Recensione  di Carmen Moscariello all’opera “Il Viaggio”di Antonietta Barbato

 

 

A una prima lettura il romanzo “Il Viaggio” Ed. Tracce della scrittrice Antonietta Barbato farebbe pensare a una scrittura freudiana, tessuta da un’accidia che spolpa il cuore e nutre sentimenti di stanchezza, una noluntas però, non estranea, a un certo  romantico richiamo dell’esistere.

Infatti , all’inizio dell’opera viene presentata una vita rinsecchita dalle  non scelte e l’anelo al Nulla  fa vivere il protagonista in una situazione acquosa  lenita da una speranza non rivelata, ma che traspare fin dalle prime battute, per poi riportare la coscienza dell’uomo, in un  rifugio antico che altro non è che l’utero materno che di nuovo protegge e nutre il protagonista per farlo rinascere a una vita consapevole e coraggiosa.

Il viaggio ha come obiettivo  la catarsi, una lenta trasformazione del male in bene, da una situazione manichea, dove le forze opposte si fronteggiano, si passa gradualmente a un netto superamento del male, trovando protezione nel luogo ancestrale della nascita, dal quale si può elaborare anche uno dei lutti più terribili, quale la morte di un figlio.

Le cose si muovono in questi termini,divenendo autocoscienza  , ma anche  svelamento  della realtà storica e umana in cui i personaggi si muovono, quasi nuovo Edipo che grazie all’indovino  Tiresia, può avere lo svelamento della verità.

E’ da questo inizio sacro che  l’ anima vagula, blandula, hospes comesque corporis si serpentizza alla ricerca prima  inconscia d’un varco, per divenire, man mano, che l’analisi incalza, sempre più logica e  razionale . L’evocare Freud, è proprio dell’autrice, ( infatti RudY ,il protagonista del romanzo, ricorre nell’ultimo paragrafo scientemente all’aiuto di un psicoterapeuta  per elaborare il suo lutto)  soles dabit iocos, non  gli basta più una vita in penombra, uno scorticato blandire la libertà, seppur  agognata, ma si concretizza l’inspiegabile richiamo  alla vita , non impedito , né destrutturato dall’inutile ricordo di una esistenza passata,  banale e  rinunciataria.

Insomma all’inizio della scrittura, il protagonista del romanzo sembra  assomigli ai tanti uomini del nostro tempo, incapace di amare, incapace di essere figlio , inetto come figura paterna, orbo di sogni e seppure essi si affacciano timidamente, sono tutti destinati a morire, poiché non c’è energia che possa costruire i palinsesti di un’esistenza degna di chiamarsi tale. Ma  tra questi miasmi c’è quella voce che già guidò Sant’Agostino alla salvezza e fece di San Francesco il santo più amato , “La voce della coscienza” porterà il nostro ostinato antieroe, su una strada in salita , che non farà  più paura, perché corroborata dall’amore.

Da quella  crisi di asfissia, quasi  un’idropisia ,   che  avrebbe condotto chiunque  a morte sicura, lo stesso protagonista,  per tutto il tempo del romanzo cammina sospeso sull’abisso dell’egoismo, sa alla fine riscattarsi, provare la gioia solidale del donarsi senza riserve.

Per tre quarti del   viaggio, il lettore  si inerpica negli archetipi della vita, dove passato, presente e futuro subiscono un terremoto spaziale che non lascia niente, tutto è da ricostruire : la casa non casa, la vita non vita, mentre  il contatto con la morte diventa sempre più affascinante, è una voce di sirena che pian piano sembra  guidarlo  verso gli abissi.

Ma, è  la morte stessa a provocare  la catarsi, il risveglio dall’incubo che lo ha tenuto intubato tra la vita e la morte alla ricerca di un “Sé “che non c’era  e che  come naufrago che ormai non ispera  di veder la riva, all’improvviso  oltre a scoprire la linea della morte, scopre tra i fumi, la costa salvifica che gli fa comprendere i motivi per cui la vita può essere vissuta.

Questo libro che parte da un non luogo, o forse più chiaramente ,dal vuoto del disamore , sradicato dallo spazio e  dal tempo, all’improvviso trova consistenza, si abbarbica come l’edera e i gesti esangui di ieri assumono connotati di affetto, per la donna che tanto lo ha amato e soprattutto per il figlio, sempre disconosciuto . E così”l forestiero della vita risponde al richiamo, sa che nulla è perduto , ricostruire non sarà facile, ma egli ormai si è liberato dalla paura di vivere, si è sprigionato dalla  gabbia  e l’odio  che covava e che  gli impediva di volare, evapora  e torna a inserirsi, per amore, nel sentimento del vivere.

Crediamo che quella  che l’autrice esprime nel libro non sia solo l’inettitudine sveviana, che  è la mancanza di determinazione creata da fattori umani , familiari e sociali che danno alla vita un sapore asfittico che spinge a non scegliere per la paura di trovasi nell’abisso, ma bensì la stessa inedia serve come presupposto per dimostrare  che senza l’amore la vita umana non ha senso, è un fiume che tutto travolge e distrugge .

Antonietta Barbato, dunque,  come nell’ Elevazione di Baudelaire invita il lettore a d una ascensione del Monte ventoso  e ci dice  :” Fuggi lontano dai morbosi miasmi, vola a purificarti nell’aria più alta, e bevi, come puro liquido divino, il fuoco chiaro che colma gli spazi limpidi” troviamo uno spleen  che turba, ma quel  monologo interiore , riesce a sollevare le sorti del poveruomo;ed  è lo stesso  contatto con la morte, quel fiato gelido e putrido,  che riporterà  l’uomo alla luce.

Il  crepuscolo stanco dove non solo gli dei vanno a cadere, causato  dell’esaurimento della fede , è qui riscattato dalla comprensione del vero ruolo che l’uomo ha nell’universo.

La scrittrice ha costruito un disertato cielo, ma a sera, in quello stesso cielo,  pian piano si accende il firmamento ,così, ella con accanimento e consapevolezza ha messo a nudo l’uomo, con tutti i suoi disagi, a iniziare dai dubbi sulla a sua virilità , stemperando, quasi con lenta perfidia tutte le sconfitte , tutti i fallimenti, per poi renderlo consapevole come in un progetto pedagogico tessuto d’amore  che porta  a un finale romantico, nonostante  in quest’opera  l’analisi della malattia si fa scientifica, quasi in alcuni momenti darwiniana, come a voler segnare la lenta evoluzione dell’uomo-bestia alla consapevolezza di essere  cuore che batte e freme e lotta  affinché il bello e  il giusto possa affermarsi.

La delicata pace, rappresentata alla fine del romanzo, non cancella i ringhi di cane (come dice l’autrice) ai quali la lettura  ci abitua per buona parte del libro, ma ci guida  per  mano fuori dal bosco in una sicurezza consapevole e saggia. .

Gli interrogativi individuali e sociali a cui ci sottopone la scrittura  ci offrono risposte chiare e ci fanno comprendere che anche dalle macerie si può costruire un nuovo nido , essendo la coscienza     ormai libera da quell’involucro vetroso e stantio della indifferenza .

E così dalla  frantumazione della coscienza , da una disgregazione preoccupante per  i fili della vita,  annodati  come nidi di ragno, i fili iniziano silenziosamente a snodarsi e la farfalla  semimorta, riprende il volo verso l’azzurro cielo, felice d’aver compreso che lo  scopo   della  vita , seppure  dolorosa,  è quella di viverla nell’incanto della generosità e dell’amore  .

 

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