Per i tipi dell’editore Domenico Fabrizio di Itri, Carmen Moscariello ha editato una nuova silloge poetica, intitolata “Figlia della Luna”, un libro denso, il più prometeico e il più adatto a dare, dei nostri interrogativi attuali, un’immagine completa, cioè di perpetua chiamata in causa. 

La raccolta non comporta che una ottantina di pagine, dicevamo di un’intensità eccezionale. I temi di Carmen Moscariello sono quella della mitologia delle persone amate (le adorate Lara e Silvia), delle amicizie (Elena Machiavelli, proprietaria de “Le Scissure”, Elio, prematuramente scomparso, ed Antonietta Di Giglio, “vista tra lacrime e stanchezza” e verso cui non ha soffocato “il mare del ricordo”), dello stupore pudico, del sogno, in cui sorgono, all’improvviso, le città mitiche di Heraion, Mitilene, Samo, Colchide, Djerba. 

Sono versi impeccabili, in cui si coniugano una nostalgia del sogno e della favola e il dovere di mostrarsi degna di Paul Verlaine o di Paul Valéry. 

La Moscariello, che non ha scritto che testi incantatori, la si legge come si beve un’acqua sconosciuta, ma inebriante. In lei il reale conserva il mistero delle origini e il verbo rivelatore di verità che annunciano qualche intangibile felicità. La Figlia della Luna è il fedele riflesso di questa attitudine, che non manca né di charme né di mordente. 

Carmen, che richiama alla mente l’eroina di Prosper Mérimée e di Théophile Gautier, resa celebre dall’opera di George Bizet, non somiglia ad alcuno dei poeti contemporanei. Scrive alla confluenza dei tempi. Ironica e ludica, affamata di bellezza, la Moscariello si fa scriba di una memoria duale. Duale più che duplice, perché passa dall’uno all’altro aspetto del tempo. 

Come quelli che recuperano cartoni, casseruole, rame rosso, alluminio o nickel, la poetessa della verde  Irpinia ricicla, a spizzichi, dei brandelli di melodie, delle briciole e dei ricordi, dei naufraghi d’emozioni: Carmen sferraglia nell’oro del tempo. 

La scrittura della Moscariello, autrice tra l’altro, di “Friedrich Hölderlin, tra lirica e filosofia”, per i tipi dell’editore romano Lucarini, di una silloge dal titolo “Gli occhi frugano il vento”, per Bastogi Editore, de Il presente della memoria”, un libro sui poeti contemporanei, sugli artisti del Basso Lazio e su alcuni uomini dei nostri tempi, è concisa ma sbocciata, frammentaria e tuttavia armoniosa, riportante sempre all’interiorità. Essa è legata all’azione, al movimento, al cammino attraverso le città o le civiltà. 

Se la Moscariello ha quasi sempre rifiutato la rima, tuttavia è restata attaccata ad una matrice assai regolare. Il suo verso è libero, ma rigetta la scrittura automatica e il surrealismo, perché la metafora non è per lei l’essenza della poesia. Carmen procede per comparazione, non per metafora. E’ una delle ragioni della sua opposizione al surrealismo. Ella si plasma alla constatazione e si accorge che questa constatazione è senza limiti. La sua poesia degli elementi è una poesia dell’inventario. 

Carmen utilizza pochi aggettivi; la frase si limita spesso al nome e al vento, al soggetto e all’azione. Ella va all’essenziale, perché ha un senso dell’economia poetica che la spinge a rigettare ogni parola superflua. Carmen lavora nel senso di una più grande privazione, di una più grande limpidità. 

Possiamo affermare che la poesia ha invaso tutta la vita della Moscariello. Essa è il suo respiro. Le liriche ritagliate in sequenze sposano il suo  respiro corto. Esse segnano la sua approvazione al mondo, la sua comunione con quello che la circonda. Questa comunione proviene dall’adeguamento progressivo tra una forma poetica perfettamente dominata e una maniera di vivere e d’essere al mondo. 

Quelle della Moscariello sono grandi pagine di storia in un pugno di distici senza effetto gratuito, senza lirismo vano. Non una parola esce dalla sua linea, non una che non vi abbia il suo posto. Un’economia da moralista ironica, che sa che tutto si gioca sempre altrove: nella memoria da venire. Memoria capace di sospendere l’avvenuto per l’offerta di un pensiero, di un dispiacere, o per la spina di un sarcasmo, ma il cui potere così bene restituisce l’oblio o cristallizza l’incompiuto di un desiderio, poiché l’unica religione a cui Carmen sacrifica è la bellezza, quella dei giovani uomini o donne, che, come marmi o bronzi antichi, paiono discendere dal loro basamento per abbellire Samos o Mitilene, la notte come il giorno. 

Dei due registri della sua opera (il mondo antico e il tempo autobiografico), il secondo è dedicato quasi totalmente all’amore, che “parla con tenera voce”, all’amore “scaldato dal sole di Roma”, al “bacio dei ragazzi che si amano”. Senz’altra ostentazione che di scrivere chiaramente la felicità di questi brevi e febbrili incontri. 

Per il cammino contrario, il gusto antico ravviva e fertilizza la poesia, come nel brano inerente Mitilene, che evoca la poetessa greca Saffo, soprattutto nei tre versi finali, in cui la coppa ubriacante si trasforma, nell’ultimo sorso, in Gorgone, essere terribile, alato, avente per capelli dei serpenti, mentre il dio Dioniso banchetta. 

Che sia ricordo immediato o lontano (e spesso ci parla del profondo dei tempi, in nome di un dio o di personaggi mitologici), si tratta di una moneta d’oro inalterabile, coniata con le effigi della giovinezza e della beltà. Ma la poetessa di Montella non è solo affascinata dai miti classici. Essa affronta anche temi domestici e familiari come nella “Canzone a Lara”, l’orgoglio della vita di Carmen. Bella l’immagine della figlia, “tenera come la neve di marzo coi biancospini affacciati”. Materna e protettiva è nella lirica “A Silvia”, di leopardiana memoria, in cui la Moscariello rivela la sua comunanza spirituale con Leopardi, fatta di vibrazioni. 

Alcune liriche di Carmen sono abitate dagli spiriti di Matisse, di Theodorakis, di Pirandello e di Rea, quest’ultimi due in Spartito in sol maggiore per Marina, lirica scritta nella notte di San Lorenzo, di tre stagioni fa. Qui Carmen e Marina, accomunate dall’amore per l’arte, si raccontano i sogni e interrogano il loro spirito giovanile sui sogni che continuano a germinare mentre, in mezzo a loro, aleggiano i fantasmi di Luigi Pirandello e Domenico Rea. Forse è proprio in questa lirica, un poco prosaica, che si prende la più giusta misura della poetessa campana, che inaugura una nuova forma di confessione, in cui il passato e il presente si congiungono, in cui una donna di rara intelligenza non ha cessato, sotto le provocazioni, di perseguire una ricerca identitaria. 

Da questa silloge sono stati tratti due spettacoli teatrali (“Anima di mare” e “Figlia della luna”).

 

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