DOMENICO PURIFICATO
Quella generazione del 15 e del 17 ebbe del divino! La terra fondana partorì miti che dureranno nel tempo, anzi il tempo gli sarà più forza e vigore. “Che cosa felice – scriveva De Libero a Guido Ruggiero – il bel quadro Degli amici nello studio che Menico ha impiantato”. Nel quadro, sublimato dalla staticità, si vedono chiari: Domenico Purificato, Libero De Libero, Peppe De Santis, Pietro Ingrao, Guido Ruggiero, Nino Peppe, Leopoldo Savona, Dan Danino Di Sarra, Marcello De Vito e i fratelli del Maestro, Adelmo e Oddino – quasi a fondere amicizia e parentela di sangue -.
E’ questa la generazione dei grandi che Fondi ha partorito in un’età felice che fece dire al filosofo Franco Lombardi che ci troviamo di fronte a una cultura della “fondanità”.
Ebbene, sicuramente il caposcuola fu Libero de Libero e si tirò indietro tutti gli altri. Lì, a Roma nella galleria “La cometa” trovarono il loro giusto spazio il pittore, il poeta, lo scrittore, il regista, il grande politico.
Lì, Purificato si confrontò con Valery, Strawinski, Coeteau, con Cagli e Mafai, si appassionò al cinema e diede sfogo alla sua vena di scrittore, la sua delineata umanità trovò i suoi spazi e la giusta comprensione.
Comunque, il cenacolo, che si formò nella galleria La cometa doveva dare vita a cose grandiose che hanno riportato Fondi agli splendori dei Gonzaga.
Felice chi questi personaggi li ha conosciuti tutti. Quest’anno è stato funesto (1993), un altro ramo rigoglioso è stato strappato via: Giudo Ruggiero se n’è andato con i suoi ricordi: era straordinario ascoltarlo, quando ci parlava di Libero, della sua scontrosità, ma anche della gracilità di cuore del poeta, generoso e triste, eppure anch’egli stregato dal mito di Fondi: quando ci parlava di Menico, della sua gioia di vivere dell’amore profondo che aveva per gli amici.
Anche questo c’è nei quadri del Maestro, gli amici, la gente di Fondi, le sue contadine con gli zigomi sagomati, il mistero dei luoghi, l’attesa di qualcosa di umanamente grande.
L’arte di Purificato vibra di compostezza, nei visi dei suoi personaggi brucia uno spirito tessuto nello spazio dei campi, degli aranceti, nelle braccia abituate alla fatica, eppure morbide, pronte all’abbraccio, comunque all’estasi.
Le immagini raffigurate nei diversi capolavori sono come il ricordo di qualcosa di straordinario, accaduto nel passato e che potrebbe da un momento all’altro concretizzarsi.
I suoi personaggi conoscono la paziente attesa: anche le nature morte, tutte tondeggianti quasi si accomodano nello spazio che il Maestro gli ha riservato e anche il loro sapore è quello della vita, di un’umanità sensibile, semplice, senza orpelli e straordinariamente vera.
Purificato non voleva sbalordire con le sue opere, eppure è proprio questa infinita mitezza che lascia l’osservatore incantato. Senza aver mai creato il nuovo per il nuovo, ha saputo scavare nella sua sensibilità di uomo e di artista consegnandoci opere come la morte di Pulcinella all’assedio di Gaeta. E’ questa, come molte altre opere, un lavoro complesso di difficilissima realizzazione, eppure Menico ce la rende nella sua immensità con immediatezza. I molti personaggi in essa raffigurati catturano il nostro sguardo, sgomentano per l’armonia, lo stupore e anche una sconvolgente malinconia che apre le porte a tutto ciò che la vita riserva all’uomo, agli animali e alle cose, accomunati insieme, sempre dalla morte, anch’essa trasformatasi in dolce attesa. Le spade, il Cristo, i colori arlecchineschi, il povero e il ricco hanno perduto ogni sostanziale differenza, quasi un coro pronto a creare dolce armonia. La guerra e la morte, pur se messe in primo piano, appaiono sostanzialmente dimenticate per dare spazio, unico spazio, a ciò che è umano, a quello che la vita crea e distrugge, in una curiosità senza tempo, senza storia. Altre opere di straordinaria bellezza sono I Gabbiani (1971) e Fidanzati e gabbiani (1983), questi due capolavori sono il segno chiaro che al di là dell’apparente staticità, pur esse misteriosa e grande, si muove nell’opera di Purificato un desiderio atavico di cogliere il divino anche nel volo di un gabbiano o nella fredda luna che adocchia e sospira come tutti gli uomini. Abbiamo trovato una situazione simile anche il alcuni lavori di Giuseppe Supino, in un’opera titolata anch’essa “I gabbiani”, lì si respira la stessa grandezza, con l’aggiunta di un’inquietudine, provocata anch’essa dal grandioso mistero della vita.
Un cenno vorremmo dedicare ai volti e alle mani dei personaggi di alcuni grandi quadri di Purificato: ebbe un esempio straordinario dell’uso della gestualità è nella Ragazza di Fondi (1969), in questo quadro la mano poggiata sul petto ha la delicatezza di una preghiera e quasi eterea, lunare, il gesto è esaltato dalla scollatura tondeggiante della fanciulla. Tutto si sposa, dalle labbra ai capelli raccolti dietro la nuca, con un qualcosa di profondamente conosciuto, amato, studiato, una madonna, sembra di Raffaello. Ma, Purificato, insistiamo ha saputo rendere nei personaggi dei suoi quadri insieme all’aureola divina qualcosa di profondamente umano, terrestre, primitivo, mitico che nasce dalle viscere della terra per ridestarsi dall’età dell’oro per ridarci orgoglio, desiderio, gioia. Tutto questo è anche nei versi, Menico ne ha disegnati tanti, da quelli familiari (ritratto del padre (1945), della madre (1945) di ODDINO (1948), a quelli di straordinaria bellezza delle fanciulle fondane, di ragazzi e di contadini, in queste opere meritano un discorso particolare i capelli, gli occhi e il collo: questi tre aspetti hanno sempre un’eleganza discreta, danno al personaggio una dignità che li pone al di sopra di tutte le cose belle. La mestizia del taglio degli occhi dà all’uomo quella dimensione che il cristo gli riconobbe, è la sintesi del sacrificio, dell’umile lavoro, del rispetto per il prossimo. Non c’è mai in questi volti aggressività, trasgressione, tutto è straordinariamente misurato per dar vita a una musicalità d’organo le cui canne più alte e più basse sanno raggiungere il cielo.