Un Mosè in Egitto

 

Nelle opere di Salvatore Bartolomeo i cerchi concentrici della pietra nell’acqua, lasciano echi, sussulti lontani, periferici fili, stalagmiti rugose, che assorbono il tempo, che frigolano in agonie; senza eco, né spasimo. Scruta il Maestro il filo d’erba evangelico per la scoperta di una creaturalità misteriosa, del crocefisso di Cimabue che si ergeva dal fango, ritrovato nel lembo vedovile dell’Arno.

 

Di nuovo la vita, la sua bellezza.

 

Lì a Firenze Egli sottrae alla morte fogli arcani, tracciati dall’immenso ardore della storia e ora vilipesi dall’impeto del fiume.

 

De immenso. Lo strazio che l’alluvione causò all’arte.

 

Bartolomeo ce lo ripropone nel candido, inquieto, introverso mare del suo sentire. Un Mosè in Egitto nei ritmi rossiniani, garbati, ma le trasparenze sono quelle diafane di un lento deglutire del male.

 

E si toccano alfine le acquosità fino a sfiorarsi in tutte le tonalità del marrone. Indifesa, la materia si attacca alla vita, si incolla ai parametri di esistenze complesse. Suture, lacerazioni. Miti e presenze o pagine di diario che viaggiano in neghittoso vascello, con tempeste non attutite.

 

L’arte del Maestro Bartolomeo ha da raccontarci molto, nel deliquio avvolgente dei fondali c’è la pena e l’accorato canto di un Poeta, ci sono i travaglia nuovi e antichi che la potenza architettonica del passato né avvolge né nasconde all’occhio dell’appassionato esperto. E’ un’arte fuori da ogni banalità, fatta da estenuante ricerca tecnica, ma anche dal lento accurato sfogliare i fogli della storia, per ricercare l’umano dolore. Si sbriciola, dunque nella sabbia d’Irlanda un canto lusinghiero, in fascinosi perpetui raccordi.

 

Un’altra estate (1956) è quella di Bartolomeo, non quella di Tony Scialoia, seppur indimenticabile; qui alla psicologia della forma si aggiunge lo smarrimento del Poeta, delicato volo di Orfeo.

 

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