Dare forma.
A delle istanze interiori, a delle esperienze, alla riflessione su di esse. Dare forma alle emozioni, cioè configurarla intorno a una sensibilità e una disposizione interiore particolare, oppure collegarla ad un sentire più diffuso e generale è, probabilmente, una delle funzioni principali dello scrivere. Sicuramente è il motore primo dell' opera della Moscariello.
Per forma intendiamo quell'insieme di codice e comunicabilità, di intenzione e di simbologia manifesta, di narrazione e di diffusione di significati che si muove dalla interiorità soggettiva all'espressione compiuta e manifesta dell'opera.
In questo tragitto che procede dall'interno all'esterno, che si muove da un quadro intimo e spesso non condivisibile direttamente, a volte persino inconscio e oscuro per il soggetto stesso, fino all'emersione di un prodotto finito e fruibile dall' "altro", si compie un processo. Che è quello della traduzione di un linguaggio personale in uno condiviso e collettivo, comprensibile e utilizzabile. Che possiede sì degli elementi inconsci individuali, ma codificati in un insieme semiotico collettivo.
In questo territorio intermedio - per certi aspetti "transizionale", come direbbe Winnicott - si pone quel prodotto del tutto particolare della cultura che è il mito.
Il mito quale esempio, per eccellenza, di una rappresentazione dell'esperienza umana. Un paradigma esplicativo di vissuti e situazioni, di strade possibili per il vivere umano. E per un vivere a tutto tondo, gravido di sentimenti e di emozioni, di angosce e di dolore, di scelte e di volontà. Anzi proprio per l'intensità della rappresentazione mitologica è possibile utilizzarne il contenuto come paradigma esplicativo dell'umano sentire. Della vita umana che si condensa in personaggi caratteristici, in eroi, dèi e percorsi, che si cristallizza in figure riconoscibili. Tale riconoscibilità e rintracciabilità mitologica vale a sostanziare il valore esplicativo del mito.
D'altronde, che vi sia un passaggio tra "significato" e "significante", attraverso, il quale il primo non soltanto trovi una rappresentazione il più adeguata possibile nel secondo, ma che il secondo possa addirittura trovare una sua propria autonomia è quanto, attraverso la riedizione di miti e racconti, si evidenza con forza.
In questa ottica, quasi di una autonomia del significante rispetto al significato soggiacente, ai processi, alle proiezioni, alla cultura che lo ha prodotto, anche la Proserpina della Moscariello trova una sua collocazione.
Una Proserpina, dunque, che non ripete, come in un ennesimo racconto della medesima fiaba popolare, una storia fin troppo nota, bensì una Proserpina che si carica di sfumature nuove e significati particolari, che le derivano tutti dalla volontà e dalla mano dello scrittore che la ha ricreata. Riproporre una trama mitologica, così come scrivere di qualsiasi cosa o riscriverne, non è un semplice processo di copia o di riattualizzazione di un'anima già vecchia e consunta, quanto piuttosto un ricreare, un dare luce, nuovamente e per la prima volta, a qualcosa di già emerso in altre coscienze, ma che però trova ogni volta, sulla carta, attraverso la penna del suo autore, una nuova, irrepetibile, specifica vita.
Così la Proserpina dell'autrice, così come Demetra, assume nuovi volti che non sono imbellettamenti di facce stanche, bensì nuovi occhi e nuovi sguardi. E, probabilmente, per capirne il segreto, o per capire da dove essi traggano origine, bisogna leggere proprio la dedica che l'autrice pone all'inizio del suo manoscritto: "a tutte le madri che hanno perso un figlio".
Soltanto con la consapevolezza di questo pubblico interiore e tutto personale cui l'autrice si rivolge, possiamo intuire che probabilmente più che tre atti dedicati a Proserpina, i versi scritti sono mossi dalla consonanza e dall'empatia, forse dal riconoscimento, con Demetra.
Il che significa riferirsi ad una precisa costellazione inconscia di immagini e di significati, di temi e di vissuti. Su questa linea interpretativa l'opera della Moscariello non è, allora, una composizione sul mito di Proserpina, sull'immagine della femminilità che essa veicola, n?, sostanzialmente, sulla sua vicenda. D'altro canto, sicuramente Persefone non è simbolo di indipendenza né di forza - come invece Afrodite - ma rappresenta la possibilità di crescere e di trasformarsi. Non è di questa trasformazione, probabilmente, o almeno non soltanto di essa, che l'autrice intendeva comunicarci il percorso ed il mistero, bensì di quel vissuto lacerante che prima o poi capita ad ognuno di sperimentare sulla propria strada: la perdita, il distacco, l'abbandono. O meglio quella perdita ancor più pungente perché allude direttamente ad uno strappo, ad una lacerazione improvvisa ed incontrollabile, da un punto di vista emotivo persino irreversibile. Quasi una riedizione del "trauma della nascita", ma vissuto dall'altra parte, con lo sguardo materno.

 

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