Avanspettacolo e rivista furono i trampolini di lancio, la radio ebbe il meglio della sua creatività

di RITA SALA
ROMA — Ci provò fin da piccolo. Tanto esibirsi in pubblico, a pochi anni, con un teatrino di marionette che girava l’Italia. Poi fu soprano nel coro della Cappella Sistina e, sedicenne, incise un disco di fiabe per bambini.
Alberto, figlio di Pietro Sordi, basso-tuba all’opera di Roma, e di Maria, maestra elementare, aveva una vocazione precisa. Lo attiravano il palcoscenico, il mestiere dell’attore, il rutilante mondo dello spettacolo. Romano e trasteverino, accettò di trasferirsi a Milano solo in nome di questo fuoco, abbandonando l’istituto commerciale per la meneghina Accademia dei Filodrammatici. Ma il 17 gennaio del 1937, a causa del suo pesante accento quirite, fu bocciato dall’insegnante di dizione, Emilia Varini, che lo invitò ad abbandonare la scuola. Il diploma di attore lo ricevette sessant’anni dopo, proprio dai Filodrammatici. Salutò l’evento con una battuta: «Oggi prendo il diploma di attore, ma questo vuol forse dire che per una vita sono stato un abusivo?».
Nel ’37, tornato a Roma, l’allievo respinto si infila fra le comparse del kolossal cinematografico Scipione l’Africano. Spasima, però, per il palcoscenico. Ci arriva solo l’anno successivo, come imitatore di Ollio, il grassone della coppia Stan Laurel-Oliver Hardy, e sceglie un nome d’arte buffo, fintamente esotico, Albert Odisor, forse presago, nell’inconscio, dei fasti dello Sceicco bianco. Era un bel ragazzo, Albertone, faccia sorniona, ottima voce, fisico attraente e proporzionato, esperta galanteria. Affascinava le donne. Con travestimenti assurdi oppure in frac, bastone e cilindro, parodiava, sproloquiava, cantava, ma sapeva anche ballare in fila, fra i boys della soubrette. Alla dura scuola dell’avanspettacolo, e quindi della rivista, maturò le qualità che gli sarebbero servite per diventare una star.
Nel 1947, mentre l’Italia ancora si dibatteva nella confusione post bellica, fu partner di Enrico Viarisio in Soffia, so’, di Garinei e Giovannini, una rivista di satira politica (protagonista, a Roma, Anna Magnani, poi sostituita da Pina Renzi) che fu la prima produzione romana ad “espatriare" a Milano. Accanto a Viarisio, Albertone interpretava uno sketch sulle note di un celebre motivo fascista: Fischia il sasso, cià risemo / ringraziando Santa Pupa / io so’ Romolo, io so Remo / siamo i figli della Lupa. «Quello spettacolo — racconta Pietro Garinei — aveva guai con la censura praticamente tutte le sere, colpiva chiunque senza pietà». Al Teatro Olimpia, a un certo punto, ci fu l’invasione di palcoscenico, tanto che il sindaco della capitale lombarda, Greppi, fu costretto ad arrivare in fretta e furia per parlare alla gente e calmare le acque. La Military Police tagliò la testa al toro arrestando Greppi: l’aveva scambiato per il capo dei sediziosi. Albertone, vista la malaparata, si infilò il cappotto e fuggì dalla porta di dietro del palcoscenico. Lasciò direttamente Milano. L’avventura di Soffia, so’ si concluse così, in tumulto. Venne, più tardi, Gran Baraonda. Era il 1952. Sordi si permise di “maltrattare" in scena, davanti ai milanesi che la adoravano, nientemeno che Wanda Osiris: «Permetti, Wanda Osiri — la apostrofava, strattonandola per un braccio — io so’ giovane, canto, ballo e recito puro. Mi manda il cavalier Trenini della compagnia Faville Italian. Wanda, me devi prenne». Fra gli spettatori affezionati dello spettacolo c’era Federico Fellini, che avrebbe offerto a Sordi, di lì a poco, una parte ne I vitelloni.
Altre zone di spettacolo in cui si è mosso il talento attorico di Sordi sono la radio e la televisione. In radio, Albertone è stato grandissimo. Vi debuttò nel 1948, presentato dalla scrittrice Alda de Cèspedes. Vi parla Alberto Sordi era il titolo, semplice e perentorio, del programma, in cui l’attore romano piazzò una creazione geniale, fra teatro dell’Assurdo e Surrealtà: i compagnucci della parrocchietta, capaci di far ridere l’Italia intera. Nulla di meno nei primi Cinquanta, con Il Teatrino di Alberto Sordi, che vide nascere Mario Pio e il Conte Claro, caratterizzazioni esilaranti, ma anche intelligenti, caustiche, modernissime, riprese molti anni dopo, sempre in radio e con inalterato successo, in Gran Varietà.
Alla televisione Sordi deve invece la celebrazione ante litteram, da lui personalmente curata, Storie di un italiano, che ripropose in più puntate i suoi film più famosi. Celebri, poi, le apparizioni nei varietà patinati, da Studio Uno a Canzonissima, dove Alberto, in smoking o in giacca bianca, corteggiava Mina e deliziava gli italiani con la famosa canzoncina Te cianno mai mannato a quer paese... Se negli anni della sua maturità, già onusto di gloria e intoccabile, avesse ceduto alla tentazione di tornare a teatro (Garinei gli aveva offerto di interpretare Mastro Titta nel remake di Rugantino) o si fosse buttato in una nuova avventura radiofonica, il suo tempo lavorativo non avrebbe risentito della decadenza che la crisi del cinema italiano gli ha comunque lasciato subire, al di là dell’immenso talento dell’italiano medio più famoso del mondo.

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Vera icona della Prima Repubblica

di ENRICO MENDUNI
L’ITALIANO pavido e opportunista ma capace di improvvisi eroismi, moralista e talvolta servile ma pronto a scatti di indipendenza e di creatività, capace di farsi trascinare da grandi passioni e nobili eroismi mantenendo un occhio per i propri interessi e coltivando una socialità estroversa, un inesausto desiderio di ascesa sociale. Tra radio, teatro di rivista, e soprattutto cinema. Sordi naviga sicuro nel gran corpo dell’Italia democristiana, tra zelanti, ortodossi e trasgressivi, dando corpo a un tipo di italiano dotato di personali arti di arrangiarsi e di versatile capacità di ossequiare i potenti, ma pronto a trovare sue personali soluzioni.
Un italiano finalmente a suo agio nel boom economico degli anni Sessanta; le ansie clericali si sono ormai attenuate e quasi dissolte, l’imperativo dell’arricchimento individuale domina le professioni, il commercio, l’edilizia, si diffonde un certo edonismo di massa, qualche trasgressione sessuale è finalmente possibile, a Londra in Svezia o in Costa Azzurra, ma anche sulle spiagge di casa nostra. Il doppiatore di Oliver Hardy, il vigile tartassato, l’americano a Roma e il fante della Grande guerra diventano adesso il medico affermato, l’industriale, il presidente della squadra di calcio ma anche l’inflessibile tecnico dell’industria automobilistica, che conta i tempi agli operai ma non può rinnegare le sue origine mafiose.
Così italiano, così integrato, così partecipe del suo tempo da intercettare ben presto le storture, le ingiustizie, le assurdità di uno sviluppo troppo rapido e ingordo. La falsa uguaglianza che conduce il popolano con auto e moglie al seguito, a farsi torturare dalle “vacanze intelligenti", le immoralità di una giustizia impietosa con i detenuti in attesa di giudizio. Una società che non permette il divorzio ma consente forme varie di adulterio legalizzato in cui un Sordi poligamo, al volante di una lussuosa granturismo, guida un corteo di mogli.
Un personaggio ormai maturo, sempre meno adatto ai tradizionali ruoli di scapoli e seduttori che conosce le ingiustizie dell’età adulta, legate alla paternità: quel borghese piccolo piccolo che tenta disperatamente, tra raccomandazioni e frequentazioni massoniche, di trovare un lavoro al figlio e poi lo vedrà ucciso quasi per caso da un giovane criminale, a cui farà pagare sadicamente quella vita spezzata. Un uomo ricco di esperienza che vede invecchiare attorno a sé la società, non più rampante ma percorsa da incomprensibili violenze, assurdità metropolitane, sevizie postmoderne. Il tassista Sordi riesce a trovare ancora la serenità, ma essa sarà un frutto sempre più raro per l’uomo che Mastella propose, nel 2001, come senatore a vita. La globalizzazione, l’ibridazione fra le culture, i nuovi conflitti appartengono ad una società agli antipodi dalla provincialità romana e al buon senso arguto del Sordi migliore. In questo senso, ha rappresentato veramente un’icona della prima repubblica, il più affettuoso “come eravamo" degli italiani.

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Berlusconi: «Ci sentiamo più soli»
Alla Camera applausi e un minuto di silenzio

ROMA— Applausi e un minuto di silenzio nell'aula di Montecitorio dai deputati in piedi per Alberto Sordi, ricordato dal presidente della Camera Pier Ferdinando Casini come «un autentico e grande italiano». «Ci ha fatto sorridere e ci ha commosso. Ha mostrato con ironia e disincanto — ha detto fra l'altro Casini — il volto più semplice ed immediato dell'Italia e degli italiani, con le loro virtù e i loro difetti. Di tutto questo gli siamo riconoscenti». E il tributo che gli ha reso l’aula della Camera suona come la risposta all’unica voce dissonante della giornata, il giudizio sprezzante del leghista Francesco Speroni, capo di gabinetto del ministro per le Riforme Bossi, secondo il quale «Sordi non può essere definito un attore simbolo di tutti gli italiani. Ha lo stesso passaporto mio, ma rappresenta una realtà locale, territoriale, la cultura romana, romanesca». Parole alle quali risponde per primo il senatore Battisti della Margherita proprio con una battuta di Sordi: «Statte zitto, cicalò».
Il mondo politico, dall’estrema sinistra a destra, lo ricorda invece come un grande, sottolineandone le doti di attore e di interprete dei vizi e delle virtù dell’italiano medio, come dichiara il premier Berlusconi che, nel messaggio inviato alla famiglia, scrive: «Ho perso, abbiamo perso l'amico di sempre e ci sentiamo davvero più soli. Ma ci restano per fortuna i suoi film che continueremo a vedere per sorridere delle nostre manchevolezze e delle nostre doti durante cinquant'anni di storia». E per il vicepremier Gianfranco Fini «la scomparsa di Alberto Sordi priva l'Italia di un protagonista assoluto. Un artista indimenticabile che ha saputo raccontare, col tratto inimitabile del fuoriclasse, i paradossi e gli slanci genuini di un intero popolo». Francesco Rutelli, che gli diede la gioia di essere sindaco di Roma per un giorno, lo ringrazia «per la sua amicizia che lo ha fatto diventare uno di famiglia». Il leader dei Ds, Piero Fassino, afferma che «se ne è andato non solo un grandissimo interprete del cinema italiano, ma del costume e della società italiani, che con il suoi film e le sue caratterizzazioni, ha segnato per decenni la vita culturale di questo Paese». Il segretario di Rifondazione, Fausto Bertinotti, ricorda che Sordi «ha segnato profondamente la cinematografia del nostro Paese e ha contribuito alla diffusione di un'immagine dell'Italia e degli italiani che, anche quando non era pienamente convincente, era tuttavia espressione di un modo di pensare e di vivere di parte consistente del nostro paese». Il senatore a vita Giulio Andreotti, sottolinea che «è sempre stato un moderato, nel senso migliore della parola, tanto che mi confessò di aver votato per me». E Antonio Di Pietro si rammarica «perché non è stato fatto senatore a vita». Ma ad Albertone, che nel pomeriggio non rinunciava mai alla sua “pennichella" quell’incarico forse non sarebbe piaciuto.

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Il mondo dello sport/Molti commossi ricordi e tanto affetto per un campione dello spettacolo che non nascondeva la sua fede giallorossa
E la Roma piange un compagno di squadra
Totti: «Nessuno romano come lui». Domenica anche la Lazio giocherà con il lutto al braccio

di MIMMO FERRETTI
ROMA - «Alberto era un amico di famiglia, ormai. E alcune volte era venuto anche a mangiare a casa nostra. Cucinavo io, ovviamente. E non s’è mai lamentato... Allo stadio, invece, non s’è mai fatto vedere, nonostante i nostri continui inviti. Lui era così: gli piaceva stare per conto suo, non amava la confusione; ma era lo stesso un bel tifoso della Roma...». Maria Sensi ha gli occhi lucidi e un sorriso dolce e amaro, comunque carico di affetto nel ricordare l’amico che non c’è più. Maria e suo marito Franco, il presidente della Roma, sono stati tra i primi ieri sera a rendere omaggio a Alberto nella camera ardente in Campidoglio. «Era un grande tifoso della Roma e lo compiango prima di tutto come romano e poi come nostro sostenitore. Era un bravissimo artista, che ha interpretato al meglio la voce di Roma, e ne ha onorato il nome in tutto il mondo», il ricordo di Franco Sensi. E ancora. «La Roma perde un punto di riferimento essenziale della sua vita, perché Alberto Sordi è stato anche questo. Ecco perché domenica giocheremo con il lutto al braccio, non potrebbe essere altrimenti e lo faremo con il dispiacere di aver perduto una persona a noi molto cara». All’Olimpico, domenica, verrà osservato anche un minuto di silenzio. E a giudicare dal tam tam confezionato ieri mattina dalle radio locali, i tifosi della Roma ricorderanno alla grandissima il loro Albertone.
Da Valencia, dove oggi sarà impegnato in Champions League, il pensiero via internet di Francesco Totti, il capitano della Roma. «La scomparsa di Alberto Sordi è una perdita per l'Italia, ma per Roma e per i romani assume una valenza particolare. Nessuno meglio di lui ha saputo esprimere ed esportare la romanità nel mondo con il suo modo di essere spontaneo, ironico e sincero sia nella vita privata che sul lavoro. Di sicuro lascerà un vuoto incolmabile in tutti noi. Mi dispiace molto di non essere riuscito ad incontrarlo in occasione della consegna del Premio Campidoglio, a causa di una sua indisposizione: oggi quel mancato incontro assume per me un significato particolare». Già, il premio Campidoglio assegnato da Veltroni a un altro romano doc, Carlo Mazzone, allenatore del Brescia. «Ho perso un fratello, anche se non lo conoscevo...», l’accorato pensiero del sor Magara. «Avrei voluto abbracciarlo qualche settimana fa in Campidoglio, ma alla fine non è potuto venire e non averlo incontrato è un dispiacere che mi porterò dietro per tutta la vita». Poi, Fabio Capello, tecnico giallorosso. «Il nostro desiderio, ora, è dedicargli qualcosa d’importante».
Anche la Lazio chiederà di giocare, domenica a Perugia, con il lutto al braccio per ricordare la scomparsa di Sordi. Lo ha annunciato il presidente Ugo Longo. «Alberto Sordi era romanista ma la città di Roma deve ricordarlo al di là delle bandiere. L'Italia ha perso uno dei suoi simboli maggiori. Io lo avevo conosciuto personalmente e ora che non c'è più sono molto colpito. Con lui scompare uno dei simboli dell'italianità e per questo cercheremo, se l'Uefa ce lo consentirà, di giocare con il lutto al braccio anche in coppa Uefa a Cracovia». Piangono Sordi anche il rugby e il basket di Roma. La Lottomatica ha annullato la festa in programma al Campidoglio, la Virtus chiederà di poter osservare un minuto di silenzio sabato al Palazzetto.

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E’ stato un “maestro” al livello di Totò

di RAFFAELE SIMONE
NON c'è paese che abbia imparato a parlare la sua lingua dal cinema e dalla televisione, come l'Italia. Per questo Alberto Sordi è stato, oltre che un formidabile attore, anche uno dei "maestri d'italiano" più importanti dell'ultimo mezzo secolo. Da lui abbiamo imparato a conoscere non solo il tipo umano dell'italiano medio, ma anche molto di quel che sappiamo sulla lingua italiana, i suoi usi, le sue forme regionali. Il suo contributo in questo campo è quasi al livello di quello di Totò.
La sensibilità linguistica di Sordi doveva derivargli da una sua speciale capacità di osservazione. Che già si nota nelle sue trasmissioni radiofoniche, dove dette voce a personaggi come il Conte Claro o più ancora Mario Pio, un boy scout perbenista e maligno. Fu poi un inconfondibile doppiatore: sua, tra le altre, la voce di Oliver Hardy, il famoso Ollio, e sua anche l'invenzione di certi modi di parlare fatti di accenti sbagliati e risate tremebonde, che sono rimasti attaccati per sempre al personaggio.
Ma è nei film che la presenza verbale di Sordi è fondamentale. Lo aiutava, certo, la sua potente voce da baritono, capace di passare senza sforzo dal pianto alla staffilata ipocrita e di punteggiare il discorso più patetico con una irrefrenabile risata. A lui dobbiamo stereotipi linguistici indimenticabili e di grande penetrazione. Primo tra tutti il Nando Moriconi di Un americano a Roma di Steno. Nel film Sordi disegna con preveggente lucidità la figura del giovane romano di borgata che si sottomette alla moda di "fare l'americano", ma che, dopo aver fatto di tutto per adottare abitudini e vezzi (anche alimentari) degli Stati Uniti, decide che è meglio restare romano. Alcune battute sono rimaste leggendarie. Il tormentone di quel film, il celebre "uanagana" (forse una trascrizione di "I wanna go", voglio andare), ha fatto il giro d'Italia ed è rimasto nel nostro vocabolario, anche se pochi sanno che proviene proprio da lì. Altra straordinaria preveggenza: la sua fidanzata Elvira diventa "Elvy". «Hello Elvy! Give me a kiss my darling». E' proprio uno dei tipi dell'italiano di oggi: parla inglese ma non lo conosce!
Albertone ha anche contribuito a fissare alcune ambizioni dell'italiano medio: l'aspirazione al parlare pulito e retorico, magari con una mistura d'inglese, ma in fondo plebeo e perfino volgare. In questo modo, certo, lo stereotipo dell'italiano comune, un po' falso e neghittoso, si è legato forse per sempre alla parlata di questa città. I romani lo sanno, e devono difendersene. Ma alle indimenticabili caratterizzazioni di Albertone devono molto, sicuramente più degli altri italiani.

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I nostri set, che Paradiso

di NINO MANFREDI
LUI era nato nel ’20, io so’ del 21. Vorrà dire che c’ho poco da campà’ pur’io...E allora Alberto, visto che de sicuro tu stai già in Paradiso, fammi un piacere, prendi un posto anche per me, così continuiamo a scherzare, altrimenti, sai che noia...Che devo dire? Mi dispiace, immensamente. E’ un dolore che se ne sia andato. Anche se sono convinto che persone come lui, e Mastroianni, Gassman, Tognazzi, non moriranno mai. Non solo vivranno sul grande schermo ma nella memoria di tutti. Alberto è qui, con me, anche adesso.
Lo conoscevo da 45 anni. Era il 1958 quando per la prima volta ci incontrammo insieme su un set, quello di Venezia, la luna e tu. Alloggiavamo al Bauer e come sempre con me c’era mia moglie Erminia. Ricordo come se fosse adesso, la sera, Alberto che faceva una piroetta, sbatteva i tacchi, metteva una mano sulla fronte imitando il saluto militare e ad alta voce mi lanciava un: «Pronti! E dov’è tua mamma?» (mia mamma stava per Erminia). E poi aggiungeva: «Hai capito perchè non mi sposo? Perchè Erminia te la sei già presa tu. Oddio, potreste sempre divorziare...».
Dieci anni dopo ci ritrovammo insieme in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? Un posto d’inferno. Ai confini del mondo, altro che dell’Angola! Niente alberghi, nessuno spaccio. Dormivamo in un edificio militare, l’acqua era razionata, l’igiene poca e un aereo che ci lanciava spaghetti, riso, scatole di pomodoro, caffè, sale e zucchero. Per fortuna Erminia mi seguì anche quella volta ma anche quella volta Alberto era solo. Dopo il tramonto, finite le riprese, lui non faceva il bagno se prima non lo facevo io, mi mandava avanti, non si fidava. ero il suo assaggiatore di vasca. ci entravo, mia moglie mi smacchiava (interpretavo uno stregone e ero dipinto dalla testa ai piedi) mentre Alberto aspettava con l’orecchio incollato alla parete, poi entrava, stendeva un asciugamano sul fondo della vasca e finalmente, schifiltosamente, si lavava. Poi si mangiava, si scherzava, si beveva whisky: per disinfettare i microbi, diceva lui. La mattina era la disperazione delle comparse femminili. Tutte africane, tutte a seno nudo. Aveva inventato il gioco del popi-popi, la troupe lo seguiva, e era tutto un toccar di tette. Morale: alle quelle ragazze venne il complesso del pudore: non appena lo vedevano si coprivano...Durante L’anno del Signore (’69), invece, non tormentò nessuno. Forse perchè interpretava un prete e probabilmente s’era immedesimato troppo...

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La vita/Figlio di un orchestrale ed un’insegnante, divenne ragioniere da privatista. Nessun matrimonio, diversi flirt e un’esistenza all’insegna della riservatezza
«La mia famiglia è la gente, ho sposato il cinema»
Orgoglioso della sua italianità, ha preferito raccontare le nostre storie, rifiutando i riflettori di Hollywood

di LEONARDO JATTARELLI
ROMA - «Bisogna fare, sempre. Per rispetto di se stessi, del mondo, della vita. Questi anni sono orrendi? Ma perchè? Il mondo l’abbiamo attraversato mentre sparavano, a Piazza Montecitorio...i nazifascisti sparavano e noi a gridare “siamo attori!", come se questa parola fosse un passaporto. E vogliamo lamentarci adesso? Se ciascuno fosse fedele al proprio io, e bene intenzionato a fare, si troverebbe sempre giustificato dalla vita». Questo era Alberto Sordi. Ed era il ’75, come fosse oggi, e a raccontarlo era un grande scrittore, Giovanni Arpino. Questo era Alberto Sordi. Il figlio di un orchestrale, Pietro, che suonava il basso-tuba e di Maria Righetti, insegnante. Nasce in via San Cosimato il 15 giugno del 1920, ed è un ragazzino a cui non piace tanto studiare («Ho sempre amato molto la scuola ma non ci andavo quasi mai, e mia madre che si disperava») così che abbandona gli studi di avviamento commerciale per poi recuperare, da privatista, un diploma da ragioniere. Da bambino canta coi chierichetti della Cappella Sistina e a sedici anni studia recitazione all’Accademia dei Filodrammatici, a Milano, da dove viene espulso «perchè non avevo una pronuncia corretta. Dicevo guera, fero, borzetta. Ma la gente per strada non parlava così?». Una cosa amava Alberto Sordi, recitare: «Perchè io vedevo il popolo sottocasa, per la città, tutte “maschere" che ti entrano negli occhi e non te le scolli più, non vuoi allontanartene, perchè in loro, in tutte loro, c’è la vita». E inizia dal teatro, nel ’37, nella compagnia del grande Ermete Zacconi prima ancora di incontrare la stagione d’oro dell’avanspettacolo, quando, giocando con le lettere, si fa chiamare Alberto Odisor. Arrivano in Italia i film di un’America lontana, quelli delle pazze comiche di Stanlio e Ollio e Sordi viene chiamato a doppiare Oliver Hardy mentre continua, durante la guerra, a lavorare nel varietà. Se nel ’42 diventa protagonista del suo primo film, I tre aquilotti di Mario Mattoli è con la radio che Albertone fissa per la prima volta i caratteri di quei personaggi che poi, modellandoli volta a volta e adattandoli al presente, si porterà dietro per tutto il suo cinema. In tre anni Mario Pio, il Compagnuccio della parrocchietta e il Conte Claro diventano vere maschere di una commedia dell’Arte soltanto sua, romanesca ma universale.
Tutto questo prima del suo grande cinema, quello che in quasi duecento film ha fissato le mode, i costumi, i tic, le manie, le perfidie e gli sgambetti, le malinconie e i valori veri di un’Italia senza età: quella della guerra, della ricostruzione, il paese del Boom e quello degli anni di piombo, della strada e dei potenti. Sordi, l’attore della commedia all’italiana e quello di Fellini (Lo sceicco Bianco e I vitelloni); l’Albertone nazionale indimenticabile di Un giorno in pretura e di Un americano a Roma e la faccia drammatica dell’uomo qualunque della Grande Guerra, di Tutti a casa, di Una vita difficile, di Detenuto in attesa di giudizio, di Un borghese piccolo piccolo. Una vita artistica ricca di sorrisi e sofferenze («Il mio apprendistato? Umiliante, deludente, portato avanti con sacrifici immensi. Ma io ho resistito per vocazione. Chiunque avrebbe mollato».) segnata dalla grande scuola del neorealismo: «La gente comune non ha perfezionismi. Grazie al neorealismo ho capito che ciò che amavo tanto era proprio la gente». Il pubblico, la vera famiglia di un uomo che una famiglia tutta per sè non l’ha voluta (« Il matrimonio? E che so’ matto! Me metto n’estranea dentro casa»), geloso della sua intimità («Ho protetto la mia vita privata senza ostentare benessere»): «E’ al mio pubblico che esprimo tutta la mia riconoscenza». Discreto, costantemente lontano dai flash dei paparazzi, Alberto Sordi. Dal gossip che non è mai riuscito a pizzicarlo in compagnia di una donna, tanto che non sono mai stati “ufficializzati" i diversi flirt attribuitigli: da quello con la modella tedesca, Ilke, a quello con Andreina Pagnani, alla grande amicizia con Silvana Mangano. Fu anche autore di colonne sonore, come per il film Fumo di Londra, alle cui musiche lavorò con il suo amico Piccioni.
Sordi e la sua vita da gigante buono e troppo intelligente per farsi accecare dai riflettori di Hollywood: «Dino De Laurentiis - ci raccontò una volta - mi disse "ma che fai Alberto, snobbi l’America? e io gli risposi "Io che ce vado a fà in America. Io faccio quello che so fare, conosco gli italiani, i loro pregi e difetti. Se vado in America che combino? Dice..."Vai da Billy Wilder" e io "Ma che je racconto a Wilder?"». Sordi, il ragazzetto che marinava la scuola e che riceve, già anziano, due lauree honoris causa, un bel nome e cognome in neretto nella enciclopedia Treccani e la candidatura a senatore a vita. Er core de Roma, tre anni fa, sindaco per un giorno della sua città. Albertone, l’uomo impegnato nel sociale e pronto ad impallinare il potere: «C’è molta mediocrità e tutta una classe politica che si è esibita e continua ad esibirsi. Alla fine ti chiedi perchè sempre con le stesse parole». Nel Duemila l’incontro privato con Papa Wojtyla. L’attore-regista era raggiante: «Una figura esemplare, straordinaria, abbiamo parlato come fossimo due amici». Un rammarico nella vita? «Quello di essere invecchiati - confessò per i suoi 80 anni -. Ma ho assistito a tutte le più grandi scoperte. Quand’ero ragazzino guardavo ’sto aeroplanino che stava per aria e domandavo alla gente come fosse possibile. Nessuno sapeva spiegarmi. Dopo qualche decennio siamo arrivati sulla Luna. Che meraviglia». Questo era Alberto Sordi.

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La camera ardente/Sordi ha un abito grigio e una cravatta blu, nelle mani stringe un rosario, intorno a lui migliaia di fan che aspettano ore per salutarlo
La folla: grazie perché ci hai fatto tanto ridere
Anche Ciampi in Campidoglio dove si raccolgono in poco tempo cinquanta mila persone

di MARIA LOMBARDI
ROMA - «L’ultima risata l’ho fatta dentro di me», la signora Concetta Mauti, 67 anni, fila via dall’aula Giulio Cesare del Campidoglio, il sorriso generoso di Alberto Sordi stampato su una gigantografia l’accompagna fino all’uscita. Nemmeno di fronte alle mani bianche dell’attore è riuscita a pensare alla morte, «ma che ci posso fare? Penso a lui e mi viene l’allegria». E val la pena di stare in fila tre ore, tra la folla impaziente che spinge, urla e sgomita, per salutare Albertone, per dirgli grazie d’avermi fatto ridere, perché quelle risate adesso mi mancheranno, e Dio sa che gran regalo sono state. La signora Concetta è tra le prime a entrare nell’aula del consiglio comunale dove è stata allestita la camera ardente, un privilegio concesso prima di lui soltanto a Luigi Petroselli e Carlo Giulio Argan. E’ appena andato via il presidente Ciampi, una luce rosa illumina la piazza che più piena non si può.
Il presidente della Repubblica arriva nell’aula che sono le 17,10 e sorregge, insieme alla moglie Franca, la sorella dell’attore scomparso, Aurelia, un cappotto col cappello di pelliccia che non riscalda abbastanza. Dietro, il sindaco Veltroni e la segretaria di Sordi, la signorina Nunziata. Ciampi e la signora Franca si fermano qualche minuto davanti alla bara coperta da un velo bianco, Sordi ha un abito grigio e una cravatta blu, le mani stringono un rosario. Sulle sedie rosse, accanto alla bara, prendono posto le persone più care, la sorella, la segretaria, Giovanni D’Ercole, il prete di famiglia, la nipote, la montatrice Tatiana Casini Morigi che tanto ha lavorato con l’attore. Il tempo di ricevere le condoglianze del presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, poi i pochi parenti e amici stretti lasciano la sala e quelle sedie rosse restano vuote per tutto il tempo e chi arriva, artisti e politici, non sa a chi stringere le mani.
Ma c’è un’altra famiglia, oltre quella vera, ed è più grande di una piazza. Sale le scale, al freddo, e s’accontenta di un saluto veloce, qualche secondo appena, perché fuori c’è la ressa e tutti vogliono vederlo. In poche ore entrano 50 mila persone, calcolano in Campidoglio. Anna Zaccagnini ha 82 anni, anche lei ha fatto la fila, e dopo avergli mandato un bacio, piange, «per Alberto ho fatto questo sacrificio, ho visto tutti i suoi film». Sfilano gli occhi umidi di tanti uomini anziani, quelli che hanno prestato all’attore smorfie e battute, e si commuovono per la morte dell’artista e per la loro vita che adesso sentono più breve, sfilano giovani, bambini e i volti della gente qualunque che lui ha raccontato, volano tanti e tanti baci verso la bara. Qualcuno porta un fiore, qualcun altro una sciarpa giallorossa e un biglietto, «grazie, Alberto». Sfila Roma, e più gente passa davanti al cordone rosso e più ne arriva in piazza. «Non ci sono le transenne, la gente spinge da tutte le parti, è un delirio. Sono stato ad aspettare tre ore e mezzo», Girolamo Benedetti, 78 anni della Garbatella, entra nell’aula Giulio Cesare e s’accascia su una panchina sfinito. «Un saluto da tutta la curva Sud», sussurra Gino Faitella.
Il presidente della Roma Franco Sensi e la moglie occupano due delle sedie rosse vuote, l’attore Vincenzo Crocitti singhiozza, il regista Gigi Magni se ne sta in disparte, Lando Fiorini si ferma a lungo a fissare gli occhi chiusi di Alberto, Lina Wertmüller entra con la folla, e non dall’entrata dei vip, e deve scavalcare il cordone rosso, «se ne è andata metà Roma — si commuove la regista — quella più ironica e divertente». Una signora con la sciarpa arancione scatta le foto alla salma e forse inquadra anche l’attrice Stefania Sandrelli. Uno dopo l’altro anche gli attori Massimo Ghini, Massimo Lopez, la ballerina Carla Fracci, il critico Tatti Sanguinetti e l’ideatore di blob Marco Giusti. Il ministro alle Comunicazioni Maurizio Gasparri arriva poco prima del presidente della Regione Lazio Francesco Storace e di Franco Carraro, più tardi è la volta del presidente del Senato Marcello Pera e del ministro per i beni culturali Giuliano Urbani. E chissà quanta gente ci sarà domani, alle 10, in piazza San Giovanni per i funerali dell’attore che si terranno nella basilica. Tutti a ringraziare, come hanno già fatto ieri e come hanno scritto sui libri all’uscita: «grazie, Albertone, per quelle risate», «quanto mi hai fatto divertire», «thank you, Alberto», e lui lì a sorridere, sulla foto gigante alle spalle della bara, con il Leone d’oro in mano.

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Geniale per America e Francia Scorsese: «Un’icona». Nicholson: «Insuperabile nei Vitelloni»

di STEFANO TRINCIA
NEW YORK - Americano a Roma. Ma ostinatamente italiano in America. Il paese che per Alberto Sordi ha rappresentato un mito da celebrare, imitare e beffeggiare nel cortile di casa, lo ricorda con remota simpatia. Lo conoscevano, e bene, i grandi protagonisti del cinema americano più aperto all’Europa ed alla grande lezione del neorealismo. Martin Scorsese, che da capolavori come Lo sceicco bianco e I Vitelloni ha sostenuto di aver rimparato l’arte del cinema e che ha sempre considerato «il suo volto un’inimitabile icona espressiva del genio italiano». O Jack Nicholson, che ha raccontato di non aver mai riso tanto «come di fronte al gestaccio di Sordi ai lavoratori ne I vitelloni». Lo piangono le associazioni italo-americane, i Sons of Italy - o Figli d’Italia - secondo i quali «come Totò Alberto Sordi aveva e sempre avrà un’indentità italiana in tutto il mondo».
Un’identità ed un radicamento talmente forti da impedirgli lo sbarco da questa parte dell’oceano. Alberto Sordi è venuto negli Stati Uniti decine di volte, per ricevere l’omaggio di istituzioni prestigiose, come la sezione cinema del Museo di Arte Moderna o il Lincoln Center. E’ stato corteggiato, nella sua epoca d’oro, da registi mitici come Billy Wilder che lo avrebbe voluto in A qualcuno piace caldo e che ribadì più volte il desiderio di poterlo dirigere. E’ stato amato da cineasti trasgressivi come Paul Morrissey, da maestri stranieri come Costa Gavras.
Ma alle lusinghe di Hollywood ha sempre, testardamente resistito. Conscio della impossibilità di tradurre in termini culturali americani le sue maschere, le sue battute, la sua comicità non ha mai accettato la prova della capitale mondiale del cinema. Ed i suoi film, con l’eccezione dei capolavori del neorealismo, non hanno mai avuto la diffusione ed il successo che meritavano nel grande mercato Usa.
Fuori dai confini italiani, è in Francia che il suo genio comico è stato totalmente apprezzato. Non più di tre anni fa la Cinématique Francaise gli ha dedicato un grande omaggio con una ricca retrospettiva dei suoi film al Palais de Chaillot. In quella occasione Alberto Sordi era intervenuto alla cerimonia di apertura ed aveva incantato il pubblico parigino con la sua versione maccheronica del francese. Una esilarante "performance" con la quale aveva stregato qualche anno prima i newyorkesi, lanciandosi nel suo dialetto di Kansas City alla presentazione di un minifestival dei suoi film più celebri.

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Quella stella nel cielo di Positano

di PAOLA SALUZZI
LA vita è un film. Quando penso a come ho incontrato Alberto Sordi, ne sono convinta. Una sera, calda e stellata, a Positano. Emi De Sica aveva chiamato Sordi, voleva assegnargli quel premio dedicato a suo padre Vittorio, ed era sicura - in barba agli scettici - che avrebbe accettato. E Sordi, senza pensarci su, arrivò a Positano. Una spiaggia stracolma, quasi fino al mare, di un pubblico vero, in attesa come di una sposa. E io lì, a presentare la serata più bella della mia vita (uno dei titoli di un grande film, caro ad Alberto). Perché chi è cresciuto a pane e cinema, non può sognare di più. Salì sul palco e l’applauso non si fermava; i suoi occhi azzurri divoravano quella immagine, quel “mondo" piccolo piccolo di un angolo di costiera arrivato apposta per lui e per il suo maestro. Perché quella fu la notte dell’amore di Sordi per De Sica, la notte del ricordo, di quanto ci tenesse quel giovane attore ad incontrare il grandissimo Vittorio: «Pareva un film, eravamo su una barca con altra gente, io volevo famme nota’, e che succede? A De Sica je cadono gli occhiali da sole in mare. E io, giù me so’ buttato a prenderli...». Parlava come se fosse nostro amico, lo era; parlava con amore Alberto, e c’era solo il canto del mare ad accompagnare la sua voce. E ci raccontò dei tanti momenti vissuti sul set. Non fece mai riferimento alla scomparsa di De Sica. Fece di più, ci regalò il gran finale. Prese la mano di Emi, mi prese sottobraccio, e ci raccontò la sua idea della morte. Anche la risacca si rese più silenziosa. E Alberto cominciò: «... Io nun ce credo che uno come lui sia morto. Perché uno che ha dato tanto amore a tutti nun po’ morire. Io so’ convinto che ora sia lassù e si stia godendo la serata, il vostro applauso. Anzi, visto che lui era un maestro, so’ convinto che sarebbe contento di farcelo capire, magari con un segno, che ne so...». La vita è un film, perché Sordi schioccò le dita e il pubblico fece un urlo. Alle nostre spalle, in una notte serena e blu come quel mare, venne giù, da sola, una grande, grandissima stella cadente. Ce lo urlarono, tutti, accavallando le voci, indicando con il dito quell’angolo di cielo. E Alberto sorrise, sornione, quasi per niente stupito. Emi De Sica, io, con le lacrime che proprio non si fermavano; lui, Albertone, dopo una pausa piena di parole, disse: «Che ve dicevo?».

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Nel suo volto il nostro romanzo

di GOFFREDO FOFI
SÌ, SORDI ha rappresentato con immensa efficacia la figura dell’italiano medio coi suoi enormi vizi e i suoi soprassalti di generosità, quasi sempre determinati da tempi di sconvolgimento storico e sociale. L’italiano, il romano. E quanto di “romano" c’è in ogni italiano: un modo utilitaristico di intendere la cosa pubblica, e perfino feroce di intendere quella privata. Il romano di Belli. E nessuno più di Sordi ci è sembrato venire così fortemente dal mondo e dalla morale, anzi dai lombi, del grande poeta papalino, più di Petrolini.
Se Andreotti è il volto pubblico di una storia ancora papalina e romana, Sordi ne è stato il volto privato. Ma con gli anni Cinquanta, e dopo I vitelloni e l’incontro con Fellini (e poi Flaiano, Sonego, Age e Scarpelli, Risi, Comencini, il citato Monicelli...), Sordi ha potuto anche essere l’altra faccia dell’Italia, quella del riscatto, della speranza in una età adulta che dal familismo ci portasse al sentimento della collettività. La figura di Sordi passò dalla macchietta al personaggio, dall’avanspettacolo al romanzo, e in La grande guerra, in Tutti a casa, in Una vita difficile (prima guerra, seconda e Resistenza, dopoguerra e boom) finì per assumere su di sé i pregi del cittadino infine responsabile. Però “i mostri" erano sempre in agguato, e a questa evoluzione non seguirà un consolidamento, esattamente come è stato della nostra società: dalla preistoria alla decadenza, breve il tempo della maturità.
Grandissimo attore, degno erede del grande Petrolini e del grande Fabrizi, degno fratello minore della Magnani, Sordi è stato con Mastroianni e con Gassman - solo con loro senza altri rivali se non tra i vecchi Totò, Peppino, Eduardo, e senza figli, neanche con Verdone, che deve scontare i limiti dell’incertezza amorfa di un’epoca omologata - l’emblema vero dell’italiano.
Tre italiani, tre aspetti dell’italiano. Al negativo, quello sgusciante e astuto alla Sordi, quello aggressivo e fanfarone alla Gassman, quello moderato e bonario alla Mastroianni. Ma, dei tre, il più “maschera" è stato indubbiamente Sordi, il più radicale nella sua negatività fino a risultare il più sincero, e perciò anche il più imprevedibile e commovente nei suoi momenti di sincerità, di richiesta ed espressione di dignità.
Dovessi dire chi sono le maschere italiane più rappresentative del secolo passato farei i nomi di Totò, Eduardo e Viviani per i primi cinquant’anni, figure dell’insicurezza del vivere, dell’arte di arrangiarsi, di una faticata scalata sociale così spesso frustrata, e per l’altra metà del secolo, di cui viviamo gli esiti, quelli di Sordi e di... Gianni Agnelli. Con loro muore il ventesimo secolo: il potere e i suoi effetti, il volto del comando (e le sue rughe non prodotte dalla pratica del bene) e quello del servizio (e le sue abilità mimetiche, i suoi salti d’umore nel passaggio dal basso all’alto, le sue peculiari viltà). Ma è solo nel volto di Sordi che tutti o quasi possiamo trovare qualcosa che ci appartiene, i nostri limiti e difetti e, talora, in certi, pochi, momenti, la nostra possibilità di riscatto.

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«Rute’, non gliela faccio più: me so’ già pentito»
Nel 2000, per gli ottanta anni, sindaco per un giorno: promise bus rapidi e musei gratis

Una folla imponente ma molto composta, commossa e fermamente disposta ad affrontare una lunga fila «per rendere omaggio ad Alberto Sordi, il vero simbolo di Roma». La gente ha fatto ordinatamente la fila, in piazza del Campidoglio in attesa di entrare nell'aula Giulio Cesare, dove è stata allestita la camera ardente. Romani di ogni età, giovani ma anche tante persone anziane, che salgono e scendono senza soluzione di continuità la scalinata che porta da piazza Ara Coeli al Campidoglio, creando loro malgrado forti rallentamenti al traffico a piazza Venezia e nelle zone circostanti.
Sono stati circa 20 mila in tre ore, i romani e gli ammiratori che hanno sfilato davanti alla bara. E a notte fonda sono diventati più di 50 mila. Per permettere a tutti di salutare Sordi la camera ardente è rimasta aperta per tutta la notte e lo sarà anche per l'intera giornata di oggi.
Un lungo applauso aveva accompagnato l'uscita del carro funebre con dentro la salma di Alberto Sordi dalla sua casa a piazzale Numa Pompilio. Sul tetto del carro, scortato da quattro vigili urbani motociclisti, erano stati sistemati una sciarpa giallorossa e dei fiori dello stesso colore. L’omaggio dei romani era iniziato fin dalla mattina, davanti alla abitazione dell’attore. Alla spicciolata, appena sparsa la notizia, semplici cittadini sono giunti nella villa di piazzale Numa Pompilio. Quasi tutti portando mazzi di fiori, rigorosamente gialli e rossi, come le rose che una ragazza per prima ha posato davanti al cancello.

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