La Penisola Italica

nei primi anni dell'era geologica

Il Subercaseaux riporta le sue nozioni classiche a proposito delle notizie storiche e proto-storiche relative alla nostra penisola italiana,in particolar modo dedicandosi all'approfondimento del mitico passato della regione Lazio.

Ascoltiamo dalla sua "viva voce" quanto risultava agli inizi del nostro secolo circa la situazione geologica del territorio italico e laziale:

" Gli attuali eruditi congetturano che la penisola italica nel suo complesso non sia stata altro che un grande vasto mare durante i primi anni dell'era geologica: le loro congetture, basate sui dati forniti dall'era secondaria, terziaria e quaternaria, si fermano dinanzi a quest'ultima barriera. E' questa l'epoca delle eruzioni vulcaniche, i cui elementi e le cui vestigia sono ancora evidenti, soprattutto nel territorio dell'attuale provincia di Roma. Vi fu, in un tempo molto remoto, un primo sollevamento marino che disegnò sotto le acque la forma degli Appennini: queste cime vennero a costituire ad ovest la linea di demarcazione del bacino del mar Tirreno.

Un secondo sollevamento della crosta marina, accaduto dopo parecchi secoli, mise in bella vista il rilievo degli Appennini Centrali, tra cui figuravano le montagne della Sabina e di Preneste.

Il terzo movimento marino operò una sutura delle terre emerse che altro non erano che delle isole formate dal le recenti emersioni. Si venne così a completare il sistema generale delle catene montuose italiane.

A tutte queste evoluzioni e periodi geologici venne a succedere un altro periodo ben differente, cioè quello delle piogge; fu senz'altro questo quel famoso e grande avvenimento detto del diluvio universale.

In seguito vennero allo scoperto alcuni vulcani, molto probabilmente già in funzione negli abissi marini. Le loro eruzioni di lava, di cenere e di pietra pomice, disegnarono i contorni dei crateri, conformando sotto le acque tutte le piatteforme delle future terre fertili , molto adatte a recepire il lavoro umano di dissodamento.

(Abbate, Guida alla provincia di Roma )

I colli del Lazio e le sue valli non erano ancora emersi dalle acque. Le forze e gli impulsi progressivi di questo movimento tellurico così pro-fondo, agevolati peraltro dagli accumu li di terra prodotti dalle eruzioni, cominciarono a quel punto a ridefinire quello che altro non era che un golfo del mar Tirreno, in quel vasto anfiteatro del La zio e della Cam-pagna, così come li abbiamo davanti completamente formati ".

Se ci fosse dato di supporre la presenza di alcuni uomini che, durante questo periodo geologico, siano approdati nei nostri paraggi da altri lidi più ameni navigando su delle rozze barche, con un poco di fantasia potremmo immaginarli e vederli navigare attraverso questo nostro splendido golfo, quindi gettare l'ancora ed approdare su uno di quei sette colli che formeranno più tardi la Città Eterna.

Le eruzioni vulcaniche, i sollevamenti sismici, lo zampillare delle sorgenti termali, nonché le altre manifestazioni dell ' infuocata attività sismica degli abissi, durarono finanche dopo la fondazione di Roma, precisa mente durarono fino al tempo dei re.

I vulcani del monte Pila avevano mantenuto al loro interno la loro espansione durante l'esistenza della città di Alba( ndr Albalonga). Nella religione primitiva vi erano delle preghiere per scongiurare questi terribili e spaventosi fenomeni. Si è quindi arrivati a congetturare che la stessa fondazione di Roma non sia stata semplicemente determinata dai padri Albani costretti a sfuggire i loro temibili vicini, i "vulcani". (Lanciani, Antica Roma)

Dopo queste lente spinte della crosta terrestre e dopo queste frequenti scosse sismiche, seguì un periodo di inondazioni : esse vennero a modificare interamente la configurazione di questa regione.

Le terre di sedimentazione, le sabbie ed i detriti piano piano formarono dei terrapieni che modellavano le asperità e le disuguaglianze della crosta terrestre elevatasi dalle acque.

Altri depositi di terra sedimentata, cadendo dalle cime montuose, ap-prestandosi a decomporre le erbe acquatiche, produssero ancora una volta altre trasformazioni nella composizione del suolo, ad esso servendo per la conservazione della sua fertilità e la sua propensione a recepire ogni tipo di coltura. Le sabbie dei fiumi e dei ruscelli, insi-nuandosi tra le ondulazioni del terreno, dovevano ancora colmare le parti più vicine alla costa, lasciando in ogni dove, sia di fianco che di dietro, alcuni bassifondi e causando la formazione di insalubri paludi molto vicine ai litorali ".

L'apparizione dell'uomo

Stiamo arrivando alla narrazione della prima apparizione dell'uomo sul territorio laziale ed il racconto inizia a prendere una certa forma storica, seppur velata da un mitico alone di mistero.

Così si esprime ancora il nostro autore:

" Si può ritenere che l'uomo abbia fatto la sua apparizione proprio in questo periodo, con il completamento o il perfezionamento di molti di questi fenomeni e di queste perturbazioni da noi precedentemente descritte. Senz'altro l'uomo avrà certamente provato paura di fronte ai fenomeni di eruzione vulcanica, alle veramente spaventose scosse sismiche ed alle numerose inondazioni delle acque turbolenti, che precipitavano a valle dalle alte cime dei monti. Forse in quel tempo non c'erano che delle tribù di nomadi che si accontentano di percorrere e di esplorare gradualmente le terre che così si erano formate, aspettando pazientemente che questo caos della natura si venisse a placare. Ma ciò che le primitive leggende fanno supporre molto spesso è l'esistenza di abitatori veramente selvaggi, senza Dio e senza legge: tale fu il bandito Caco, uomo gigantesco, feroce e ripugnante, cui diede morte il famoso Ercole dentro una spelonca del colle Palatino. Sono di poi insorte delle controversie circa le diverse origini da attribuire alle migrazioni che ebbero per risultato la stabilizzazione delle prime tribù arrivate nel Lazio. Quanto al loro stato morale possiamo farcene un'idea considerando che la loro attività principale furono i sacrifici umani: questi costituivano per loro l'atto più solenne della propria vita sociale.

Gli uomini più comunemente riconosciuti quali primi abitatori di que-sto territorio, sin dalla sua origine, sono quelli che discesero dagli Ap-pennini del Nord per stabilirsi nella Sabina.

Costoro ci misero del tempo, in seguito, ad incontrarsi con altri popoli che veniva no dal Sud, i Siculi, che vantavano un'origine comune a quella dei Greci. Alcuni autori denominano quei primi abitatori della Sabina e della preistoria romana con il semplice appellativo di "Etruschi".

( a )

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( a ) : Volsci non Latini

E' opinione comunemente accolta, anche se non seguita da parecchi scrittori moderni, che i primi abitatori dell'Agro Pontino siano stati i Volsci e ad essi pertanto si dovrebbero o potrebbero attribuire alcuni grandiosi lavori di drenaggio rinvenuti nel territorio pontino. I Volsci in realtà scesero nella pianura pontina in tempi relativamente recenti e quasi in epoca storica , circa agli inizi del V secolo a.C..

Per concludere la discussione ricordiamo che pur esistendo persone che possono fornire delle spiegazioni molto esaurienti su questa oscura questione esse però non apportano nulla di nuovo che possa permetterci di giungere ad un convincimento più fermamente argomentato.

Che i primi abitatori siano stati questi o quelli è ancora un fatto dub-bioso ma la loro collocazione risale assolutamente ad un periodo antico talmente distante nel tempo che, dopo essersi stabiliti nelle regione, essi hanno dovuto, da un lato, modificare questo sito ed il suo aspetto attra-verso un'assidua coltivazione e, d'altra parte, hanno avuto tempo e modo di ricevere, dal luogo che li ospitava, le influenze che richiesero ugualmente un suolo ed un clima particolare, trattandosi soprattutto di nuove razze che non avevano ancora avuto precedenti contatti e me-scolanze etniche.

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In tale periodo costoro, sboccando dalla grande valle dell'Amaseno, spinti dal bisogno dei pascoli invernali e dalla sete di conquista dei ricchi territori dei Latini Pometii , si affacciarono alle nostre distese pianeggianti, forse anche incalzati da altri popoli nomadi. Subito dopo la venuta dei Volsci succede un periodo di guerre accanite tra loro e la lega romano-latina. Dopo circa un secolo e mezzo di alterne vittorie e sconfitte la vittoria finale arride ai Romani che, tra l'altro, avevano eliminati i Latini. I Romani dunque divennero da allora i padroni assoluti di tutta la regione.

E' illogico pensare che in tale periodo bellico dedicassero le loro energie a compiere la poderosa impresa della costruzione dei cunicoli di drenaggio. I Volsci, in realtà, alla loro discesa nella pianura pontina erano dediti principalmente alla pastorizia, come in origine i popoli montanari, e come anche la maggior parte degli Italici.

La "Geografia"

della primitiva regione laziale

Siamo arrivati alla delimitazione "storica" della primitiva "regione" laziale, un territorio predestinato ad accogliere grandiose vicende storiche di portata mondiale.

Tale parte dell'Ausonia, dell'Esperia, o meglio dell'Italia, racchiude in sé una porzione di territorio in quel tempo non ancora delimitata con un nome appropriato, che circonda più da vicino la città di Roma, l'Urbe per eccellenza.

Con il passare degli anni e degli avvenimenti storici tale territorio viene ad essere denominato "Agro Romano" o "Campagna Romana".

Tale sito è geograficamente determinato da una vasta pianura che confina ad ovest con il mar Tirreno e da un territorio collinare più variegato e ricco di vegetazione.

Ambedue le porzioni territoriali sono abbondantemente irrorate da ruscelli e fiumi vari su cui si erge imperioso il Tevere che, dalla sua nascosta sorgente umbra, scorre qui con il suo murmure respiro, attraversando Roma per sfociare nel mare.

In ogni caso non ha dovuto affatto cambiare d'aspetto questa regione d'Italia, che ha inizio dalle montagne che formano l'ultima insenatura del Tevere e che arriva, addolcendo i suoi declivi, fino alla vasta pianura che fiancheggia il mare: E' il territorio predestinato, è la campagna classica, è l'Agro Romano.

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E' cosa troppo meravigliosa che essi, d'un colpo, potessero diventare esperti idraulici e grandiosi bonificatori senza un lungo periodo di tirocinio e di un'assidua pratica.

Esclusi quindi, una volta per sempre, i Volsci, restano gli abitanti che prima di essi occupavano la regione, cioè i Latini. Tale popolo, stabilitosi in epoca remotissima nella regione pontina, in genere posero i loro villaggi su alture forti per la loro posizione e difese anzitutto con argini di terra e di pietra. E' logico quindi supporre che i Latini abbiano intrapreso la grandiosa opera di costruzione di cunicoli sia perché spinti dalla necessità di respingere gli abitatori dei monti ma anche dal bisogno di organizzare l'opera idraulica nei terreni in cui vivevano.Resta il dubbio se i Latini siano stati gli inventori del sistema di drenaggio sotterraneo o se lo abbiano appreso dai vicini Etruschi. Non è neanche accertato se i Latini abbiano costruito i citati cunicoli di loro iniziativa e in regime di piena libertà politica o se invece essi siano stati costretti a costruire tale opera

 

La verde fettuccia del fiume vi traccia le sue ultime curvature e si sco-prono , saldamente dislocati, i sette colli, che si raggruppano in una strana forma per dominare, dalle loro alture, tutti i vicini territori.Non si scorgono più boschi sulle vette dei monti o presso le insenature del litorale: la valle non è più cosparsa di abitacoli messi in cerchio a guisa di piccoli villaggi compatti, tutti poveri e primitivi. L'attenzione non è più attratta da borgate sparse o da piccoli isolati villaggi. Non si vedono né le ampie distese di prato, brucate da greggi ed armenti, né i ridotti appezzamenti di varia coltura, in cui, come in un mosaico, digradano, in cento sfumature, gli orti, le seminagioni, i frutteti, le distese di fiori.

 

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dal predominio degli Etruschi, nell'epoca in cui costoro possedevano, direttamente o meno, tutto il Lazio. Comunque, per chiudere la questione, è chiaro che, quando si parla di fitte opere di drenaggio ( che presuppongono in sito una densità di popolazione molto forte ed una intensa attività umana ) bisogna escludere la zona paludosa e sabbiosa del territorio pontino in cui manca completamente la fitta rete di cunicoli ed ogni altro segno che ci attesti l'esistenza degli antichi centri abitati ricordatici dagli antichi scrittori.

La ricostruzione, seppure generica e parziale, della storia di questa parte del Lazio, prima che esso cadesse sotto il dominio degli Etruschi e di quello successivo dei Volsci è possibile solo partendo da qualche raro reperto preistorico ed archeologico  ( sepolcreti di Caracupa, di Satrico.e di Velletri ). Altri indizi storici si intravedono dalle notizie dei più antichi scrittori greci , attinte dai primi navigatori delle coste laziali ( i Focesi ed i Calcidesi ). Infine un altro contributo di ricerca ci è stato tramandato dalla tradizione di leggende antichissime elaborate prima del periodo greco.

Agli albori della storia ( inizio età neolitica ) il Lazio meridionale ci appare abitato da popoli autoctoni del paese, ritenutisi tali perché stanziatisi da tempi remotissimi. Una tradizione, peraltro non ritenuta molto antica dal De Sanctis, li faceva chiamare Aborigeni e ad essi, dal re Latino, sarebbe derivato il nome di Latini.

Il popolo latino, già agli albori della storiografia greca, ci appare distinto da quello etrusco abitante sulla riva destra del Tevere. Tutte queste vicende molto tempo prima che dal cuore dell'appennino partissero le grandi emigrazioni dei popoli italici, che avrebbero occupato progressivamente tutta l'Italia centrale e meridionale. I Latini, seppur dagli scarsi reperti archeologici, ci appaiono nettamente distinti, per quanto ad essi affini, dai popoli umbri e sabini che si vennero ad impiantare in tante zone delle pianure tirreniche.

L'opinione oggi più diffusa concorda nel ritenere che i Latini, gli Ausoni ( o meglio Aurunci ), gli Opici, gli Enotri, gli Itali e i Sicani dello Stretto, facciano parte della prima ondata di popoli italici che vennero ad abitare nei territori tirrenici. All'epoca dello storico greco Ecateo esisteva, sul territorio circostante la sponda sinistra del Tevere, il popolo dei Prisci o Casci Latini, in perenne lotta con quello abitante la riva destra dello stesso fiume.

Non si rinviene più un boscoso orticello, accanto alle ridenti cime, né si scorgono, accanto ai piramidali ci pressi, i rustici casolari dei numerosi abitatori della Campagna.Inoltre non si distingue neanche più quel pennacchio di fumi biancastri che da lontano tradisce sempre la presen-za del rudimentale capanno del lavoratore, santuario della famiglia e del lavoro. Ciò nonostante la panoramica vista, in generale, è oggi la stessa di quella dei tempi remoti perché, in realtà si tratta pur sempre della regione romana, nobile fra tutte, rimarchevole nel suo insieme e meravi-gliosamente originale nelle impressioni che essa riesce a produrre in chi la osserva.

Importa poco che tutti gli antichi dettagli siano andati perduti, quando ci si immerge in una profonda contemplazione della vallata, un tempo vasta ma oggi pressoché deserta! Dai monti, dal piano, da ogni dove in-somma, si sprigiona fortemente il concetto di natura grandiosa e forte, bella ed eterna. Questo fu il primo scenario teatrale della storia: la sua stessa desolazione, il suo attuale abbandono, sono motivi di più forti emozioni; tali fatti inoltre causano più grande attrattiva per la persona contemplativa che rimane prigioniera di profonde speculazioni ideali e di ricordi, pervenendo alla scoperta delle più grandi realtà che l'uomo possa concepire.

 

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I limiti del Lazio, verso l'ottavo secolo a.C., all'epoca della fondazione di Roma, erano così definiti: a Nord il Tevere, a Nord-Est l'Aniene ( che forse , all'inizio, divideva i Sabini dai Latini ), a Sud e Sud - Ovest , con limiti più indefiniti e sfumati, il territorio dei Latini che verso Est e Nord-Est veniva a contatto con le terre degli Ernici , mentre a Sud confinava con gli Aurunci.

Ecco ciò che è bello, ecco ciò che si ammira, ecco ciò che qui si ama!

I luoghi della Campagna , dove i fiumi scorrono pigra mente per deli-neare i loro tortuosi meandri, ed i riposanti bassifondi tra le piccole pianure al centro della valle, appaiono alla nostra vista attraverso uno lussureggiante vegetazione di intensa colazione: sono questi i luoghi più umidi dove ristagnano acque putride. Proprio qui però vediamo stiparsi cespuglio di canneti e piante galleggianti che si posano sui paludosi stagni, mentre invece gli acanti importati dalla Grecia e le piante di cactus blu crescono liberamente nelle zone incolte e vengono a formare, sotto l'attenta cura dei braccianti e dei giardinieri, quelle grosse siepi che delimitano le proprietà fondiarie. I pini, che crescono isolatamente o a piccoli gruppi, che si distaccano sulla cresta dei lontani monti, finiscono con il dare la loro pittoresca impronta a questo spettacolo, la cui vasta semplicità è la prima causa della nostra ammirazione. Se ci lasciassimo trasportare l'immaginazione fino all'epoca primitiva, quando la città non era ancora stata fondata, cioè negli anni della tradizione, della poesia o della favola, noi potremmo non trovare più i banchi di quella terra molle e nerastra che formava le rive dei fiumi: essa offriva la pregnante materia che, a guisa di un fertile strato di terra, sempre accoglie e dà nutrimento ad alberi dal fusto corposo, a piante poco elevate ed alle radici di svariate erbe . Il letto fluviale, circondato da boschi verdeggianti e cedui, contiene interamente dentro di sé l'enorme ed immutabile massa delle acque. Il Tevere inizia il suo corso in un sito nascosto dell'Etruria: le sue sorgenti si trovano a più di mille metri d'altezza, protette da cime molto elevate e che si innalzano ai suoi lati per difenderle. Esso attraversa quindi una ridente vallata, situata nel mezzo della larga di-stesa pianeggiante dell'Umbria: il suo corso si snoda, dissimulandosi sotto una fitta vegetazione, lasciando discretamente intendere il suo murmure respiro tra le pietre ed i tronchi d'albero. In tale punto esso agita e fa brillare le sue pure e cristalline acque come si addice ad un principe delle cose create ed al maggiore degli esseri naturali.

Il fiume avanza con un suo regolare corso ed ingrossandosi sempre più: la sua untuosa superficie occupa e ricopre tutto lo spazio del letto che si è scavato a forza. Allo stesso modo la sua profondità e la sua corrente molto placida permettono la navigazione fino all'interno delle terre, ancor più a monte dei meandri delineati dalla configurazione delle colline romane.

Piccole imbarcazioni, di vela bianca o colorata, scivolano sull'acqua, lacerando il luccicante rimescolio delle pacifiche acque, sotto la spinta della leggera brezza marina. Padrone della sua poderosa massa d'acqua il Tevere attraversa ora, lentamente, un'ultima boscaglia dove gli uccelli, abituati alle sue onde leggere e ad i suoi pacifici rivoli, cantano e volano nel mezzo del suo ramo fluviale (Virgilio, Eneide - VII ).

Esso riversa infine le sue acque affannose e rese torbide da sabbie giallastre incessantemente agitate, affidandole al seno del mare dove esse si riversano, si confondono ed alfine muoiono.

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Le cime del Nord e dell'Est, sempre ricoperte da boschi turchini e solcati da crepacci e spaccature di basalto, dove nidificano le aquile, affondano, in certi punti, le loro larghe basi fino in prossimità del fiume: queste alte cime e queste loro prominenti ramificazioni si alzano, mostrando in lontananza le loro orgogliose vette, ricoperte da candide nevi che il sole, nella sua discendente corsa verso il tramonto, colora di sfumature sempre più intense. Il pino, dal tronco rosato, spigoloso, che arrotonda la sua frondosa chioma, dandogli la forma di un enorme ombrello, compare, a gruppi o isolato, nei più pittoreschi ed assolati posti. Esso ha l'aria di distendersi sotto i raggi del sole: apre i suoi rami per ricevere, per assaporare fino agli ultimi, i fremiti del calore e della luce.

La nera quercia, vigorosa e corpulenta, dal fusto compatto e dalle foglie dure, piccole e resistenti come se fossero bronzee, si riavvicina al con-trario le sue foglie: per mezzo di questo accostamento di fogliame essa procura freschezza e, nel mezzo della sua folta chioma, difende il suo tronco dai raggi e dai forti colpi di sole. E' la quercia romana: come il Tevere essa ha l ' aria di essere l'eterna padrona e signora del terreno che essa stessa ricopre. La si incontra talvolta sparsa qua e là : ma è soprattutto in grosse ed oscure boscaglie che tale pianta si erge e la si può incontrare sulle stesse cime dei monti dove cresce più frequentemente. In tali luoghi essa aumenta di numero soprattutto nelle cavità delle incrinature di basalto, dove gli uccelli da preda cacciano la loro implume e giovane covata.

In lontananza si scorgono lampi di luce sbiadita e dei tenui chiarori, propri dei laghi e dei serbatoi d'acqua, o dei semplici sprazzi fluviali, s'attardano in un terreno spugnoso e si vaporizzano; o meglio sono le acque che si infiltrano e si depositano nelle vallate ai piedi della montagna. Piccoli ruscelli, scendendo ciascuno nel suo burrone, portano le loro acque impazienti verso strade a loro ben note. Essi vanno dal loro padre, il Tevere, che li accoglie tanto paternamente. Sono stati essi a far nascere, nel pensiero dell'artista fantasioso, la rappresentazione classica del vecchio barbuto che, coricato a terra, si lascia circondare da bambini molto teneri, bricconcelli e dediti ai trastulli. Alcuni di questi piccoli affluenti, più turbolenti e più gioiosi degli altri, precipitano a valle salterellando e formando schiumose e vaporose cascatelle: vedendole si può pensare che forse rendono più gaio e più bello questo luogo deli-zioso, molto vicino alla città, cioè a Tivoli, paese che domina molta parte del territorio di Campagna. La linea generale dello scenario non è composta di grazia e di dolcezza, come quella che dà stabilità e fermezza al grande bacino etrusco: essa per di più non offre le maschie asprezze proprie delle Alpi, né i crepacci rigidi e colorati delle desolate montagne del Sud della penisola.

Questa intera regione infatti si distingue, l'abbiamo già visto, per la sua rara e superba maestà e per la solenne armonia delle sue naturali dislocazioni geografiche. E' un anfiteatro, dallo splendido sviluppo, le cui pa reti sono le montagne dalle svariate forme e colori. Il cielo è per esso la volta infinita, tutta penetrata dal più bel blu eterno, o pomposamente decorato da nuvole bianche o rosa che, alzandosi dal vicino mare, vengono a planare sulle alture. Il suolo è formato da verdi praterie, mantenute fresche dalle piogge e dalle umide brezze; è inoltre intersecato da campi coltivati, seminativi e da orti; si possono perfino incontrare delle piantagioni di odorosi limoni, menzionati dal poeta, alcune piante di fico, dalla fredda e lobata foglia, ed aranci dalla chioma nera e lucente, ove si nascondono i rotondi frutti dorati, nonché dei curiosi mandorli dalla delicata fioritura di precoce primavera, ed infine dei peri che faranno schiudere, all'estremità dei loro rami, scintillanti mazzetti di bianchi fiori. Un poco più in alto, sulle colline addossate al fianco della montagna, gli oliveti si alternano con i vigneti: i primi abbondano, occupando grandi lotti di terreno e distinguendosi da lontano come appezzamenti di verde sbiadito e trasparente, lasciando intravedere i tronchi ed i rami. I vigneti, invece, dal verde colore e dal bizzarro fogliame, verdeggiano gaiamente con i loro pampini e sprizzano in cielo teneri e delicati germogli. Tutta questa tinta si cambierà ben presto in un rosso intenso, cremisi, vermiglio e giallo topazio, quando, alla fine dell'estate, quelle piante offriranno ai tini dei vignaioli i grappoli di uva nerastra, bianca, rosata o dorata. Supponiamo che tutto questo sia osservato sotto la luce del primo mattino. Il grigiore della valle apparirà di una misteriosa uniformità : una tale colorazione si dileguerà ben pre-sto all'avvicinarsi della pallida aurora, che a sua volta svanirà davanti ai primi raggi dorati del sole. Quest'ultimo arrivato salirà al di sopra delle creste ondulate, che cer-cheranno poi di trattenere le ultime e violacee oscurità. La sfera solare, proiettata orizzontalmente , risveglierà tutta la campagna : i suoi laboriosi abitatori mentre vanno alle loro case ed ai loro rudi lavori; i vigorosi cavalli, i buoi da lavoro, le greggi assonnate, ancora immobili ed ancora raggruppate tra loro in mezzo al campo. l'astro nascente, in questa visione, dissiperà in breve tempo le brume biancastre, fredde e tenui, planando poi sul fiume e distendendo il suo chiarore fino ai bassifondi più interni. Esso dona la vita e l'anima a tutta questa regione, rivestendola di colori chiari e tenui che si armonizzano con l'ora mat-tutina, gaia ed amabile, del giorno che viene. Qual è il nome di questa zona privilegiata che non somiglia a nessun altra regione? E' il tutto o una porzione di un organizzato paese o di qualche vasto regno ben go-vernato che abbia già il suo posto nel concerto dei popoli e negli annali della Storia? Per la storia tale zona non ha ancora un nome. E' una parte dell 'Ausonia o dell'Esperia, il cui centro d'attività e di potere è situato sulle alture che si innalzano nella valle, ai piedi dello scenario delle montagne meridionali. Queste popolazioni formano una fila di borghi, villaggi, case di campagna recintate da canneti, tutti sviluppandosi ad ornamento e festone di un ricco mantello regale.

Il "Latium"

del re Latino e del mitico Enea

In questo grandioso territorio viene ad approdare il mitico valoroso eroe troiano Enea che , scappando con la sua gente dall'eccidio di Troia,perviene alle coste laziali, dove si imbatte con la popolazione autoctona governata dal re Latino.

Riviviamo tali mitici avvenimenti proseguendo nella lettura del nostro autore, che cita il sommo Virgilio e la sua opera dell'Eneide.Tale poeta infatti è stato il primo di quelli che hanno voluto cantare le vicende del Lazio e dei suoi eccelsi protagonisti.

 

E' il classico approdo che il destino viene ad indica re ad Enea perché egli possa sbarcare con i suoi coloni ed i suoi guerrieri scampati all'eccidio di Troia ed arrivati in questi paraggi dopo mille pericoli ed insidie che incontrarono navigando.

Per meglio animare il quadro che abbiamo disegnato e per dargli quel-la vivacità che gli spetta, delineeremo l'eroe troiano nell'atto in cui, in quel memorabile mattino, sta dando l'ordine ai suoi compagni di volgere la prua delle imbarcazioni verso la foce del fiume.

" Già la le nascente luce cominciava a colorare di tenue porpora le imbarcazioni e l'aurora, dall'alto del cielo, brillava sul suo carro, aggiogato a due cavalli dalle dorate criniere. Ecco spiravano i venti, le loro folate si disperdevano in aria e solo i rami restavano a lottare contro l'immobile mare.

Enea per altro, dall'alto della poppa, scorse un bosco immenso:

Il bel corso fluviale del Tevere, scorrendo verso il mare, lo attraversava con i suoi rapidi flutti perennemente colorati da una sabbia giallastra."

( Virgilio, Eneide, VII 25 - 32)

E' il re Latino che, in questo periodo, governa il territorio: il suo domi-nio abbraccia una gran parte dei campi che noi abbiamo menzionato e le città le cui mura, le cui case ed i cui palazzi, si ergono luccicanti di luce ai piedi del monte. Figli di Fauno e di una ninfa di Laurentum, essi di-scendono, per via paterna, direttamente da Saturno. Scorrendo la lista dei loro antenati, le cui statue ornano i palazzi, ci si imbatte in Italo e nel venerabile Sabino, che, per primo, si mise a coltivare un vigneto. E' forse da questo re che deriva il nome del Lazio dato alla regione ? O forse deriva dal vocabolo latino che significa " situato al proprio fianco " (confinante) ? O forse dal greco, da un vocabolo che significa " paese pianeggiante" ? O, ancora, questa dicitura deriva dal verbo "Lateo"

( Nascondersi), come narra Ovidio nei Fasti? Secondo il mito di Saturno, costui stesso, fuggendo dalla persecuzione di Giove, avrebbe trovato in questa regione un propizio rifugio per nascondersi. Al centro del palazzo dalle cento colonne si erge un vecchio alloro: esso è stato religiosamente conservato attraverso i secoli. E' quest'albero che dà nome al capoluogo del posto, "Laurentum". Questo solenne albero, le cui foglie eleganti onorano degnamente la fronte degli eroi e simboleggiano vittoria e dominio, questa pianta ha preferito questo sito, questo suolo, questo clima per affondare le sue radici più vigorose e per spiegare al vento il suo fogliame così folto e lucente, eterno simbolo di trionfo e di gloria. Enea, ispirato dalle rivelazioni di suo padre Anchise, è tutto preso dalle forti emozioni che questo nuovo luogo gli fa provare, in mezzo a queste bellezze, a questi deliziosi sensi ed a queste amenità egli esclama:

"Salve! O terra promessa dal destino! Salve! O Dei tutelari di Troia! Questo luogo è ora la mia patria!"

I Troiani sono sbarcati all'alba per percorrere il paese ed i suoi dintorni, il regno, le sue frontiere ed i suoi lidi. Essi si informano ed apprendono che i Latini i suoi abitanti, sono un popolo forte e generoso: "Qui abitano i valorosi Latini ". Allora il figlio d'Anchise invia i suoi ambasciatori che ha deciso di spedire al re. Essi portano rami di ulivo e parole d'amicizia: offrono anche ricchi doni. Il re, circondato dalla propria corte, li accoglie amichevolmente, rivolgendo loro il suo discorso di benvenuto:

 

"Quali tempeste vi ha spinti fino alle foci del Te vere per cercare asilo nel nostro

lido ? No ! Voi non rifiuterete la nostra ospitalità ! E' bene che voi conosciate i Latini, popolo di Saturno, di indole giusta e fedele al loro antico nume."

E' Ilioneo che gli risponde:

" O re, degno figlio del dio Fauno! Non è stata affatto una mareggiata che ci ha sbattuti sul vostro litorale ! Non sono state neanche delle tempeste che ci hanno costretto ad invadere il vostro regno , non ci ha abbandonato la buona stella del cammino, e neanche siamo stati ingan-nati dalla conformazione della costa. Noi veniamo infatti per una nostra propria volontà, dopo essere stati scacciati dal più grande impero rischiarato dal sole che, sorgendo dalle più remote plaghe del cielo, descrive la sua vasta corsa verso il tramonto. La nostra stirpe deriva da Giove, dal quale il nostro re Enea discende direttamente.Scampati ai disastri , sballottati sui mari , noi ora vi domandiamo un modesto ricovero per i nostri Dei Penati, un lembo di terra ospitale per stabilirvici sopra. Donateci aria ed acqua , elementi molto comuni a tutti gli uomini. No! L'Ausonia non avrà da pentirsi per aver accolto i figli di Troia. Ricevete, da parte di Enea, la coppa d'oro di Anchise con cui egli celebrava le libagioni sugli altari. Eccovi anche lo scettro e la sacra tiara che indossava Priamo quando emanava le sue leggi.

Queste ricche stoffe , infine, furono tessute da mani di donne troiane ".

 

Preoccupato il re Latino pensa alla predizione del vecchio Fauno molto di più che ai ricchi donativi offertigli. Enea, questo straniero sconosciuto e venuto da lontani lidi, è certamente il genero annunciatogli dagli ora-coli e destinato a succedergli al trono:

da lui nascerà una posterità feconda per valore e per virtù, destinata a sottomettere l'universo intero al suo dominio.

 

" Riferite ad Enea, egli risponde, che io ho una figlia, Lavinia ; gli oracoli ed i prodigi mi hanno predetto che lo sposo, promesso a lei ed a tutto il Lazio, deve venire da lontane regioni : è Enea, senza alcun dubbio. La sua posterità vedrà la gloria del nostro nome innalzata fino alle stelle del cielo. "

( Virgilio, Eneide, VII 213 - 248 )

E' questa una seconda Iliade, è l'epopea dei sopravvissuti Troiani nella quale, al nuovo scenario delle gesta eroiche, corrisponde il nuovo genio di Virgilio, il grande poeta, erede e continuatore di Omero. Ma ben pre-sto si svilupparono sanguinose lotte con del leinfinite complicazioni: Enea si ritrovò lo stesso in pericolo di essere scacciato dal paese.

Un giorno, mentre egli dormiva, il venerabile Tevere, alzatosi dietro il fogliame dei pioppi rivieraschi, avviluppato in un diafano tessuto blu, colloquiò con l'eroe e gli predisse la futura fondazione delle mura e dei palazzi della più grande e della più nobile fra tutte le città. Allora Enea si imbarca di nuovo e risa le il corso del fiume che trova placido ed addormentato come uno stagno : si ferma infine alla vista di una piccola città, vicina al bosco sacro. E' il regno dell' arcadiano Evandro, uomo anziano, giunto in tal luogo prima della guerra di Troia.

Il poeta lo definisce il fondatore della città di Roma. Evandro racconta ad Enea come egli ha trovato questo paese abitato da uomini rudi, nati dai tronchi degli alberi ed impastati con la scorza di dura quercia di montagna. Egli aveva visto con i propri occhi questi boschi popolati pa-cificamente dai fauni e dalle ninfe. La favolosa storia di questi nobili fatti ci è stata tramandata da Virgilio , il caro autore dell'Eneide , l'amante della natura, il conoscitore illuminato dei monumenti e delle arti letterarie : la sua elegante poesia ha posto nel Lazio lo scenario di questa epopea sorta a seguito dei tragici avvenimenti di Troia. Le leggende della mitologia, i racconti della tradizione, gli slanci della fantasia creatrice e visionaria trovano qui più interesse dei mutili annali e dei rapporti privi di autorità che formano ciò che potrebbe definirsi quale storia di quest'epoca, sulla quale al cuna seria documentazione è fino a noi pervenuta. La sciamoci ingannare dai poeti ed inebriare dai loro riti e dalle loro cadenze metriche : lasciamoci sedurre dalle loro svariate melodie prima di seguire le dissertazioni e le ipotesi dei sapienti che continuamente contraddicono altri sapienti. I poeti e gli artisti non hanno affatto bisogno in questa materia né della luce della documentazione né della base dei fatti conosciuti e provati: essi scorgono più lontano, come i profeti ; essi penetrano le oscurità con la sola luce misteriosa del loro genio.

La leggenda più generalmente ammessa vuole che Romolo, allevato da una lupa con suo fratello Remo, regale di scendente del famoso Enea, sia stato il vero fondatore della Città. E' lui che ha dovuto gettare le basi e le fondamenta di quella che si definisce la " Roma quadrata ", cioè la prima cinta romana posta sul monte Pala tino: era una forte muraglia, costruita con blocchi di tufo, le cui vestigia ci sono oggi indicate dagli archeologi.

Non è sicuro che il nome della città derivi la sua origine da quello di Romolo : è stata fatta l'ipotesi che "Romolo" è al contrario un diminutivo di "Roma" che ebbe così dato il suo nome invece di riceverlo dal suo fondatore. Secondo altri studiosi, la città si chiamerebbe Roma a motivo del fiume che l'attraversa ; infatti un corso d'acqua, a quei tempi, era generica mente denominato "Rumon". Altre ipotesi risalgono fino alle eti-mologie più antiche dello stesso greco: esse hanno riscontrato che Roma vuole dire "forza" in dialetto etrusco.Qualunque sia la sua origine, Roma, nome magnifico, suggerirà potentemente, da allora, l'idea di potenza, di dominio, di grandezza, e produrrà un'attrazione irresistibile.

La misteriosa stessa oscurità delle sue origini, da una parte, e , dall'altra, la meravigliosa influenza del suo passato, la manifesta vitalità del suo presente, fatto che si può prevedere per il futuro, contribuisco no a creare per essa questo nuovo epiteto, il più particolare di tutti, quello cioè di "Eterna".

Tale denominazione le era stata peraltro già attribuita nell'antichità classica

" His ego nec metas rerum nec tempore pono mperium sine fine dedi "

( Virgilio, Eneide , I - 278/79 )

" Ad essi io non pongo limiti né di tempo né di imprese valorose perché ad essi ho concesso un impero senza fine " .

 

 

"Finché Roma, la vittoriosa figlia di Marte, osserverà dall'alto delle sue colline l'universo prono ed incatenato ai suoi piedi, io stesso avrò dei lettori che leggeranno le mie opere"

( Ovidio, Tristia III, Eleg 7 )

E Tito Livio, da parte sua, quando narra i fatti e le gesta di Romolo, esclama :

 

" Ma bisognava che intervenisse il fato nella stessa fondazione di una città tanto importante e nella inaugurazione di un impero che doveva essere il primo dopo quello del cielo ".

( Tito Livio , Ab Urbe Condita )

 

Più di venti... secoli della vita di questa città sono già trascorsi, secoli di storia scritta, ben conosciuta e dettagliatamente nota. Ma ecco che gli archeologi che, basandosi su recenti scoperte fatte nel sottosuolo del foro, ai piedi delle secolari rovine del Palatino, vengono a sostenere una nuova teoria. Secondo costoro Roma era già stata fondata in epoca ben anteriore e perciò essa sarebbe giusta mente vecchia di almeno trenta-quattro secoli! Ma seguiamo ancora l'ispirazione del canto dei primi fatti eroici di questo paese e gettiamo uno sguardo sulla bella e ridente Laurento che domina il corso del Tevere con i suoi palazzi sopraelevati e le sue mura ben fortificate: le sue vicine, la città di Lavinia ( è il nome della figlia del re ), e quella di Alba, fondata da Ascanio, il figlio di Enea, non le fanno ancora alcuna ombra. I giovani cittadini , gli adolescenti, gli stessi fanciulli si dedicano a dei virili esercizi ginnici: essi domano i focosi cavalli allevati nei campi circostanti; gareggiano nel tendere faticosamente i duri archi di guerra ; si esercitano a lanciare in lungo dei pesanti giavellotti ed, infine, ristretti in campi recintati, essi si allenano a lottare di forza e di agilità. Come abbigliamento essi indossano, annodata sulle spalle, la leggera clamide agitata dal vento.

Non sarebbe affatto fuori luogo immaginare, ugualmente, le vergini la-tine, vestite del modesto peplo ricamato con una semplice frangia, con le braccia ed i piedi nudi, i capelli fronzuti, neri, castani o biondi raccolti in ciocche all'estremità del capo. più umili di queste figlie portano, con graziosa andatura, delle anfore che hanno riempito alla fonte: altre an-cora sono intente a cucire e a ricamare, mentre le più esperte tessono le corone destinate ai vincitori dei vari giochi; e così laboriose esse ridono e ciarla no in una lingua che somiglia al greco. Altre donne ancora, più pesanti a causa dell'avanzata età, delineano già il tipo classico di donna da cui deriverà la matrona romana. Noi possiamo ancora vederne alcune che vengono dal vicino bosco: esse spezzano dai rami il sacro fogliame d'alloro recando con loro ceste ricolme in cui si notano fitti mazzetti di mirto, di rami di bussolo, radici odorose di menta e gli sgargianti ritagli di gialle ginestre, di un odore intenso, soave e delizio so.

Mentre le fanciulle lavorano e chiacchierano sotto le querce, vicino ai fiori ed al fogliame accatastato, un giovanotto, che da qualche tempo si faceva notare per il suo inusitato silenzio, si accosta al gruppo dominato dalla presenza della bella Laura, imponente per la sua giovanile voce e per la brillante gioiosità. Egli si avvicina semplicemente per ammirarla ancora di più e con la segreta speranza di ricevere, possibilmente, alcune frasi che contraccambino il suo sentimento amoroso. Egli la trova mentre intreccia una corona che egli crede destinata a sé stesso: perché, infatti non dubita di riuscire vincitore nei prossimi giochi. La sua aspettativa resta disattesa, perché egli si accorge di nascosto, di un'altra corona che Laura non ha avuto il tempo di nascondere tra i rami del bosso in mezzo ai quali essa stessa si trova quasi soffocata. Essa continua a lavorare, tutta distratta, scuotendo la sua graziosa testolina in cui brillano degli occhi chiari, accostando ed allontanando alternativamente dei fiori per meglio scegliere quelli più adatti ad essere posti in corona. Il giovanotto ha capito tutto. Il giorno seguente egli risulta vincitore in tutti i giochi : ma la festa è interrotta da un sanguinoso combattimento in cui un contendente è steso a terra, colpito a morte da una mano che la gelosia ha reso implacabile.

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Le caratteristiche somatiche

e  psico -fisiche dei "Latini"

 

Gusteremo ora, con ricchezza di particolari, la descrizione somatica e psico-fisica dei primi Latini, la cui origine è alquanto dibattuta, che furono i primi abitatori del territorio laziale posto nelle immediate vicinanze di Roma.

Tale popolazione fu la prima, in Italia, ad incontrare la stirpe di Enea. Da questo incontro venne fuori un fecondo incrocio etnico tra due popoli sanguigni e bellicosi.

Tali sono i Latini indigeni, che popolano la fertile piana che si estende dai monti fino al litorale del mar Tirreno:

tale è il primitivo temperamento degli abitanti della capitale, Laurento, regina consacrata di tutta la regione, misteriosa madre di mille altre città che, in seguito, riempiranno continuamente il mondo di sempre nuovi splendori. Gli uomini sono belli, grandi, ben proporzionati :

la loro testa piccola e fiera è avvolta da una capigliatura folta ed ondulata. La fisionomia è rischiarata da occhi vivaci ed intelligenti, la fronte è di dolci lineamenti e di classica dimensione e tutto l'insieme indica l'energia della volontà e la franca serenità del modo di pensare. Gli altri tratti concorrono a formare una felice armonia di forme, di colorito e di proporzioni. Le donne sono ugualmente nobili per prestanza fisica: il loro viso è espressivo. Esse si fanno notare per la ma-estosa calma della propria andatura; piacciono per l'elegante flessuosità delle loro ondulate membra. Esse sono brune o slavate come quelle greche; altre volte sono bionde e di roseo colorito, dagli occhi chiari, come le donne etrusche.

Il sangue della razza è misto per tutte le migrazioni dei Pelasgi e le invasioni dei Tirreni: altri popoli, giungendo dalle vicinanze o da miste-riose regioni che iniziano negli alti monti e nei pressi dei laghi del Nord della penisola, hanno contribuito ugualmente alla formazione del temperamento latino. I popoli si trovano evidentemente influenzati dagli elementi della natura che li circonda: essi devo no portare il marchio della regione che abitano. Le montagne del Lazio che, per la maggior parte sono vulcani spenti, si mostrano tanto severi quanto possenti nella loro bella ordinata disposizione. I loro contrafforti si ramificano, digradano verso il piano e spari no svanendo nelle vicinanze del Tevere e del mare. E' una terra generosa che dà nutrimento tanto ai boschi secolari posti sulle cime dei monti, quanto ai boschi cedui, i frutteti, le verdi praterie ed i vari campi seminativi della pianura. I taglienti venti del mare, che resta tanto vicino, si alternano con la serena cal ma di un aere temperato o con le brezze vivificanti le infiorate pianure. Aggiun-giamo infine che l'aspetto del paesaggio è sempre nobile e solenne: noi avremmo così enumerato gli elementi che hanno concorso alla costituzione dell'ottimo clima e le condizioni speciali che hanno im-presso, in modo indelebile, un originale e particolare carattere alla razza latina. Grazie a quest'ambiente il popolo, fortificato da queste terre laziali, si svilupperà a seguito delle sue prime vittorie, mescolandosi ai popoli vicini che andava a sottomettere, agli austeri e bellicosi Sabini, ai religiosi Etruschi, forti e molto colti: tale popolo dunque arriverà in seguito a dominare, con la sua forza e la sua intelligenza, immense regioni della terra nell'interminabile svolgersi dei secoli. Razza piena di forza tanto per conquistare che per resistere al nemico, è essa stessa che andrà ad aprire le vie alla scienza naturale universale, ad offrire esemplari unici di volontà, ed a illuminare con fuochi eternamente vibranti, quasi divini, sia l'arte che la poesia. La schietta genealogia dei primi latini si trova fondata, secondo la tradizione, sulla fusione degli aborigeni, già citati, con i Siculi o Pelasgi , razza di noma di che ugual-mente popolarono la Grecia. Si sa che, molto tempo prima della fondazione di Alba, esisteva già un'antica confederazione di trenta città o municipi la tini: ai loro abitanti è stato dato il nome di "Prischi Latini". Secondo i poeti, in accordo su ciò con le leggende più universalmente riconosciute, Alba, costruita dai Troiani, si conquistò l'egemonia e si eresse a metropoli di quelle numerose e importanti colonie tra le quali si annoverava la presenza tutta nuova di Roma . Costei, divenuta potente a partire dal regno di Tarquinio Prisco e di Servio Tullio, non fu pertanto accolta in questa confederazione: così si sarebbe decisa a vi vere orgo-gliosamente e risolutamente per proprio conto. I Latini stessi si trovarono ben presto coinvolti nei formidabili orditi giochi della politica e dell'or-ganizzazione romana, ma per farne parte integrante e per acquistarvi fi-nalmente i pieni diritti di liberi cittadini. I Romani, dalla loro parte, hanno opportunamente scelto dei coloni nelle città del Lazio: essi sono stati inviati in gran numero nei differenti siti dell'Italia. Il loro scopo era quello di costituire quelle che sono state dette le Colonie Latine, "Coloniae Latinae"; esse furono dei centri colonizzati che contribuirono efficacemente a fissare l'unità di razza e di lingua nello Stato Romano, tramite la partecipazione ai privilegi ed alle immunità speciali, tanto civili che politiche.

( LUBKER, Lessico dell'antichità classica ).

Roma dalla mitologia alla storia

Dai racconti mitologici delle vicende di Enea ha inizio la fusione tra i discendenti dei Latini e dei Troiani. Dall'incontro tra queste due razze forti e bellicose nasce una varietà nuova e cioè l'etnia del popolo romano , la stirpe dei Romani, destinati a grandi imprese politico - militari.La città di Roma , uscendo da così nobili origini, è chiamata a sottomettere gran parte del mondo allora conosciuto e a soppiantare la città di Gerusalemme sia come guida politica che come centro spirituale.

Attraverso le vicende dello sviluppo del Cristianesimo Roma si avvia a diventare imperitura ed eterna attraverso i secoli.

La razza latina , facente capo a Roma , si espande in ogni dove e la matrice etnica latina imprime il proprio stampo nel forgiare uomini e donne di grande fama mondiale , ad iniziare dai primi santi martiri cristiani fino a tutti i geni del rinascimento.

Tutto questo avviene anche ed anzitutto grazie alla lingua latina che, soppiantando il greco, diventa l'idioma cristiano, universale, immutabile ed eterno.

 

Il figlio d'Anchise, dopo aver preso congedo da Evandro, aveva ricevuto da Venere, in un'apparizione che essa fece in mezzo ad una nuvola brillante, un dono che era una meravigliosa opera d'arte. Era un'armatura forgiata e cesellata, con le proprie mani, dal dio Vulcano. Essa emanava dei riflessi iridescenti come quelli di una nuvola turchina solcata dai raggi del sole. Nei suoi rilievi erano raffigurati i fatti ed i personaggi principali della dinastia che andava da Romolo ad Augusto. Vi si scorgeva Coclite e Manlio; Catone che detta va le leggi e Cesare Augusto che aizzava alla lotta non soltanto il popolo ma anche il Senato, i dei Penati e quelli dell'Olimpo; Cesare, tre volte vittorioso, appariva posto su un carro trionfale: egli riceveva il grido di vittoria del popolo che si alternava con i canti delle donne romane; lo si vedeva mentre ascoltava i saluti plaudenti e il clamore dei giochi; egli stava per fondare trecento templi promessi agli dei, mentre ai suoi piedi sfilavano i suoi vinti nemici che parlavano varie lingue, coperti da armature e dalle più disparate armi. Questa armatura, che Vulcano aveva guarnito di sfavillanti ornamenti a sbalzo, non era altro che una profezia. Ciò che il poeta intendeva era soltanto cantare le somme gesta dell'avvenire e le future glorie dei di scendenti dei Latini e dei Troiani, quando questi si sarebbero mescolati a tante razze di popoli. Ma quali brillanti e sublimi poemi Virgilio non avrebbe scritto se avesse potuto sapere ciò che stava per seguire al secolo di Augusto ? Le nuove imprese della sua razza, la sua nuova vita, le sue eclatanti gesta, i suoi gloriosi e santi eroi che si muoveranno in nuove e radiose sfere ? Ciò che la Provvidenza aveva predisposto anzitutto era che la Roma latina dovesse soppiantare Gerusalemme, la cui celeste missione era terminata. Roma, principale anello della catena dei tempi, metropoli intermedia tra il Vecchio Oriente e l'Occidente in formazione, avrebbe assunto il nuovo onere e compito di ospitare la sede e di custodire il canone della vivificata religione della redenta umanità.

Come strumento della divina vendetta, fu alle sue mani che si affidò il fatale compito. Toccò in sorte, tanto ai suoi governatori che alle sue coorti ed ai suoi legionari accecati dal paganesimo, di presidiare il cruento dramma della Passione. Toccò anche ai suoi generali, ed ugualmente al suo imperatore Tito, cieco strumento, di causare la distruzione del tempio di Gerusalemme dopo terribili massacri; di annientare totalmente la stessa città, senza che vi restasse pietra su pietra, e di ridurre in cattività tutti gli Ebrei sopravvissuti.

Roma portava letteralmente a compimento le predizioni dei profeti ed eseguiva uno dopo l'altro i minacciosi avvertimenti di Gesù Cristo. Che fatidica grandezza!

Incosciente e sanguinaria Roma doveva ancora suggella re, con il sangue dei martiri, la fede del vero dio che essa stessa aveva lasciato cro-cifiggere. Straziata in fine nel suo proprio seno e in seguito dalle barbarie essa si libererà e si inchinerà alla luce apportata da Pietro , cro-cifisso, come il suo Maestro, ma ai piedi del colle Vaticano. Allora la sua potenza e la sua gloria prenderanno un nuovo slancio poiché essa si impossesserà dello scettro imperituro della nuova e più sublime delle religioni, quella che si denominerà ormai Romana e Latina.

Da quel giorno Roma ha dominato perché, ha salvato: se il rapido crollo di tutto ciò che è stato istituito e sviluppato nella civiltà arcaica non ha attratto l'umanità fino al più profondo degli abissi è stato per il fatto che la Chiesa nascente di Roma, asilo di uomini giusti e di vere dottrine, ha custodito accuratamente gli elementi che restavano ancora validi. Se i barbari sottomisero il nostro mondo ad un paganesimo peggiore di quello appena spirato dipese dal fatto che il seme cristiano di Roma germogliava all'interno dei loro giovani e robusti cuori: i barbari arri-varono a Roma quasi come selvaggi ma ritornarono nei loro territori almeno toccati dalle nuove misteriose virtù che fino ad allora avevano ignorato. A partire da questa epoca grandi uomini cristiani successero a grandi uomini pagani. Dopo Scipione e Marcello, dopo Cesare ed Augusto, Catone e Cicerone, dopo Virgilio ed Orazio, torce vive e fiammanti del vecchio genio latino, fiorirono Leone e Gregorio Magno, Costantino e Carlo Magno. E nei cieli brillavano i martiri come costellazioni, le cui prime stelle erano Sebastiano, Lorenzo e Cecilia, tutta spendente di virtù, nonché la dolcissima Agnese.

Fu ancora latina l'ispirazione che brillò nei poemi di Dante e nei grandi artisti Michelangelo, Raffaello e Leonardo. Fu il latino Galileo che per primo scoprì i misteriosi movimenti così armoniosi degli astri celesti.

Fu peraltro una verace figlia della razza latina, tale Isabella la Cattolica, regina di Spagna, che venne innalzata, dai suoi talenti, dalla sua volontà e dalla sua coscienza, al primo posto tra gli uomini di stato, tra i legis-latori ed anche tra i guerrieri. Fu essa stessa che fornì i mezzi e gli incoraggiamenti ad uno dei moderni latini, il più illustre, a Cristoforo Colombo. Le qualità di questa grande regina avvezzarono la sua corte e formarono uomini della tempra di conquistatori, come Fernando Cortez, degno di epopea. Fu a questa stessa influenza del genio latino che si dovette la nascita di liberatori della loro patria come Simon Bolívar, cui toccò la gloria di donare eroicamente la vita e la libertà a cinque nazioni dell'America. La beata Giovanna d'Arco, divinamente ispirata, ed il Ca valier Bayard, ambedue senza macchia e senza paura, Luigi XIV e San Vincenzo de' Paoli, Racine, Napoleone e Pasteur furono tutti eminenti nelle sfere del loro genio così diverso ; furono ancora essi gli eredi del grande spirito latino e , per questo, l'umanità li ama.

Newton, Milton, Washington e Franklin, cioè la scienza , la poesia , i meriti civici personificati, benché di origine non latina, furono tuttavia dei riflessi della luce di Roma, della verità che essa insegnava, delle bellezze da lei offerte, e delle cristiane virtù che essa predicava e sapeva onorare. Roma è stata allo stesso tempo la culla e la tomba di tutto ciò che è grande. E' stato in essa stessa che la nuova coscienza trovò la base del sacrificio dei martiri e delle inaudite sofferenze per mezzo delle quali essa doveva uscire dalle rovine dello sventurato paganesimo.La fecondità latina, la sua abbondanza, e la sua eterna facoltà di rinnovamento bastarono a colmare tutte le lacune. Presso i Romani ed i Latini, l'istinto dell'umanità è un segno caratteristico : essi lo hanno rivelato nella politica, nella religione e nell'organizzazione sociale. Essi seppero, per primi, fondare e far sviluppare delle colonie in epoche rozze in cui gli uomini pensavano ad unirsi più per distruggere che per creare; essi furono anche i primi a mettere in pratica il concetto e la scienza dello Stato. Fu all'interno di questo popolo che nacquero i germi della carità e della solidarietà universale: si! Essi si formarono in questa razza dove ogni individuo era dotato di un'alta sagacità e nella quale abitava facilmente il sentimento il più umanitario di tutti, quello che è denominato la Pietà. Gli ospedali sono la più evidente espressione di questo virtuoso sentimento ed i primi infatti saranno fondati a Roma. I disgraziati che verranno in essi ricoverati, spinti dalla loro sofferenza, non vi troveranno a riceverli dei mercenari che , con fare freddo e distaccato, daranno loro un numero e prescriveranno una fredda terapia medica. La prima cosa che essi vedranno, dopo aver ricevuto il benve-nuto e la prima visita, sarà una persona che sorriderà loro, che li incoraggerà, che li riempirà di delicate cure: essi troveranno una donna, una sorella di carità, un angelo. La lingua latina è stata anche, presso i Romani, un potente veicolo dello sviluppo della loro dominazione universale. Per la sua concisione e la sua chiarezza essa risulta, in ef-fetti, adatta ad agevolare efficacemente gli uomini di legge, di amministrazione e di governo. Le iscrizioni latine ci forniscono un esempio illuminante ; esse sono come il marmo su cui sono state incise: trasmettono il fatto e la parola, l'idea e l'espressione, in una forma con-cisa ed immutabile; E' per questo che tale stile è detto "lapidario". L'oratoria latina, così come la gustiamo nelle narrazioni di Tito Livio, è semplicemente inimitabile. I precetti di legge improntano le loro migliori formule alle risorse offerte dal latino. E' ugualmente grazie al genio della lingua latina che la liturgia ha potuto comporre le sue preghiere, concise e parimenti complete, capaci di elevare al cielo il pensiero e la preghiera dei mortali. Queste sono le ragioni della sopravvivenza del latino. La chiesa cattolica, che ha i propri motivi di credersi tanto immor-tale quanto universale, l'ha intimamente adottato : l'idioma latino è l'idioma cristiano, immutabile ed eterno.

Lo sviluppo storico del Lazio

e della Campagna Romana

Dopo che Roma ha oltrepassato il periodo imperiale del regno di Augusto , dopo cioè che la città ha esteso la dominazione sul mondo antico, in tutto il territorio laziale regna una frenesia ed una laboriosità sempre più vistosa man mano che ci si avvicina al centro vitale dell'Urbe.

Ormai tutta questa mescolanza di genti e di razze si chiamano con un solo epiteto : popolo Romano.

Tale popolazione , proprio per fini espansionistici ha creato intorno a Roma e quindi nel Lazio, strutture abitative sempre più confortevoli e stabili, ornate da artistiche architetture e ricche di servizi sempre più rispondenti alle esigenze di una popolazione in continua crescita.Il Lazio , a questo punto storico, comprende circa cinque milioni di persone ivi residenti.

Questo momento storico è quello più solenne di tutta l'umanità del mondo allora conosciuto , arrivato al culmine del massimo splendore attraverso l'impero di Roma.

Il mezzogiorno della storia del Lazio e della Campagna si colloca, secon-do noi, all'epoca dell'impero posteriore al regno di Augusto, quando Roma ha già esteso la sua dominazione sull'antico mondo. Nel campo degli avvenimenti naturali è questa l'ora della calma maestosa, della luce abbagliante, della forte calura. Il sole sa le allo zenit, spargendo su questo territorio, dal ma re fino alle montagne che chiudono l'orizzonte, un'atmosfera che produce essa stessa il germe di una vita feconda e di un intenso vigore. I campi, i fiumi, le colline e le alte cime dei monti, nonché, le piante, tutti gli esseri insomma, vibrano all'unisono. I mo-desti villaggi, circondati da frutteti e da umili colture, che erano disseminati qua e là fin dall'epoca della preistoria, che noi abbiamo già contemplato, sono rimpiazzati al presente da piccole e lussuose città - giardino , incorniciate da alberi esotici che spandono la loro ombra ri-storatrice su delle stalle stipate di superbi animali: vi si vedono dei focosi cavalli nati in Africa, degli enormi torelli importati dalle fattorie del Nord, dei montoni di razza selezionata. Ci sono anche in questi grandi parchi delle grosse gabbie dove ruggiscono dei leoni, delle tigri, ed altri animali selvaggi e feroci che assecondano la passione e la vanità dei ricchi proprietari. L'agricoltura si è sviluppata grazie a degli intensi e continui sforzi. L'aere ristagna secco per il cigolio dei carri polverosi che ingombrano le strade: essa ripercuote i nitriti dei cavalli ed i belati dei montoni; nell'atmosfera si alza una sottile polvere. Ascoltate ora le voci, le grida, le imprecazioni, miste ai tintinnii dei campanacci delle greggi ! Guardate le affannose corse dei conduttori dei carri e dei pala-frenieri ! Regna in tutta la regione una effervescenza di frenesia e di laboriosità; la si riscontra, sempre di più, man mano che ci si avvicina al centro vitale della città di Roma. Tutte queste genti che vivono, che si agitano e che circolano freneticamente, non sono più quei Latini, nemici per secoli dei bellicosi ed invasori Romani; non sono neanche Etruschi, né Volsci né Sabini ; essi si chiamano tutti Romani e si stimano come fratelli, figli del fecondo Lazio. Essi amano, a ragione, le loro montagne: infatti queste sono piene di vita e di abbondanza, incoronate da leggiadre nuvole, ricolme di boschi e di laghi, nonché, adorne dei classici ricami dei vigneti e degli uliveti, esse si ergono sempre eguali a sé stesse, sempre fiere e duramente scoscese, ma peraltro sempre belle. Una volta i loro costoni furono sviscerati e le loro cime spianate dai vulcani: questi ultimi però non incutono più alcuna paura. I crateri estinti sono diventati degli ameni laghi dalle forme rotondeggianti, dove vengono a riflettersi dolcemente le nuvole che tracciano il cielo . Un vulcano veramente in attività è oggi invece la stessa città, la metropoli , l ' Urbe", con il suo fuoco di gloria ed i lampi della sua supremazia, che allo stesso tempo guida e soggioga il mondo. I sette colli non formano altro che un compatto agglomerato di gente: essi contano più di un milione di abitanti.

Nella campagna del Lazio, che si estende verso il mare e nei bacini dei fiumi tributari del Tevere, a monte come a valle, c'è un ragguardevole numero di abitanti sufficiente a far arrivare la popolazione totale , compre sa quella di Roma, alla cifra di cinque milioni. Le creste delle colline romane sono coronate da magnifici templi i cui classici frontoni, tutti di marmo bianco dell'Etruria, risplendono sotto i raggi quasi perpendicolari del sole. Delle statue ben allineate, fitte come legioni, dominano le sommità di quei templi, al di sopra di preziose e larghe architravi e di floreali cornicioni. Altre statue e gruppi diversi, sempre di bianco marmo, adornano il centro dei portali e le cavità delle nicchie, simmetricamente edificate. Inoltre delle quadrighe di bronzo dorato sormontano i portici; Vittorie alate, in punta di piedi e poggiate sopra le luminose sfere di isolate colonne di levigato granito orientale, si ergono come per volersi slanciare nello spazio blu. Le masse luminose, dai mille e risaltanti colori, sono costituite dalle numerose abitazioni private, sia ricche che povere.

Delle costruzioni cubiche, sormontate da emisferi o da cupole, appiattite secondo la moda levantina, si trova no qui e là, semi - nascoste da vecchi cipressi ancora vigorosi, dai pini ad ombrella e dalle cupole verdi dei fronzuti platani d'oriente.

Leggere volute di fumo bluastro, invece, tradiscono l'esistenza di una domestica abitazione.

Questi alberi, che abbiamo visto elevarsi ben al di sopra dei giardini, dove svolazzano piccoli uccelli domestici, offrono la loro benedetta e fresca ombra in mezzo a questa accecante e calorosa luce.

Ecco ancora apparire altre costruzioni, esse si presentano adesso quasi gigantesche. Ciascuna di essa ha l'apparenza di una sontuosa villa, am-mirabilmente ricca e bella, lussuosa ed artistica. Tra di esse citiamo le terme, centri di vita sociale e politica, dove tutto concorre al benessere e favorisce l'oziosità.

Vicino a tali stabilimenti vi sono dei teatri, degli anfiteatri, dei circhi all'aperto dove si ergono verso il cielo, per servire da "Metae" e da punti di riferimento nelle sfrenate corse, alcuni secolari e sereni obelischi, fatti venire via mare, fin dall'Egitto lontano e recentemente conquistato. Nell'azzurro più elevato planano delle aquile maestose che sembrano re-stare immobili nello spazio. Più in basso, e forse al seguito delle marce militari delle coorti e delle centurie sotto le armi, si vedono svolazzare pesantemente alcuni stormi di nerastri corvi. Il rumore, l'umido vapore, le trasparenti ed aeree ondulazioni della calura si alzano contem-poraneamente dai campi e dalla città verso l'etere, per completare questo inno fantastico, questo meridiano splendore romano imperiale.

Gli animi si gonfiano d'orgoglio e sono quasi inebria ti da tali sensazioni. Alcuni patrizi, a fronte alta, si fermano ed assumono pose di sublime fierezza.

Una singolare comprensione delle forze invincibili della supremazia e della dominazione universale ed eterna si sprigiona da questi esseri viventi, da queste potenti opere d'arte nonché dagli elementi di questa grandiosa natura, perché è il momento più solenne dell'umanità, arrivata al culmine della sua grandezza.

 

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Comunicazioni e strade imperiali

(Le vie consolari … la via Appia)

 

 

L'impero romano , per ingrandirsi sempre di più e per controllare più agevolmente i territori conquistati, ebbe l'esigenza di costruire una capillare e funzionale rete stradale che collegasse capillarmente ogni punto strategico del territorio sottomesso.

A tal fine vennero costruite , soprattutto dai consoli che governavano in quei tempi, delle strade apposite che divennero grandi arterie di comunicazione stradale in Italia e all'estero.La via consolare più famosa che si dipartiva da Roma( ancor oggi in funzione ) era denominata la via consolare Appia ( dal nome del console costruttore Appio Claudio ).

 

Una via esce dalla città essa si snoda attraverso i campi davanti ad eleganti abitazioni, giù, giù fino alle pianure albane : è la Via Appia. Il suo tragitto è segnato in lontananza dalla bianca polvere sollevata continuamente dalla numerosa folla che si accalca su di essa.

E' in effetti una grande via di comunicazione e pari menti il luogo della passeggiata preferita : essa è de marcata , in lungo , da numerosi monumenti funerari di gente patrizia o semplicemente di persone arricchitesi che hanno voluto gareggiare con questi patrizi in opere di pietà, di ricordo e di vanità. ( b )

 

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( b ) : La Via Appia

La più antica strada romana, detta dagli antichi "regina viarum", la famosa via Appia .

Essa ha avuto il nome dal censore  Appio Claudio Cieco che ne ordinò la costruzione nel 312 A.C.

Dapprima arrivava, con un piano battuto e massicciato, fino  a Capua, poi fu prolungata fino a Benevento ( dopo il 268 a.C.),  a Venosa  (190 ca.) e infine fino a Taranto e a Brindisi  dove due colonne di cipollino, ancora esistenti, segnavano l'estremo limite.

Pavimentata in origine con blocchi di tufo e, in seguito, con blocchi poligonali di lava basaltica, l'Appia fu restaurata e  abbellita da vari consoli e imperatori tra cui Traiano, che  costruì un nuovo tronco da Benevento a Brindisi. Nei luoghi più frequentati la via aveva, ogni sette o otto miglia, stazioni per l'alloggio e il cambio di cavalli.

Altre vie si dipartono da Roma prendendo differenti direzioni:esse per-mettono l'entrata e l'uscita dalla città a numerosi ed attivi suoi abitanti nonché a quel li del circondario. Essi sono cittadini, funzionari, militari, paesani e schiavi, che si incrociano per via con i loro svariati carri ed i loro approvvigionamenti.

Sopra i loro basamenti che le fiancheggiano si ergono ugualmente dei sepolcreti ma essi sono di minore importanza di quelli dell'Appia, la preferita dai potenti e dai ricchi. Questa è la grande arteria che fa scorrere il sangue e dà la vita a Roma e che riceve i palpiti immediati del suo cuore.

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Ai lati sorgevano numerosi monumenti funebri tra cui la  tomba di Cecilia Metella e quello di Cotta (Casal Rotondo)…

All'Appia convergevano diverse strade tra cui la "Via Latina"  e la "Via Domiziana". La strada che collega la città di Latina con la  sua  stazione ferroviaria chiamata "via Epitaffio" ed è stata così denominata a  causa  di  una iscrizione commemorativa collocata nei  pressi dell'incrocio con la VIA APPIA . Tale  iscrizione, posta a commemorare l'avvenuta  bonifica  della zona da parte di Pio VI, così recita:

"  Per ordine di Pio VI, Pontefice Massimo,il  tratto  dell'Appia verso Piscinara, che le acque stagnanti avevano interrotto, è stato congiunto da ponti e rinforzato negli argini. Anno 1786".La località Tor Tre Ponti era un'antica "statio" romana denominata "Tripontium" ed era situata lungo la via Appia,  precisamente al km.66,4. La  zona da Tor Tre Ponti fino a Terracina fu fatta  bonificare dal  citato papa per poter riutilizzare la Via Appia nel suo percorso originario, molto più lineare in confronto della più tortuosa via Pedemontana.

A Tor Tre Ponti si può tuttora visitare una chiesa dedicata a S. Paolo , progettata nel XVIII secolo  dall'ing. G.Rappini  che riutilizzò per essa un altare risalente  al  1572.

Tale dedicazione venne pensata in ricordo del passaggio in  questa zona  di tale glorioso santo apostolo, come si può leggere sulla lapide posta nell'androne della chiesa. Per programmare il dettagliato progetto tecnico di bonifica  papa Braschi,  cioè Pio VI, pensò di recarsi di persona a  visitare  i luoghi paludosi e preparò un apposito soggiorno presso Terracina.La sera dell'8 aprile 1780 il pontefice giunge a Terracina e  vi soggiorna fino al 19 dello stesso mese, ospitato nel sontuoso Palazzo Vitelli.Il papa, attraverso i suoi tecnici, voleva soprattutto e  innanzitutto indicare le linee guida per la direzione della bonifica  di un vasto territorio situato a Nord di Terracina.I lavori di bonifica non furono né rapidi né semplici e durarono una ventina di anni, tutti spesi in un completo riassetto della via Appia tramite la ricostruzione di stazioni postali a Tor  Tre Ponti, Bocca di Fiume e Mesa, il completamento del canale "Pio VI" e la creazione di una "nuova Terracina". Tale  città doveva diventare, nei disegni del papa, il centro  del nuovo comprensorio bonificato.

La via Appia :

testimone di grandi avvenimenti sacri e profani

La via consolare Appia, di per sé famosa per l'immane lavoro impiegato nella sua costruzione e realizzazione, è divenuta sempre più famosa nel tempo per essere stata testimone di grandi eventi storici, più o meno sacri o profani, che si sono svolti lungo il suo percorso, soprattutto nelle miglia più vicine a Roma , centro dell'impero romano e della nascente cristianità.

Al tempo delle prime persecuzioni neroniane contro i primi cristiani romani percorse la via Appia anche San Pietro che , fuggitivo da Roma, ebbe un incontro molto particolare in un luogo che ancor oggi ricorda tale avvenimento . . . . .

 

E' all'uscita della città che, su questa via Appia, s'è compiuto un memorabile avvenimento del nascente Cristianesimo.Pietro, nuovo Enea, qui arrivato per fondare l'impero spirituale ed interminabile, era entrato in Roma per correndo questa passeggiata preferita dai ricchi cittadini. Quando l'inumana persecuzione di Nerone arrivò al culmine di crudeltà, Pietro cedette alle istanze dei suoi proseliti, che volevano saperlo in luogo sicuro, e quindi tentò la fuga dalla città.

 

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 La Via Appia, arteria di comunicazione che attraversa tale zona, era  allora un vecchia via consolare dell'epoca romana  che  però era stata costruita con tecniche tanto valide da poter essere riutilizzata per quasi tutto l'antico tracciato. La grande via  aveva conosciuto lunghi momenti di tristezza, quando affondò nella palude, abbandonata  nel fango e tra le erbacce che  la  ricoprivano, praticamente scomparendo dalle carte stradali dell'epoca e  sostituita dalla via Pedemontana.

Trascorsero quindi quasi nove  secoli prima che il papa Pio VI la riscoprisse durante i lavori di  bonifica da lui promossi.Grazie a questo intervento di opera sociale tornarono allora alla luce dei lineamenti e dei monumenti  vecchi di secoli e la via consolare, caduta nel dimenticatoio dei secoli, riacquistò quasi la sua superba fama di "Appia regina viarum". 

Ma ai primi passi che fece fuori dalle mura, forse di mattino presto quando canta il gallo, gli apparve il suo divino Maestro.L'apostolo, riconoscendosi colpevole di una nuova debolezza,lo apostrofò con tali semplici parole: " Domine , quo vadis ? " " Signore, dove vai? "

" Eo Romam, ut iterum crucifigar." " Vado a Roma per essere di nuovo crocifisso ", rispose la persona che gli era apparsa.

Pietro comprese, tornò sui suoi passi in mezzo ai suoi compagni di fede e consumò il sacrificio della sua vita. Fu così che si decise l'elezione di Roma come altare e seggio della novella religiosa fede.

 

Oltre a questo evento cardine della storia cristiana , la nostra via consolare ospita ancora vestigia architettoniche legate al mondo classico e alla Roma pagana repubblicana ed imperiale ; nomi a noi molto noti riecheggiano nei paraggi delle prime miglia dell'Appia.

Nelle vicinanze di questo miracoloso luogo, di fronte ad una via traversa, si erge il monumento dei grandi Scipioni, detti "fulmini di guerra".

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Oggi  infatti l'Appia è ancora la bella strada di un tempo,  anche se possiamo solo intravvedere la sua gloria passata dalle sue  vestigia artistiche quasi scomparse.

La strada scivola velocemente tagliando a metà un paesaggio " molto  pittoresco":  le verdeggianti e lussureggianti  carciofaie  di Sezze  e di Priverno, i lindo uliveti che s'arrampicano sul  monte Leano, i platani che da Fondi si avviano verso le gole di Itri, le rocce brulle ma dolci degli Aurunci, fino ai panorami marini, alle lampare notturne, alle nebbioline che s'alzano appena dal mare nei giorni di calma.Anche le origini di Cisterna sono legate alla storia della Via Appia..Si  suppone  che essa sia stata edificata sulle rovine  della  località chiamata "Tres Tabernae", resa famosa per il primo incontro  della comunità cristiana di Roma col grande apostolo delle genti, Paolo. Molti  studiosi sup-pongono che tale città abbia preso il nome da Cisterna  di Nerone, col quale fu chiamata, per lo scavo che questo imperatore iniziò nel tentativo di prosciugare l'Agro Pon-tino.Grazie alle opere di bonifica volute da papa Pio VI il tratto pontino  della via Appia, quello che va da Cisterna a Terracina,  rinacque dopo quasi un millennio di abbandono e di insano  impaludamento.

 

L'uno trionfò su Annibale, l'altro invece pose fine al la secolare guerra contro Cartagine che egli distrusse fino alle sue fondamenta.

Scipione l'Africano, detto anche il Vecchio, pieno di rancore verso la sua patria ,nei suoi riguardi ingrata, aveva deciso che le proprie spoglie mor-tali fossero sepolte privatamente nella sua città di Literno. La sua volontà non fu rispettata affatto. Una seconda dimenticanza dell'ingrata Roma ha nuovamente permesso che le ceneri del grande condottiero, recentemente scoperte, fossero raccolte da un senatore veneziano: costui le ha sistemate per farne sfoggio nella sua villa di Alticchiero, nei pressi di Padova. E' qui che esse oggi riposano.

 

(Ripostelli, La via Appia).

 

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Per portare a compimento l'opera di ristrutturazione, di imponente dimensione,  vennero sfruttati un gran numero di  galeotti  dello Stato Pontificio. Dapprima essi dovettero liberare la carreggiata da un immane groviglio di rovi, piante e alberi che l'avevano sepolta completamente. Di poi essi furono impiegati a costruire  una nuova  massicciata, a dragare e allargare il canale Linea, ad  abbattere ponti di poca solidità e sicurezza e a ricollocare le pietre miliari. Alla fine dell'ingente fatica la strada rinacque e sul suo percorso vennero curati i punti di posta.

Il 1° novembre 1789 venne inaugurato tale nostro segmento  pontino dell'Appia.

Per l'occasione si fece partire da Cisterna una apposita diligenza che facesse visitare i luoghi appena bonificati.

Su  tale mezzo di trasporto presero posto solo pochi  privilegiati passeggeri che per tale insolito viaggio pagarono ben 80 baiocchi come prezzo della corsa inaugurale.

Tra i visitatori della campagna romana attraversata dalla via  Appia  possiamo ricordare il famoso Johann Wolfgang GOETHE  che  nel novembre  del 1786, dopo aver visitato Roma, si spinse nella  zona circostante lungo la "regina viarum", per attraversare e visitare i risorti siti del tempo classico romano.Il R.A.C.I. (Reale Automobil Club Italiano) nel 1930,  pubblicando la relazione sullo stato delle strade in Italia, sconsigliava gli automobilisti di attraversare la regione pontina, durante la  stagione invernale, perchè il viaggio poteva trasformarsi in  un'avventura. Il lungo tratto dell'Appia, l'unica via statale allora esistente, da Casal delle Palme e Ponte Maggiore, era tratteggiato sulle cartine stradali come "fondo irregolare" perché la palude, nei  mesi autunnali ed invernali, veniva lentamente a ricoprirlo.

La  via andava completamente sott'acqua e diventava praticamente intransitabile in diversi suoi punti . Soltanto con i primi soli e tepori primaverili la strada veniva a riemergere insieme ai campi coltivati.

 

Quando ci si dirige verso il Sud di Roma, si scopre, a destra della via Appia, la prima colonnina miliare; essa costituisce la prima tappa per i viaggiatori e per le marce militari. Molto vicino a tal sito si erge l'arco trionfale di Traiano, di cui non resterà il benché minimo vestigio nei tempi moderni. I monumenti si susseguono ora senza interruzione. A sinistra, pro tetto da un bosco sacro, si può notare il sontuoso tempio di Marte, dove sono celebrati i sacrifici delle legioni che partono per la campagna militare; i vincitori, al loro ritorno, ritornano qui per offrire dei do nativi e dei ringraziamenti agli dei che li hanno protetti. Dopo aver attraversato un altro arco, quello di Venere, di stile simile al primo, si entra nel Campo di Marte, attraversato da un fiumicello, l'Almone.

E' proprio da qui che partono le parate militari e sempre qui si radunano le milizie trionfanti al ritorno della guerra, per potersi contare e per riordinare le fila, prima di fare solenne ingresso nella città, percorrendo le principali sue vie. Il Campo di Marte può contenere almeno cinquemila cavalieri: E' il numero fisso per la annuale processione dell'Onore e della Virtù, processione che avanza in or dine solenne sotto i raggi del sole e sotto il calore di luglio per andare a deporre un ultima offerta nel tempio di Castore e Polluce, nei pressi del Foro Roma no. Nel modesto ed angusto ruscello di Almone, che, appena sgorgato, va a perdersi nel Tevere, si compiono le solenni abluzioni delle sacerdotesse di Cibele, "Magna deorum mater" ( La grande madre degli dei ), dea della terra, sposa di Saturno e sorella di Oceano. I pontefici vengono annualmente da Roma, recando con sé l'effigie della divinità, per immergerla nelle acque dell ' Almone, seguendo dei sacri rituali.

 

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Essa li resecava di nuovo, dividendo quelli posti alla sponda sinistra del fiume Sisto da quelli che fiancheggiavano la linea  pedemontana dei Lepini. Erano quelli i tempi in cui cominciavano appena a circolare i primi  automobilisti e il regno di tutta questa nostra campagna  era ancora  in mano ai contadini ai pastori ed ai carbonai,  che  controllavano da generazioni il flusso della palude, sapendone riconoscere il suo lento respiro.

La brezza, in questa stagione, porta un’aria olezzante i cui profumi provengono da un recintato podere che si scorge tra la via Ardeatina e L’Appia. E’ il cosiddetto "Fundus Rosarum", podere delle rose, religiosamente recintato ed a cui non si richiede altro che la produzione di olezzanti fiori destinati al culto di Cibele. Il tempio della dea si erge sul colle Palatino ed è visitato da devoti patrizi, molto assidui nel culto.

La lunga serie dei sepolcri continua ancora. I marmi emanano dei riflessi dall’ una all'altra parte della strada. Ci siamo incamminati di molto sulla regina delle vie, cioè sulla "Regina Viarum".

Essa merita ancora un altro epiteto, quello di via retta, diritta. In effetti la si scorge assottigliarsi come un filo fino in lontananza: essa s'inerpica sulla salita del monte Albano e sparisce alla vista , sempre diritta e fian-cheggiata da bianchi edifici che si al ternano con numerosi tumuli funerari. Tale via è il più ricco e il più prezioso ornamento della campa-gna. I liberti di Augusto qui hanno il loro colombario particolare: questo consiste in una classica costruzione con portico e colonnato, in stile greco: all'interno vi sono non meno di tremila nicchie destinate ad accoglie re le ceneri di quelle persone la cui posizione civile e le cui cariche pubbliche furono dovute al favore del grande imperatore Au-gusto. Nelle sale superiori vi si celebrano i riti mortuari di comme-morazione.

Presentemente noi ci troviamo davanti alla seconda colonna miliare: ecco ancora alcuni monumenti di collettiva istituzione, quelli della ricca e nobile famiglia Voluzia, quelli dei Cecilii e di molti altri che rivaleggiarono vanità per onorare i loro liberti e i loro protetti.

Noi troveremo ancora numerosi sepolcri, simmetricamente disposti:le loro forme severe, i loro resistenti materiali ( marmo, granito, onice, e porfido ) brillano sotto l'accecante luce; ben presto però il sole, nella sua continua corsa, sembra nascondersi dietro i ci pressi, i bossi e gli olmi ;

le ombre scompaiono e gli occhi affaticati del viaggiatore possono ora riposare. la carreggiata ed i marciapiedi della via, pavimentata da grandi lastricati di basalto poligonale, servono per la passeggiata degli oziosi e per permettere il passaggio della truppa militare e del commercio.E' un continuo andirivieni di pedoni,di carretti di varia forma, di cavalieri, di lettighe trascinate da quattro schiavi seguiti da altre riserve . Venditori importuni, indigeni e stranieri, mendicanti ed indigenti, eleganti giovanotti ed umili disoccupati, tutti si incrociano e si urtano, scavalcandosi ad ogni istante. Questo formicolio viario di vita e di necessità si allunga davanti i sepolcri pagani che si ergono muti, non comunicando ai passanti né una sola idea né una sola speranza. Ma ecco il tempio del dio Silviano, guardiano dei campi e dei boschi, protettore de strade e dei monumenti: dio selvatico e rozzo cui le donne non hanno il diritto di of-frire sacrifici.E' proprio lui che si prende una cura speciale del fitto bos-chetto di fronzute querce, posto nel mezzo della pianura.

La ninfa Egeria aveva scelto questo sacro luogo per intrattenersi con Numa Pompilio e per dettargli i suoi saggi e religiosi precetti. Verso la metà del secondo miglio , su una rotonda collinetta, si erge, tutto maestoso e massiccio, il superbo sepolcro cilindrico di Cecilia Metella.

Un fregio marmoreo circonda la sua parte superiore, avente in rilievo dei crani o teste di bue, adorne di eleganti festoni.

Oltre gli emblemi ed i trofei si scorge sulla facciata principale una targa di marmo con un'iscrizione che dovrà resistere fino ai tempi moderni.

Essa ricorda la consacrazione e la dedicazione del monumento in questi termini :  

" Coeciliae / Q. Cretici. F./ Metellae. Crassi. "

( " Q. Crasso Cretico dedicò a Cecilia Metella " )

Il padre di Cecilia fu soprannominato "Creticus" per aver sottomesso, in qualità di proconsole, l'isola di Creta: questo nobile fatto gli procurò così l'onore del trionfo. Questa distinta e nobile romana aveva perduto suo marito nella guerra contro i Parti: questo è tutto ciò che si conosce di lei; forse la sua grandezza derivava dalle sue virtù, dalla sua bellezza, dalla sua fortuna? Che triste destino! Il suo ricordo è a noi giunto solo perché le sue spoglie furono affidate alla più resistente delle tombe romane, già conosciuta ed ammirata molto prima dell'era cristiana.

Dopo questo imponente sepolcreto, che domina tutta la via, si vedono allineati in nuova serie, diversi tumuli, di piccoli templi, delle colonne sormontate da statue o da semplici busti, degli obelischi, delle piramidi e dei grandi sarcofagi, la cui costruzione sembra voler sfidare i secoli.

Nei pressi del quinto miglio della via Appia venne innalzato anche il sepolcro di un grande filosofo neroniano , il famoso Seneca , che coerentemente ai suoi principi di vita, preferì suicidarsi piuttosto che subire l'onta di un ' ingiusta condanna a morte.

Uscendo da Roma si incontrano inoltre anche altre famose e nobili sepolture o residenze principesche dell'età romana , sempre relative a famosi personaggi storici.

Dopo il quinto miglio ci imbattiamo in un sepolcro soprelevato, adorno di bassorilievi e di ricche composizioni ben combinate tra loro: è lì che riposa Seneca, filosofo di Cordova, precettore e maestro di Nerone. Questa zona della Regina Viarum era particolarmente ricercata dai Romani in villeggiatura: ugualmente Seneca possedeva una villa in questi paraggi. E' là, nel riposo ozioso della campagna che riceve l'an-nuncio della disgrazia che l'imperatore gli aveva inflitto. Egli partì su-bito per Roma. La certezza dell'ingratitudine suo imperiale allievo gli fu confermata dal tribuno delle milizie, Granio. Tornando alla sua villa , durante il pranzo di famiglia, il filosofo si tagliò le vene e spirò tra le braccia della sua donna Pompeia Paolina e le sue due figlie.

La carreggiata, nel suo lungo percorso, è sempre animata, abbiamo visto, dal traffico di commercianti, così come la via fluviale , che conduce

al mare, è ingombra di svariate imbarcazioni che fanno vela procedendo a forza di remi. Qui sulle rive del Tevere si ergono del le villette co-struite tra i boschi ed il fiume. I margini dell'Appia sono fitti, invece, di una serie di sculture e di marmi funerari; vi si ritrova la più grande animosità congiunta ad una brulicante confusione: ciò è dato dalle grida dei carrettieri, dai richiami e dalle segnalazioni di amici che incontrano altri amici, dal fracasso delle ruote dei veicoli .

Mentre invece sul quieto fiume, lungi dai sepolcri, si naviga pressoché, in silenzio: non si ode che la voce del nocchiero ed i canti dei marinai che si spronano tra loro mentre remano. La diritta linea della via Appia, dopo il quinto miglio, compie una strana deviazione: si inclina di colpo su di un fianco, come per scansare un ostacolo insormontabile; ciò non è affatto causato dalla natura del suolo, perché, non esiste né montagna, né roccia, né crepaccio od avvallamento da evitare .

Il tracciato rettilineo dell' inflessibile console Appio Claudio si è scontrato con le antiche sepolture degli Orazi e Curiazi ed ha dovuto deviare per evitare uno storico sacrilegio che avrebbe potuto compiere distruggendo queste tombe solo per conservare un retto allineamento di strada. Proprio qui dunque ebbe luogo il memorabile combattimen-to di tre nobili guerrieri contro tre altri loro pari e non meno gloriosi, l'esito del quale fu il trionfo di Roma che a quei tempi cominciava il delicato e pericoloso percorso della sua grande espansione. Tito Livio de-scrive minuziosamente questo duello: i tre Orazi, campioni di Roma, ed i tre Curiazi, che gareggiavano per Albalonga, avevano marciato, gli uni contro gli altri, per venire alle armi. Due degli Orazi erano caduti morti al primo impatto e due degli Albani erano comunque gravemente feriti . L'ultimo sopravvissuto degli Orazi mise così in atto uno stratagemma: egli scappò fingendo una fuga.

I Curiazi lo rincorsero, uno distante dall'altro, con una corsa che gli era permessa dalle proprie forze. Il Romano, scaltro e valoroso, tornò sui suoi passi, li attaccò uno alla volta e finì così per uccidere i suoi avversari in presenza di due armate che l'angoscia aveva reso silenziose. Da quel giorno Albalonga fu sottomessa e Roma restò, senza seria concorrenza, dominatrice sovrana del Lazio.

Per onorare i sei combattenti, considerati giustamente degli eroi, li si sep-pellirono in sepolcri quasi sacri, eretti sullo stesso luogo del loro glorioso trapasso. Si possono scorgere questi illustri sepolcri, quando si cammina sull'Appia, un poco scostati a destra della via.

Essi hanno saldi basamenti circolari come costruzioni di guerra; emblemi e statue li sormontano. Tali sepolcri si fanno notare per la loro vasta dimensione e per la loro ricchezza. In segno di una pia venerazione, inoltre, sono stati circondati da un sacro bosco che è vietato oltrepassare, del quale non resterà che qualche albero nei nostri tempi moderni . Più in lontananza vediamo distaccarsi gli eleganti padiglioni ed il pe-ristilio della sontuosa villa dei Quintili, famiglia potente e valorosa, di nobile origine albanese. Un ninfeo, decorato con graziose raffigurazioni, riflette le sue fini sculture ed i suoi chiari mosaici nelle tranquille acque del lago artificiale: al di sopra delle folte cime degli alberi si distacca il tetto del tempio privato, consacrato ad Ercole. Le forti attrattive di questa proprietà dovevano fortemente suscitare l'in-vidia e la rapacità dell' imperatore Commodo. Per impossessarsi così di altre ricchezze l' imperatore decretò la morte del ricco patrizio e la confisca di tutti i suoi beni . Stessa sorte doveva toccare a tutti i discendenti di Quintilio , accusato peraltro del crimine di essersi fatto iscrivere nella religione cristiana. Per terminare infine la serie dei ricchi sepolcri, il cui merito era quello di essere vicini a Roma, ci fermiamo al sesto miglio e contempliamo il mausoleo di Messalino Cotta, più vasto e più imponente di quello di Cecilia Metella. La sua massa imponente, a forma di cilindro tronco, rivestita da chiari marmi, e non priva di una certa arcaica eleganza, si distingue da ogni punto della campagna. Questo sepolcro è adorno di bassorilievi con maschere teatrali; queste decorazioni si ripetono alternativamente con graziose scene di Nereidi.

Ci sono dappertutto delle colonne corinzie che sostengono piccoli arcadi; dei candelieri in bronzo ed altri attributi finemente ornati esaltano la memoria dell' illustre Messalino Cotta, console ai tempi di Tiberio, uomo ricco ed influente, oratore e raffinato poeta. Tutte le ricchezze e le magnificenze di questi monumenti, dai più importanti a quelli più umili, sottolineano il carattere di una bellezza unica ed incomparabile di cui gioisce con vanto la via Appia. Quanto sono belli a vedersi infatti, tali monumenti, sotto la risplendente luce meridiana del giorno romano!

Gli arbusti ed i fiori, che li circondano e li incorniciano, donano più risalto alle loro forme classiche e fanno meglio distinguere i loro tenui e chiari colori. Ma ciò che finisce di dare una squisita grazia a tutto questo insieme è lo splendido panorama formato dall'orizzonte dato dalle montagne laziali: esse appaiono sempre azzurrine, anche se viste a breve distanza, e i loro fianchi sono opulentemente rivestiti da oliveti e da vigneti che si toccano e si confondono. Dal lato opposto, là dove si estende la pianura del Te vere, la decorazione si riveste di nuvolette leggere e di brume fresche e trasparenti, che si diffondono sia planando sul mare sia correndo al di sopra della vallata: esse donano l'ultimo tocco al caratteristico fasci no di questa incomparabile contrada romana. Durante il tempo in cui il Cristianesimo ha cominciato a svilupparsi (nonostante le persecuzioni ed i sacrifici dei martiri, fonti veraci della sua vita e della sua gloria ) , la via Appia ha dovuto essere testimone più di una volta delle sue manifestazioni; essa gli ha di certo fornito facilitazioni di comunicazione offrendogli le ville dei patrizi ultimamente convertiti. Abbiamo già visto Pietro, sul punto di scappare, incamminarsi precipitosamente sulla grande arteria e restare qui sorpreso dalla meravigliosa apparizione di Gesù. Ripreso e fortificato dal monito del Maestro l'apostolo tornò sui suoi passi per lottare di nuovo e morire.

L'arrivo di San Paolo a Terracina

Dopo le figure classiche di Roma, dopo la figura cristiana di San Pietro ,la via Appia ospita un'altro cardine del cristianesimo ,l'apostolo Paolo che , sbarcando a Terracina, si incammina lungo l'Appia per incontrare San Pietro, volendolo assistere nella sua missione spirituale di evangelizzazione della Roma pagana.

Paolo, l'altro cardine di questa religione, sbarca a Terracina ed accorre per assistere Pietro nella conquista spirituale della metropoli. Egli provò la gioia di trovare dei simpatizzanti e proseliti romani che erano venuti ad incontrarlo fin presso la posta di Foro Appio, a circa quaranta miglia da Roma . ( g )

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( g ) : " FORUM APPII " :

Un'antica stazione dell'Appia

 

Lungo la via Appia antica , precisamente a circa 70 Km da Roma, si incontrava un'importante "Statio" di ristoro e di rifornimento denominata "Forum Appii". Tale stazione viaria, di per sé già importante per la sua strategica collocazione tra Roma e Napoli, divenne molto più importante ed illustre per il fatto di aver ospitato l'incontro tra S. Pietro e S. Paolo nel 61 d.c.( Atti 28, 15 ) . Secondo il brano biblico infatti S. Pietro venne incontro a S. Paolo apostolo mentre questi sostava nel Foro di Appio ( ed a Tripontium - Tor tre ponti ) durante la marcia di avvicinamento a Roma : " I fratelli di là, avendo avute notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a dio e prese coraggio".

Questo fatto, così rilevante per l'origine delle prime comunità cristiane del territorio pontino, diede grande lustro a questo sito romano tanto che il seme del cristianesimo attecchì rapidamente e portò alla costruzione di un importante luogo di culto. Tale edificio cristiano risulta ancora esistente nelle carte del XVII secolo : secondo " Le carte del Lazio" raccolte dal Frutaz ( tav. 84 ) un "casarilium Sanctae Mariae" era ubicato nei pressi di Foro Appio , che attorno a sé raggruppava una proprietà abbastanza consistente. Tale casale logicamente prendeva il nome dall' omonima chiesa esistente nel piccolo centro urbano ed era dotato di strutture abitative che andavano sempre più espandendosi.

E' con questi che egli entrò in città per costituirsi come prigioniero per tutta la durata del suo processo. La sua predicazione non fu per questo affatto interrotta e non cessò di provocare continue conversioni, tra cui si annoverano quelle dei suoi stessi carcerieri e di alcuni funzionari dello stesso palazzo imperiale.

 

L'apostolo Paolo, arrivato al culmine della sua missione, pagò il suo impegno missionario con il "naturale" martirio cruento.Sulla via Ostiense l'Apostolo delle genti pagane venne decapitato con una sciabola. La sua testa mozzata, secondo cristiana tradizione, rotolando a terra, diede origine a tre polle di acqua, che zampillando sempre più potentemente formarono tre piccole fontanelle.Tale luogo, per questo motivo, venne subito denominato con l'attributo delle "Tre Fontane".

Il luogo di sepoltura di San Pietro, crocifisso a testa in giù (secondo il suo volere) sul colle vaticano, è diventata la sede spirituale più famosa del mondo , avendo ospitato immediatamente la cattedra papale del cristianesimo e quindi la relativa città del Vaticano.

 

Si ben conosce come egli fu decapitato, contemporaneamente alla morte di Pietro, sulla via Ostiense, tra la Laurentina e l'Ardeatina: in questo sito si erge ai nostri giorni la chiese detta delle Tre Fontane. In questo stesso tempo il capo degli apostoli veniva crocifisso ai piedi del monte Vaticano. Dopo la decima pietra miliare, i bianchi sepolcri, i monumenti e le ville, sparse qua e là, non hanno più una disposizione ben ordinata, cosa ben differente da quella che fin qui si osserva; non è questa infatti la parte più importante della strada: noi l'abbiamo già percorsa prima. Nondimeno si notano sempre delle case di piacere davanti le quali passano gruppi di passeggiatori e di gente d'affari .

Il terreno comincia a mostrarsi come se dovesse quasi incorporarsi alla montagna e così formare un ' intima parte degli antichi e saldi basamenti dei monti laziali. Se si prova a guardarsi indietro si ergono di nuovo i lontani bagliori e la bianca distesa dell'Urbe, sempre ricoperta da una bruma di fumo, da polvere e da vapore che il flebile venticello non riesce a dissipare. La città appare solidamente posta sui sette colli, estendendosi magnificamente in tutte le sue direzioni: essa ha l'aria di essere saldamente posta e stabilizzata per sempre al centro di questa pianura che rappresenta il mondo verso cui essa si estende, tanti sono i rigidi tentacoli, le numerose vie che si dipartono dalle sue mura e si slanciano in tutte le direzioni. La dominazione, la potenza, l'impulso e la spinta in avanti sono altrettante sensazioni provate in modo irresisti-bile alla vista di tale spettacolo. Ci si ritrova di nuovo soggiogati, e si fa presto a riconoscere apertamente questa forza e questa vita, che distribuiscono egualmente le loro irradiazioni a tutta la terra nel tempo e nello spazio.

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Noi comunque l'abbiamo già constatato, non è affatto unica questa stra-da che abbiamo percorso fino alle pendici dei monti albani e che si prolunga a sud dell'Italia per condurre ai porti del mare della Magna Grecia. A guisa di raggi di una bianca stella, che si irradiano su di un ver-de campo, allo stesso modo altri percorsi partono da Roma e portano vitalità in tutto il Lazio e nella circostante campagna .

 

Tutte le altri grandi strade che si dipartono da Roma hanno anche loro ospitato luoghi ameni legati ad edifici pagani, religiosi o residenziali, che sono rimasti nelle nostre classiche memorie.

Tanti borghi, tanti paesi e tante superbe città moderne, si sono evoluti lungo le vie di comunicazione che si dipartivano da Roma.(d )

 

 

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( d ) : Antiche Strade Romane (Tutte le vie dell'Impero)

 

I nomi delle strade romane rivelano spesso la loro funzione originaria:

la via "Salaria" era destinata ad una funzione commerciale cioè al trasporto del sale dalle saline presso la foce del Tevere verso l'interno della penisola.

Sull'"Argentea", in Iberia, si svolgeva il traffico del prezioso metallo.Altre vie erano identificate, invece, dall'area geografica in cui avevano la loro origine o il loro termine:così la via Ostiense da Ostia, la via Ardeatina da Ardea, la Labicana da "Labicum", la Gabina da "Gabii", la Collatina da "Collazia", la Tiburtina da "Tibur", la Nomentana da "Nomentum".

La via Iulia Augusta, poi Aurelia, che giungeva fino ad "Arelate" (Arles), portava dall'Italia in Gallia e da qui proseguiva verso la Spagna, con il nome di Domitia Augusta fino a "Tarraco" (Tarragona). Altre strade scendevano dai valichi del Monginevro e da quelli del Piccolo e Gran San Bernardo. Le vie romane erano scandite dai "miliarii", che numeravano dall'inizio le miglia percorse e recavano, oltre al numero, i nomi dei consoli o degli imperatori che avevano deciso la costruzione della strada stessa . L'esecuzione delle grandi opere stradali fu sempre una questione di prestigio e testimonianza dei livelli di autorità , potenza e civiltà che, quasi sempre, seguirono o anticiparono gli avvenimenti storici principali e lo sviluppo dell'Italia e delle province romane , al pari delle grandi

Tra la via Appia e il Tevere corre la via Ostiense che permette il viaggio verso il litorale. Attraverso tale via si effettua il tra sporto delle mercan-terie destinate ad essere in breve tempo vendute e che sono accompa-gnate dai commercianti stessi e dagli industriali che le sorve-gliano con costante vigilanza. L'antica via Laurentina si diparte da quella Ostiense nei pressi del quarto miglio. In questa zona la campagna altro non è che un vasto pianoro, che si distende, su una lunga fascia di terra, dalle due rive del Tevere. Se si procede ancora per qualche miglio ci si imbatte su questa via con un'elevazione di terreno, da dove la vista si estende assai bene sia sulla pianura che sul fiume là dove esso sfocia nel mare.

Si vede il Tevere, padrone del paesaggio, che descrive i suoi ampi meandri, quindi il mar Tirreno ed il suo lido di sabbia scura in cui gli schiumosi flutti giocherellano e si frangono continuamente, formando per la lunghezza del banco di sabbia, una indefinita linea bianca. Si possono contare le imbarcazioni ancorate che aspettano il turno per scaricare i cereali importati dall'Africa, e le numerose galere ordinate in allineamento ben stretto.

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realizzazioni urbanistiche e monumentali.Come testimonia il gran numero di miliarii con inciso il loro nome, furono tanti gli imperatori romani dediti alle realizzazioni di infrastrutture e di lavori stradali: Claudio, tutti i Flavi (Vespasiano realizzò il traforo del Furlo e la via Domiziana), Traiano (che rinnovò la via Appia, costruì la Traiana e le strade delle province d'Arabia e della Dacia con il celeberrimo passaggio tagliato nella roccia presso le Porte di Ferro sul Danubio ), gli Antonini, i Severi, Diocleziano, Costantino, Teodorico e Giustiniano.I ritrovamenti archeologici rivelano come molte delle vie che avevano il loro baricentro in Roma fossero di origine antichissima .

La rete stradale principale dell'impero si estendeva per un'ampiezza che viene calcolata intorno ai 120.000 Km di tracciati viarii, sorvegliati e mantenuti, lungo i quali erano disponibili tutti i servizi indispensabili per bestie, veicoli e viaggiatori. 

A questo punto del fiume, sulla destra, si estende un'isola. E' il delta formato dalle acque del Tevere che si dividono in due bracci per se pararsi e gettarsi nel mare. Essa viene chiamata l'isola di Venere. Invitati da tale padrona di casa, gli dei, al gran completo, discendono talvolta dall'Olimpo, avvolti dal più gran mistero.

Abbandonano ogni tipo di etichetta e di convenzione per dedicarsi per una notte intera alle orge ed ai bagordi. Soltanto l'aurora, con la sua pallida alba, ha il potere di richiamarli alla realtà e di restituirà loro la propria dignità. Essi allora fuggono precipitosamente e qui non tor-neranno fino a quando un nuovo appuntamento, segretamente stabilito, non li radunerà per ricominciare la stessa scappatella nella stessa gaudente isola: "l'isola sacra"!

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Le stazioni di posta (mansiones), situate alla distanza di un giorno di viaggio l'una dall'altra, erano provviste di alberghi (Hospitia), magazzini e scuderie (stabula). Presso i luoghi intermedi di tappa (mutationes), situati ogni cinque miglia ( ogni cinque mutationes doveva esserci poi una mansio ), si poteva trovare il cambio dei cavalli ed il rifornimento dei viveri.Di fondamentale importanza strategica, le strade lungo le frontiere dell'Europa Centrale erano oggetto di costante manutenzione. L'antica rete stradale romana fu un "sistema" di importanza assoluta per l'esercizio strategico dell'amministrazione dei territori conquistati e per l'affermazione di influenze politiche, economiche e culturali. Ne sono testimonianza innumerevoli ritrovamenti archeologici: inoltre lo studio delle fotografie aeree ha rappresentato uno strumento utilissimo per la individuazione dell'antico tracciato delle vie di comunicazione.Tra le grandi strade dell'antica Italia ricordiamo la via Appia, da Appio Claudio Cieco, costruita nel 312 a.C.; la via Flaminia, da Caio Flaminio, tra il 223 e il 219 a.C.; la via Postumia, da S.Postumio, nel 148 a.C.; le due vie Pomilie, una al Nord nel 132 a.C. e l'altra al sud, costruite dal console P. Pomilio. La via Appia-Traiana, la cui apertura abbreviava il percorso tra Benevento e Brindisi passando per Canosa ed Egnazia, prese appunto il nome da Traiano e venne ricordata dalla costruzione tra il 114 e il 117 di uno splendido arco celebrativo.

Dopo aver attraversato, su una lunga carreggiata, un bassofondo molto esteso, noi arriviamo alla città di Ostia, fondata da Anco Marzio, nello stesso luogo in cui Enea mise per la prima volta piede sulla terra del Lazio.Gli stabilimenti commerciali, i magazzini detti empori, le banchine di sbarco sono disposte in semi - cerchio in faccia al fiume.

La popolazione conta ottantamila abitanti che frequentano le terme, il foro, ed i magnifici teatri di questa loro città. Uno dei principali templi é quello dedicato al dio Mitra, la cui venerazione fu importata dalla Persia. Mitra è la personificazione divi della luce e della solennità del giorno, della limpidezza dell'etere e della feconda calura, fuochi di uno stesso sole: lo si invoca all'alba ed al tramonto del sole. E' un dio buono, che combatte con la sua luce inalterabile gli spiriti maligni che si nascondono in mezzo alle tenebre. La conoscenza delle sue virtù e del suo culto fu diffusa principalmente dai pirati orienta li che Pompeo aveva fatto prigionieri. La sua impalpabile figura è rappresentata da un giovanotto che conduce un torello nel tempio e che avvicina già la lama al la gola del-la vittima per poterla sacrificare. A sud di Ostia, che si è ingrandita con-tinuamente, non molto lontano dal mare, si estende già da epoca remota il famoso bosco di Laurento, terra classica che noi cono sciamo già, dove vegeta l'alloro sacro e dove visse il re Latino. La vista di tutto questo paesaggio è di una amenità che dilata l'animo. Questo circondario colpì tanto Plinio il giovane che questi vi si stabilì in una bella villa. Il luogo è ancora conosciuto e porta ancora il nome di "Laurentinum Plinii". In linea destra, verso i monti albani, la via latina si snoda avendo a termine la cima del monte Cavo, che accoglie il grandioso tempio di Giove Laziale. E' passato molto tempo dalla sua fondazione: tuttavia esso è ancor oggi circondato da monumenti patrizi e da ricchi sarcofagi funerari. Ci sono peraltro altre vie che , senza allontanarsi dallo stesso luogo, conducono ai luoghi inaccessibili delle montagne, a Tuscolo per esempio, e alle numerose ville e giardini di queste incantevoli colline. Di là si scorge la pianura come un mare vivente la cui schiuma rappresa non sarebbe altro che la lontana me-tropoli.

La via Latina inizia dalla porta Capena così come la via Appia: essa si separa ben presto dall'altra per prendere la sua definitiva direzione dopo aver circonvallato le mura della città che a questo punto inizia ad espan-dersi. Il suo nome di Latina è la migliore prova della sua antichità: essa attraversava il cuore del territorio propriamente latino per condurvi, con il tragitto più corto, i Romani stessi che in questo modo potevano facilmente sorvegliare il territorio. Si incontrano ad ogni passo dei mo-numenti funerari quasi intatti, risalenti all ' epoca di Nerone. Sembra che allora andasse di moda costruire qui tali edifici che si notano ancora oggi non tanto per il tracciato del loro stile ma per la finezza e le rifiniture degli ornamenti interni, capolavori in stucco che la posterità potrà ammirare. La strada incrocia ben presto l'acquedotto Claudio.

Al quarto miglio, sopra di un terrapieno che domina l'intera pianura, si erge il tempio della "Fortuna Muliebre". Sotto il paganesimo si potevano elaborare le più svariate concezioni o pensieri filosofici, nonché pensare una vita e dei corpi atti a stabilire un nuovo culto.

Questo tempio consacra il ricordo del luogo in cui Coriolano lasciò cadere il suo sdegno ed il suo rancore davanti alle suppliche di sua madre. Abbiamo già menzionato Tuscolo: è il paese preferito per la vil-leggiatura, il riposo. Tale città fu fondata, secondo la leggenda, da Tele-gono, figlio di Ulisse e di Circe.

Maestosa ed ugualmente ridente Tuscolo si innalza su delle colline che formano i contorni di un grande cratere spento e che noi vediamo conformarsi a nord di monte Cavo. La parte alta della città, secondo l'uso greco, forma l'acropoli .

La città si estende tutta intorno, disposta su vari piani. Ecco la famosa villa di Cicerone. La celebrità del grande oratore nobilita tutto ciò che lo colpisce: è così che Tuscolo parteciperà alla sua fama .

Si pensa che la città, di origine molto antica, fu dapprima colonizzata dai prischi latini del la bassa regione; dopo aver subito la loro influenza essa si costituirà in repubblica ed entrerà, sotto questo aspetto costituzionale, nella confederazione di strutta dai Romani nella batta-glia del lago Regillo, che si trovava nei dintorni. I Tuscolani conserva-rono pertanto una certa autonomia, godendo interamente delle qualità e delle prerogative dei cittadini romani. Questo luogo parve a tutti così bello, così gradevole e così fresco tanto da essere sempre abitato da persone ricche : essi vi conducevano una vita agiata e vi costruirono dimore lussuose quarantatré delle quali sono menzionate , con i loro nomi propri, da quei scrittori i cui racconti sono giunti fino a noi .

Il teatro è un superbo edificio: gli spettatori posso no , senza per questo spostarsi, osservare durante le recite il magnifico panorama dei campi albani, di tutta la pianura e della stessa città di Roma. Ma sono i giar-dini con le loro svariate sculture, sono i bei portici d'accesso alla città, insomma è la natura ricoperta dal manto dell'arte che dà un interesse molto speciale e dona una fama universale a Tuscolo. E' per questo motivo che tanta gente viene a visitarla e ad abitare in essa, soprattutto nella bella stagione dei fiori e dei frutti .

Mecenate, l'aristocratico protettore dei sapienti, de gli artisti e dei let-terati, grande in politica, in diplomazia e soprattutto per la sua fortuna, possedeva ugualmente una villa nelle vicinanze del paese. Attratto fortemente dalle bellezze e dalle lusinghe di queste colline egli fece do-no al poeta Orazio di una seconda proprietà di campagna, posta nelle vicinanze dei monti della Sabina, ad una certa distanza dal gruppo montuoso laziale in cui presentemente ci troviamo. Ci si arriva seguendo la via Valeria, percorso che mette in comunicazione Roma con il territorio delle Marche. Se si segue il corso dell'Aniene, costeggiando al te montagne, quasi inaccessibili, le cui cime sono presidiate da borghi fortificati, secondo le antiche usanze, noi vediamo apparire o poca distanza la città di Varia. Molto vicino ad essa e già in rovina , noi troviamo un tempio che i Sabini dedicarono un tempo alla Vittoria e la denominarono Vacuna. Vespasiano l'ha fatto restaurare ridonando alla dea il suo nome latino più conosciuto. Noi conosciamo tutti questi det-tagli grazie all'iscrizione scoperta sopra di una bianca lastra di marmo. La vallata e le colline sono dolci, gradevoli e fertili, ma i piccoli villaggi, ognuno popolato da persone sane, attive e vigorose, si presentano poco pulite e generalmente trascurate: si incontrano ad ogni istante dei maiali che circolano in libertà da padroni della strada :

" Essi si arrotolano e si avvolgono nel fango e ciò, per essi, è un modo di riposarsi, come per gli uomini è abituale farsi un bagno ".

E' lo stesso Orazio che ci racconta questo: in qualità di vicino egli deve conoscere molto bene gli usi ed i costumi di quel popolo come di tutti gli animali della contrada. Vicinissimo ad una fontana d'acqua pura e cristallina, tra lussureggianti piante di noci, di querce e di altri alberi di grande fusto, al riparo dal chiasso e dal fango del villaggio, si trova la dimora di un poeta, diritta su di un lato pianoro. Essa ha l'aspetto di una fortezza fatta di fresco. Un torrente scorre dentro un profondo letto ai piedi della collina: benché faccia un grande rumore esso invita ugual-mente a riposarsi in tranquillità ed a dedicarsi ad una ricerca poetica ed artistica. Questo rustico paesaggio è descritto da Orazio nel mezzo della lettera al suo amico Quinzio:

" Ne perconteris, fundus meus, optime Quinti, Arvo pascat he-rum, an baccis opulentet olivae, Pomisne, an pratis, an aiuncta vitibus ulmo: Scribetur tibi forma loquaciter et situ agri. Continui montes, nisi dissocientur opaca Valle: sed ut veniens dextrum latus adspiciat sol, Loevum discendens curru fugiente vaporet "

 

( Orazio, Lettera XVI , ppgg. 1-6 ).

" Affinchè non mi domandi, o eccelso Quinzio, se il domani nutre il capo dei suoi mietitori, o se lo arricchisce con le bacche di ulivo, con i suoi frutti, con i suoi prati o con l'olmo tappeto delle vigne, ti descrive-rò ora dettagliatamente il piano ed il sito del domani.

Esso è posto su dei colli che si inseguono incorniciando una valle piena di ombra: a destra il sole nascente emana il chiarore dei suoi primi raggi; a sinistra esso lo inonda al tramonto dei suoi morenti chiarori ".

Il podere di campagna non è soltanto bello: esso è dunque vasto e molto fertile. Mostrando riconoscenza verso il suo protettore Mecenate il poeta lascia che la gratitudine si esprima quando egli misura la sua proprietà che si estende dalle cime dei monti fino al bassofondo della valle dove scorre il rumoreggiante ruscello. Questi diversi scaglionamenti causano differenti esposizioni e permettono varie coltivazioni: queste ultime sono affidate alla cura di cinque mezzadri. La stessa villa ed i suoi annessi e connessi occupano il centro della tenuta: la conduzione del terreno e riservata al lo stesso poeta; egli impiega per questo otto schiavi per la fienagione ed i lavori. Sulle alture, ultimi contrafforti delle montagne sabine, brillano ad intermittenza, in mezzo a giardini fitti di alberi, le fantastiche ville di Tibur; esse sembrano cullate, sotto l'influsso della calura estiva, dal dolce murmure dell'Aniene. Le acque del fiume si frangono e precipitano in gaie e brulicanti cascatelle che si insinuano tra le fessure del terreno e le fenditure della roccia.

La romana "Tibur" non avrà la stessa sorte di Tuscolo, attualmente in disuso ed abbandonato, dimenticato, scomparso sotto le macerie nonché sepolto sotto rovi ed erbacce. Essa vivrà conservata nello stesso luogo privilegiato; soltanto il suo nome sarà modificato: si chiamerà infatti Tivoli. L'aspra e deliziosa città di Tivoli si vantava di possedere origine risalente all'antichità classica: essa si diceva essere stata fondata dai Siculi, molti secoli prima che Roma iniziasse la sua vita immortale. I poeti, che rappresentano le guide ispirate e misteriose della scienza preistorica del Lazio, fissarono questa antichità in un lasso di tempo di cinquecento anni: questo riconobbero i poeti più famosi: Virgilio, Orazio, Ovidio. Il nome deriva da Tiburto, un arcadiano ivi giunto con Evandro, il fondatore del monte Palatino: la città divenne ben presto forte, attiva e potente, senza mai essere inferiore alle altre, che, come sorelle, si ergevano sulle vicine montagnose alture:

" Quinque adeo magnae, positis incudibus, urbes tela novant, Atina potens, Tiburque superbum, Ardea, Crustumerique, et turrigerae Antemnae " .

(Virgilio, Eneide, Libro VII )

 

 

" Cinque grandi città, tutt' insieme, fanno risuonare l'incudine e forgiano le armi: la potente Atina, la superba Tivoli, Ardea, Crustumerio ed Antemne, circondata di torri."

Dopo varie peripezie Tivoli dovette fronteggiare, negli anni, l'invadente potenza di Roma che assorbiva poco a poco tutti i municipi latini; gli abitanti infine dovettero deporre le armi negli ultimi anni della repub-blica e del primo impero di Roma; la città cominciò a popolarsi di ville appartenenti a ricche famiglie romane, attirate dalle amene dolcezze di questo soggiorno. Compiutasi questa pacifica invasione , alla futura Ti voli non poté godere più che dei soli diritti d'asilo e di immunità, con i quali il Senato di Roma troncava le ultime illusioni di libertà: era questa, d'altronde, una saggia ed abile mossa politica per conquistare i cuori delle popolazioni che essi annettevano all'Urbe.

Tivoli si trova edificata su un dolce declivio, a più di cinquecento metri sopra il livello del mare. Al centro, l'acropoli, o "arce", indica chiaramente l'origine e l'influenza greca della fondazione della città; la configurazio-ne del terreno poteva da sola rendere superflua l'erezione di questa tradizionale costruzione. Il terreno, infatti, qui è molto scosceso: la citta-della, che racchiude i templi della Sibilla e di Vesta, non comunica con il resto della città se non attraverso un ardito ponte. Il tempio di Vesta, fieramente posto su un costone di una prominente roccia, domina le acque dell'Aniene; è questa la parte più pittoresca dell' acropoli : la sua forma circolare classica, con le sue diciotto colonne corinzie, si addice in modo mirabile a questo luogo, che pare essere stato sospeso a bella posta, per aggiungere bellezza e fantasia alla amorevole fondazione.

 

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Adriano, l'imperatore turista - viaggiatore, intraprende la costruzione di grandiosi edifici ai piedi della collina nei pressi di Tivoli. Il sito geografico è stato scelto accuratamente. Si è sul punto di finire una meravigliosa dimora nel mezzo di un parco al cui confronto non si è mai visto di più bello. Egli intende realizzare una sorta di compendio artistico di tutte le regioni del mondo che ha avuto la fortuna di percorrere e di governare: egli vuole insomma ritemprare il suo spirito spossato a seguito delle spedizioni contro i Sarmati e gli Sciiti e dopo aver compiuto le severe re pressioni ordinate contro i cospiratori interni dell'impero: egli intende insomma ammantare di classica bellezza il pro-prio nuovo ideale di pace, di armonia, di concordia e di giustizia.

Non è forse questo l'oblio che egli sta cercando ? Speriamo che la sedu-zione delle belle fontane artificiali, l'ombra ed il profumo delle piante, la contemplazione delle fantastiche balaustre di onice, che solo in parte nascondono la bellezza del panorama turchino, tutte queste meraviglie possano ora cancellare il ricordo del terribile eccidio da poco compiuto verso il popolo giudeo ! Cinquecentottantamila di questi disgraziati , ciechi dinanzi ai pro feti della propria stirpe, sono stati passati a fil di spada durante una rivolta scoppiata in occasione dell'erezione, ordina-ta da Roma, di un tempio dedicato a Giove Capitolino. Questo tempio doveva essere edificato su un immenso spiazzo, peraltro in sostituzione del tempio di Salomone .

 

Un castello nel cuore di Roma : dall'impero al papato

 

Un famoso monumento classico, fatto costruire dall'imperatore Adriano, si distinse subito, dentro le mura di Roma, per la sua mole e per la sua austerità. Da sede imperiale ( chiamato Mole Adriana ) passò quindi ad essere una fortezza papale , con l'appellativo di Castel Sant'Angelo ( dalla famosisima statua dell'Arcangelo San Michele che protegge il complesso architettonico ).

 

Adriano possiede il genio creativo ed inventivo e dota Roma di scuole e di biblioteche. Egli fa costruire il massiccio mausoleo ( la mole Adriana ) che, spogliato dei propri marmi ed ornamenti, diventerà il famoso Castel Sant'Angelo. Quanto a Gerusalemme, che egli a colpito a morte nel suo animo e nelle sue membra, moralmente e materialmente, Adriano vuole invece ricostruir la per farne una colonia e denominarla con il nome di Elia Capitolina. Egli fa ricostruire le fondamenta del la città di Atene e getta le basi della futura Adrianopoli. La villa che Adriano possiede presso Tivoli non è soltanto un compendio ed una riproduzione di opere delle regioni a lui sottomesse: è infatti anche un " Emporio" meraviglioso di bellezze e di ornamenti che egli ha messo insieme con gusto ed un tatto squisito dopo i la boriosi traslochi compiuti attraverso le varie provincie dell'impero, dalla Bretagna fino all'Egitto. Ecco dunque il sor-gere di una architettura marmorea, grazie ad ingegnose ed artistiche imitazioni, il Liceo, l'Accademia, il Pritaneo di Atene ed i canopi dell'Egitto. Architetti di prim'ordine si sono offerti per ultimare la co-struzione del palazzo, delle terme, dei teatri e del circo: inoltre alcuni pittori, scelti tra i più famosi dell'impero, si sforzano di disegnare curiose concezioni della vita futura che rappresentano le nozioni astratte, tanto ben accette in questo periodo storico. La palestra si trova molto vicino al teatro greco e presso quello latino che è naturalmente il più vasto.

Da lì si può passare al Ninfeo dove mille gettiti di acqua cristallina aspergono di goccioline luminose i mosaici della nicchia centrale, lasciando nel contempo delle grosse perle tremolanti e trasparenti sulle piante dei gigli , i nenufari , che riposano quieti sulla superficie dell'acqua della vasca. Per di più alcune statue e fontane, urne ed anfore si trovano simmetricamente disposte in tutti i liberi intervalli; un viale di busti, ordinati lungo un cornicione di fiori e di alberelli, conduce all'in-gresso della biblioteca greca e di quella latina; i "triclinii" scoperti si trovano lì accanto, nel posto in cui la visuale può svariare più comoda-mente verso tutto il paese. Nel mezzo di tutto quest'insieme artistico si distacca, come una costruzione a se stante, il palazzo imperiale, costruito tutto in marmo ed in stile dorico. Quest'edificio non fa affatto ombra alle altre costruzioni e non nasconde la visuale sulla campagna perché, tutto è stato concepito ed eseguito in ampie e giuste proporzioni. Le volte sono adorne di mosaici. Sul lato meridionale il palazzo è fian-cheggiato da giardini scrupolosamente curati, che invitano ad inol-trarsi verso una grande piscina preceduta da un cortile quadrato, magnifico portico di cinquantotto colon ne di marmo. Il voler descrivere tutti i dettagli della villa di Adriano sarebbe quasi fare la descrizione di un'intera città.Noi ci proveremo in un'altra occasione: entreremo allora nello stesso peristilio, in granito orienta le, che si erge nei pressi dello stadio dove si svolgono i giochi atletici. Ora però è giunto il tempo di visitare altri luoghi e città di questa meravigliosa collina, eterno orgoglio della regione sabina e degno scenario di memorabili avvenimenti .

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Ad est di Tivoli, nella pianura e presso quasi le montagne, si erge, nei pressi dell'Aniene, la città di Collazio, patria di Tarquinio Collatino, padre di Sesto Tarquinio detto "Prisco", uno dei sette re di Roma. Durante l'assedio di Ardea i principi della famiglia reale vollero sapere come si stessero comportando le loro mogli in loro assenza: poiché essi avevano a lungo discusso sui meriti delle loro rispettive spose. Essi montano a cavallo, arrivano di notte a Roma e le ritrovano mentre si trastullano gioiosamente. La sola Lucrezia, in tutta Collazio, viene trovata intenta a filare la lana con le proprie domestiche. Era costei la sposa di Tarquinio Collatino. La sua bellezza impressionò Sesto. Alcuni giorni dopo costui tornò e si introdusse in casa di Lucrezia domandandole ospitalità. La notte seguente, quando tutti gli abitanti la casa erano nel sonno, egli penetrò nell'appartamento della donna e la minacciò sia di ucciderla, se gli avesse posto resistenza, sia di spandere la voce che egli l'aveva uccisa perché scoperta nel momento di tradire suo marito. Lucrezia cedette: ma la disgraziata, preferendo la morte, il giorno se-guente fece venire suo padre e suo marito per raccontare loro l'oltraggio subito: " Oh! Che non ci siano mai più delle mogli che preferiscano sopravvivere al loro disonore, sperando che seguano in ciò l'esempio di Lucrezia !".Con queste parole costei sguaina un pugnale nascosto sotto il suo abito e se lo conficca nel petto. Immediatamente Giunio Bruto, sfilando l'arma tutta insanguinata, incita il popolo alla rivolta e così si compie la caduta dei Tarquini : triste sventura che causerà la caduta del regno di Roma ! Proseguendo verso est ci si imbatte nella città di Ga bi, importante colonia fondata da Albalonga; questo paese accoglie in sé un celebre tempio consacrato a Giunone . Tornando sul territorio caratterizzato da depressioni circolari formate da antichi vulcani, noi possiamo scorgere Scattia, Bola ed infine Preneste : quest'ultima città sussisterà nei secoli sotto il musicale nome di Palestrina. Questa è la più altera di tutte queste città e si erge sui fianchi della montagna: è fortificata e resa inaccessibile tanto da ripari naturali che da fortificazioni militari che la circondano. Ricca di ville, di monumenti e di giardini, essa è molto ricercata da coloro che ricercano un soggiorno pittoresco ed un luogo ameno lungi dai rumori della Roma affaristica.

 

 

Il suo oracolo della Fortuna è assai conosciuto: esso è molto influente e possiede molte ricchezze.

In queste parti esso riveste lo stesso ruolo profetico quello di Delfi in Grecia. Ci si rivolge alla dea per mezzo di bastoncelli di legno o di metallo che sembrano possedere misteriosi poteri. Per mezzo di questo magico procedimento gli aruspici interpretano le predizioni. Il tempio, di aspetto grandioso e molto imponente, occupa la cima di una scoscesa collina, sperone avanzato dei monti Appenninici; la sua monumentale base è posta alla sommità di una doppia rampa di scale che permet-tono di salire per cento cinquanta metri d'altezza. L'abbellimento di questo luogo sacro è completato da vecchi cipressi piantati tra i massi di architettura . Si scorge in lontananza Albalonga. Questa celebre metropoli dei Latini, che pacificamente si può definire come la madre di Roma, successe a Laurento, la capitale voluta dall'antico re Latino. Essa era stata fondata da Ascanio, il figlio di Enea, che la collocò tra il lago e le montagne. Il suo appellativo, "La Lunga", le deriva dalla sua forma oblunga che la configurazione del terreno aveva imposto ai costruttori. L'esistenza di Alba è durata fino al tempo di Tullio Ostilio che la distrusse per porre fine, una buona volta, alla tradizionale rivalità che esisteva tra tale città e Roma. Tutti i suoi abitanti furono condotti in Roma e venne loro fissata sul monte Celio la loro esclusiva residenza: essi potevano , da queste altezze, contemplare le rovine del loro paese che si scorgevano all'orizzonte.

Discendiamo nella pianura affatto lontana da questo punto di vista; prendiamo la via Ostiense, che noi abbiamo già percorsa, ed entriamo in Ardea, antica capita le dei Rutuli: essa è situata nel territorio posto tra i Latini ed i Volsci; il fiume Numico delimita la frontiera dei territori occupati dai cittadini di Lavinio. Si può constatare che i gruppi politici, cui diamo oggi il nome di nazioni, erano allora di così poca importanza sì da confondersi in un angusto territorio i cui limiti non erano sempre ben determinati. In origine gli Ardeatini non erano affatto dei veri popoli latini ma furono subito annoverati ed incorporati tra quelli che formaro-no la lega disciolta e battuta da Roma nei pressi del lago Regillo: i vincitori, più per scelta politica che per sentimento di umanità, usarono verso costoro molta magnanimità. Da allora gli Ardeatini restarono in tutto e per sempre molto uniti ai destini di Roma. Lavinia e Laurento estendevano i loro territori sulla stessa linea, al nord di Ardea. Al tempo dell'impero rimane ben poco delle cose di ciò che Enea aveva trovato come centro e metropoli del Lazio. Laurento, benché sempre degna del suo nome, a causa dei classici boschi di alloro che la circondano, non possiede più niente di rimarchevole, durante quest'epoca, eccetto alcune ville isolate: i malati di Roma vengono talvolta a chiedere la salute alla sua aria, purificata dalla fragranza dei boschi solitari e dagli effluvi del vicino mare. Abbiamo già visto che le origini di Laurento si confondono con la primitiva storia del Lazio. Essa fu in effetti fondata in un'età ben anteriore alla guerra di Troia da un principe chiamato Pico: costui, in compagnia di montanari, era sceso dalle cime e dalle alte vallate degli Appennini per scacciare i Siculi, un popolo che si era già stabilito in questo territorio e che facilmente lo aveva occupato costeggiando la costa tirrenica e sbarcando nel luogo. Il re Latino morì dopo aver dato ac-coglienza ad Enea. E' in questo momento che venne fondata la città di Lavinio, seconda metropoli del Lazio. Essa venne soppiantata, dopo la morte dell'eroe troiano, da Albalonga di cui noi abbiamo visto le rovine presso il lago che, all'epoca della formazione della contrada, fu il più grande dei crateri di questo territorio. In direzione del mare, verso sud, si trova il porto e la città di Anzio che Dionigi denomina " splendi-dissima " , città veramente splendente . E' il centro della regione dei Volsci . La sua potenza consiste nel suo commercio e nella sua attività marinaresca. La città è circondata da boschi di pino e da grandi e pittoreschi anfratti rocciosi: nelle profondità del mar Tirreno si pesca, al largo della sua costa, il più bel corallo rosso. Implacabile nemica di Roma, Anzio venne un giorno sottomessa definitivamente da Camillo; i rottami dei rostri delle sue fiere imbarcazioni furono trasportati a Roma: I rostri vennero per sempre fissati ad ornamento delle colonne trionfali e della tribuna oratoria del foro al la quale essi dettero i loro nome.

Coriolano, vittima delle discordie insorte tra i patrizi ed i plebei, fu esiliato dalla sua patria, ed accecato dal rancore che sconvolgeva il suo animo, si mise alla testa dei Volsci. Noi abbiamo visto il luogo in cui sua madre, ispirata dal suo patriottismo e dal suo istinto ed amore materno, seppe arrestare la marcia minacciosa di questi rivoltosi figli. Anzio ha il triste onore, sembra, d'essere stata la culla di Nerone.

E' a questo imperatore che costei deve la costruzione del suo sontuoso porto, dei suoi templi magnifici e delle sue ricche ville imperiali.

Se si desidera uscire da Roma dalla parte Nord si deve prendere la via Flaminia che, all'inizio, attraversa, scorrendo diritta, delle verdi praterie e quindi valica gli Appennini e si allunga fino al mare Adriatico. Come tutte le altre vie essa è costeggiata da monumenti sepolcrali per molti chilometri di distanza dalla città. Essa corre lungo il Tevere fin dove se ne diparte seguendo i capricci del corso del fiume; costeggia poi le colli-ne, attraversa delle valli poco profonde ed infine, dopo aver lasciato dietro di sé molte borgate di scarsa importanza, arriva nella vicina contrada di Veio, la potente rivale di Roma .

Dopo la guerra fatale agli Etruschi, in cui il grande Camillo si impadro-nì di questa forte e terribile città, quest'ultima fu ridotta ad un tale stato di abbandono che più tardi dovette essere colonizzata da parte delle città sorelle: essa infatti formava un punto strategico che bisognava assolutamente salvaguardare. Ciò non era però la sola ragione della sua importanza . Il suo nome personificava la grande influenza storica ed etnografica dell' antica Etruria. Furono gli Etruschi, che vennero proba-bilmente dai dintorni di Veio, che occuparono il Lazio; essi si erano impossessati di quasi tutta la regione dell'Umbria ; le tracce che essi vi hanno lasciato si possono rinvenire oggi nelle tombe funebri e forniscono dei documenti sulla loro dominazione. Si possono riconoscere facilmente le costruzioni e le colonie che essi fondarono ad Ardea ed a Palestrina: in tali siti infatti si ritrovano numerose vestigia materiali. Il loro dominio si estese peraltro sul mare e la loro potenza si manifestò in ogni sorta di impresa, tanto civile che militare. Il loro talento s'affermò in molte opere di pubblica utilità. Essi furono i precursori dei Romani nel campo della religione, nell'astronomia e nella musica ed impartirono ai Romani le prime nozioni delle belle arti , so-prattutto quelle relative all'arte della ceramica. Gli Etruschi furono dei pittori ed architetti molto perfezio-nisti per la loro epoca. Essi sapevano non soltanto scolpire il marmo ma anche fondere i metalli e lavorare le pietre preziose.

 

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Prima di passare ad altre considerazioni non possiamo omettere di menzionare le altre vie principali che par tono da Roma.

Citiamo anzitutto, nel sud, la via "Campana", quasi parallela all'Appia: essa si snoda, come indica il suo nome, fino alle fertili pianure della Campania .

La via "Aurelia" si diparte ad ovest di Roma per inclinarsi verso il mare che bagna una parte dell'Etruria: essa costeggia il litorale ed è stata ideata per stabilire delle vie di accesso e di comunicazione con i porti della montagnosa Liguria. Tra la via Flaminia e quella Aurelia vediamo dipanarsi il bianco nastro selciato della via Cassia che penetra nel cuore dell'Etruria. Le pianure orientali e le tornite cime meridionali sono separate dalla via Tiburtina nel punto in cui ci siamo avviati verso Tivo-li ed alla via Valeria che ci ha portati alla ricerca della villa del poeta Orazio.

La tecnica di costruzione di questi percorsi stradali è sempre la stessa : la carreggiata in silice e le grosse lastre di pietra lavica servono al passaggio di rapidi carri che lasciano Roma per portare le loro influenze, le loro idee, i loro ordini amministrativi, le loro disposizioni militari, insomma le manifestazioni di volontà dei cesari dell'augusta Roma, signora del mondo.

Lo sviluppo degli acquedotti

 

Oltre alle vie di comunicazioni , all'ingresso di Roma, si notano ancora le famosissime vestigia delle opere di canalizzazione dell'acqua potabile.Sono i famosissimi resti degli acquedotti costruiti per portare acqua potabile a tutto il territorio romano. Essi, resistendo all'usura dei secoli, sono testimonianze della grandezza di Roma, al pari delle opere classiche più superbe e più ammirate.

Contempliamo ora le strane forme architettoniche degli acquedotti che conducono le acque che dissetano la città ed i suoi dintorni. Essi attraversano la campagna con potente andatura per interrarsi e perdersi nel centro stesso dell'agglomerato romano. Questi canali sospesi portano quell'acqua sufficiente per soddisfare la sete e per i bagni igienici di più di un milione di persone. Sono fresche e salubri queste acque che sono state incanalate dalle alte cime degli Appennini: esse attraversano dapprima i monti all'interno di profondi fossati e quindi assumono un corso regolare attraverso le valli per mezzo di quelle alte, grandiose ed interminabili costruzioni ad arcate che sostengono un canale. Questo è ancora coperto di uno spesso strato di mura tura per impedire al sole di riscaldare l'acqua che scorre rapida-mente verso Roma. La città, dalla sua origine, aveva sempre creduto di avere una copiosa provvigione di acqua potabile, grazie ai suoi pozzi ed ai suoi corsi fluviali che la irrora no. Ma quando il numero degli abitanti aumentò considerevolmente. ci si accorse anzitutto che quelle acque erano malsane ed inoltre l'abitudine delle terme e di quei bagni pubblici così lussuosi fecero crescere le esigenze della popolazione. E' a questo punto che Appio Claudio, allora censore, intraprese la costru-zione di un primo acquedotto: fu un'opera relativamente timida ed insufficiente. I ricchi bottini della guerra contro Pirro procurarono delle risorse sufficienti per intraprendere nuovi lavori di già monumentale carattere: si costruì l'acquedotto del vecchio corso dell'Aniene che conduceva in città quell'acqua incanalata nelle vette circostanti Tivoli, a venti miglia da Roma. Ma la città si sviluppava di giorno in giorno, i bisogni cittadini divennero più impellenti. Quinto Marcio fece salire fino allo spiazzo soprelevato del Campidoglio quel corso d'acqua che venne a prendere il suo nome (Acqua Marcia): il condotto misura novantuno chilometri di lunghezza, più di dieci dei quali corrono so-pra delle arcate molto elevate, mentre la provvigione idrica fornita è valutata sui trecento mila metri cubi giornalieri. Fu così che tutte le contrade della metropoli furono soddisfatte d'acqua, tanto più che ben cento fontane vennero messe a disposizione del popolo. In seguito si installarono altre canalizzazioni, poiché già al tempo di Augusto, la città, insaziabile consumatrice di acqua, ne consumava circa un milione di metri cubi al giorno. La più ragguardevole di tutte queste opere idrauliche fu quella di Claudio: questo acquedotto in effetti comprende una sfilza di quindici chilometri di archi sopraelevati la cui altezza supera i trenta metri. E' uno sviluppo architettonico colossale che conferisce un'impronta tutta speciale alla Campagna romana per il suo monumentale aspetto.

Gli archi sono composti di pietra angolare estrattadalle cavi della valle ; le architravi e la chiavi di volta sono tagliate dalle pietre più dure tra-sportate dai monti Albani. Tutto questo sistema di acquedotti assicura, alla fine del periodo imperia le, una portata di un milione e sette-centomila metri cubi giornalieri di acqua. Il maestoso Tevere, immu-tabile voce maestra della campagna, offre le sue acque per il transito di numerose imbarcazioni a remi o a vela: ma a monte della metropoli esso cessa di essere navigabile.Sulle sue rive si è provveduto a costruire delle ville adorne di giardini i padroni gareggiano con i confinanti per impreziosirli con un considerevole numero di elementi decorati vi e di ingegni ricreativi: non sono altro che dei par chi, delle peschiere o delle cascate zampillanti.

Alcune statue, tempietti di classico gusto, padiglioni ed una ricca varietà di vasellame si notano qua e là, posti alla rinfusa .

Le piante di papiro ed altre piante acquatiche abbarbicate in acqua sono circondate e soffocate, a forma di anfiteatro, da altre piante tutte fiorite e da arbusti di preziose e rare essenze importate da altri continenti. Le vivide ginestre splendenti di giallo ed il rosato alloro d'Africa, albero peraltro velenoso, distendendo i suoi fusti, che terminano con ciuffi di fiori purpurei tali da far impallidire le rose, incorniciano tutto l'insieme architettonico.I riflessi di questi vividi co-lori si rispecchiano così gagliardamente sulle placide acque del fiume tanto da riprodurre l'immagine dei fiori con la stessa fedeltà con cui l'eco risponde alla voce che lo genera.Ma la coltivazione e l'agricoltura propriamente detta stanno cadendo in un periodo di decadenza.

Le antiche fattorie dei Quiriti, fertili proprietà terriere di appena due ettari, sono state assorbite dai grandi latifondi consolari o rimpiazzate da sontuosi parchi e da vaste e ben recintate distese di prati.

L'antica parsimonia e la rustica frugalità dell'era repubblicana sono state soppiantate dal lusso e dalla sterile pompa del nuovo regime imperiale: l'economia agricola va in rovina a causa delle dannose abitudini sociali e di nuove impellenti esigenze fiscali.

C'era un vecchio detto che aveva acquisito valore di legge;

i Romani, si diceva, dovevano essere forti per la pace ed il lavoro :

" Romanus sedendo vincit "

(Il Popolo Romano vince restandosene tranquillamente seduto).

Non accadrà più nulla di simile in futuro! Tutti questi mali erano stati preannunciati dal grande profeta del paganesimo, il poeta delle Georgiche. E cinquanta anni dopo Virgilio, lo stesso Columella poteva scrivere un insieme di considerazioni elaborate in lode di questo poeta: "Verissimo vero vati velut oraculo credimus"

( crediamo a questo tal veridico poeta come se fosse un oracolo).

Pare che Catone stesso avesse questa stessa preoccupazione: egli presentiva quest'inizio della decadenza sociale proprio quando cercava di riabilitare il nobile valore del lavoro agricolo . Non diceva forse tal

poeta: " E' dalla razza degli agricoltori che escono fuori i più forti e valorosi militari, essendo essi gli uomini più economi e privi di invidia" ?

Un altro benemerito cittadino, il più famoso di Roma, cioè Cicerone, affermava da parte sua che: " la vita rustica e campagnola è la maestra della parsimonia, della diligenza e della giustizia; non esiste essere migliore o più fecondo, alcuno più amabile o più degno del cittadino libero così come lo è l'agricoltore ".

Tuttavia il nostro vasto panorama , che racchiude l'orizzonte del Lazio e della Campagna ( e ), non si trova ancora abbastanza afflitto da queste cattive condizioni di vita: il suo aspetto sempre gradevole farebbe piuttosto pensare al contrario. Le zone agricole di varia coltivazione, che noi abbiamo incontrato e percorso all'imbocco della via Latina, si sono infatti moltiplicate di numero , favorendo l'accrescimento dei consumi ed il rialzo dei prezzi di mercato. I vigneti occupano sempre i terreni più favorevoli, quelli cioè situati nelle alture tondeggianti delle colline. I proprietari ed i coltivatori si fanno con-correnza : essi non si ritengo no soddisfatti della produzione vinicola se non quando i loro vini riempiono le anfore dei festini di Cesare, oppure quando li si possa bere in coppe d'oro adorne di esotici fiori, al suono di musiche e di canti che scacciano le preoccupazioni : La rinomanza di questi vigne ti si tramanderà ai posteri.

Ed è ancor oggi infatti un titolo di merito il fatto di poter vantare l'origine "doc" e la provenienza di questi vini: questo vino, si dice per vantarne la qualità, è dei "Castelli Romani", cioè un vino dei colli Laziali ( Albani ).

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( e ) : La " Campagna Romana "

 

Vari autori ( da Nibby e Tomassetti fino ai nostri giorni) usano il termine "Campagna Romana" per indicare un territorio più esteso del semplice Agro Romano, il quale ultimo indicherebbe l'ambito suburbano, che dagli orti e vigne immediatamente fuori delle mura si allargava fino ai limiti esterni della pianura che circonda Roma .

Sul piano della curiosità storica , relativamente ai secoli XII e XIII, quando l'organiz-zazione dello Stato della Chiesa raggiungeva un inquadramento destinato a durare nei secoli, cominciò a formarsi l'accezione territoriale di "Provincie di Campagna e di Marittima" per determinare e delimitare gran parte del territorio a sud di Roma, posto tra la catena appenninica e il corso del Liri-Garigliano ( esclusi le terre delle diocesi di Fondi, Gaeta, Sora e Aquino ) , cioè all'interno dei confini di quella che oggi è la regione costituzionale del Lazio.

Quasi come piegati alla classificazione di Catone nel suo trattato "De Re Rustica" i campi si succedono secondo un ordine di importanza. Vi si coltivano frutti di tutto il mondo, dalla lontana Persia alle regioni del Nord, dalla Spagna come l'ardente Africa. Inoltre noi vediamo i roseti che, grazie ad una metodica coltivazione, producono quei leggeri ba-stoncelli che delicatamente sostengono i primaverili pampini delle vigne: essi offrono loro un appoggio che, a guisa di treppiede, venuta l'estate, si coprirà di un dolce carico di abbondanti grappoli.

Gli uliveti offrono alla vista un riposante sguardo distogliendola da visione troppo impresse da colori molto pronunciati e donano quiete all'animo ed ai sensi; il sole filtra attraverso i loro rami cinerei ed affusolati, nel contempo riscalda il suolo che va a vivificare ed anima infine le rugose radici, che corrispondono alle divisioni del tronco, affinché esse producano senza sosta il succo oleoso che riempie i verdi

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Un manoscritto di anonimo del 1666 (conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana e intitolato "Discorso del dominio spirituale e temporale del papa") testimonia che nel XVII secolo il territorio sottoposto direttamente al Governatorato di Roma ( Circoscri-zione nettamente distinta dal patrimonio di S.Pietro o Tuscia, dalla Sabina, dalla Campagna o Ciociaria, dalla Marittima) era chiamato Campagna Romana e corrispondeva ad un'area dal raggio di 40 miglia, che abbracciava Tivoli, Frascati, Albano, Palestrina, Ardea, Porto, Ostia. Al contrario per alcuni moderni geografi il termine Agro Romano corrisponderebbe a tutto il territorio o circoscrizione o distretto del Comune di Roma; perciò l'Agro Romano avrebbe un'estensione più ampia della Campagna Romana vera e propria, ossia alla pianura che si estende dal mare Tirreno fino ai rilievi Ceriti e Sabatini, alle colline sabine, ai monti Cornicolani, Tiburtini, Prenestini, e ai Colli Albani.

Spesso però vari autori moderni ( in particolare il grande Roberto Almagià ) usano indifferentemente questi due termini, come se Agro Romano e Campagna Romana fossero equivalenti.

Nell'uso corrente poi il termine Campagna Romana sta diventando desueto ed è usato per un mondo scomparso e testimoniato da pittori ( come i venticinque pittori della Campagna Romana ) , mentre Agro Romano persiste nell'uso burocratico, ma spesso con un ' accezione territorialmente ristretta al suburbio.

frutti, complementare ornamento del fogliame. La coltivazione degli orti della pianura è invece a carico de gli ortolani e giardinieri così pieni di premure per le loro piante. E' proprio da lì che, sul far del giorno, escono i carri agricoli già ben attrezzati dalla sera precedente:sono que-sti mezzi che ingombrano le vie quando ci si sta approssimando alla città. Gli orticoltori si affrettano a sorpassare astutamente i pesanti car-rozzoni trainati da buoi per poter essere i primi ad arrivare al mercato mattutino. In verità non tutta la pianura è coltivata intensamente perché infatti la maggior parte di essa rimane, o per condizione di natura o per-ché sfruttata artificialmente, allo stato di verdeggiante prato la cui erba serve al nutrimento dei buoi e delle vacche che vi pascolano sopra.

Il latte poi è, come in tutte le zone ed in ogni tempo , un prodotto ne-cessario ed impareggiabile. L'uso che si fa di tal alimento nelle libagioni lo nobilita ancor più: è del latte, infatti, che si servono di preferenza i pontefici in certi riti solenni. Peraltro anche quei bei tori bianchi, così ben accuditi, sono accuratamente scelti perché anche essi vengono destina ti ai sacrifici religiosi.

 

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 E le grandi macchine per i movimenti di terra hanno completato "lo scasso del cappellaccio" , sconvolgendo l'aspetto dell'Agro o Campagna Romana.Una parte del territorio del Patrimonio di San Pietro  (  o della Chiesa di Roma ) era denominato in due modi diversi: una parte si chiamava "Territorio della provincia di CAMPAGNA" e l'altra " Territorio della provincia di MARITTIMA".

Il termine più usato già da lungo tempo era quello di "Campania" (da non confondersi con l'attuale zona napoletana) mentre "Maritima" era un termine percepito quasi come un'aggiunta alla prima provincia per eccellenza. Si deve però notare che , nel linguaggio più antico risalente al "Codex Carolinus", la Marittima veniva considerata distinta e con una sua peculiarità rispetto all'altra parte. Tale distinzione, con lo stabilizzarsi della divisione dello Stato della Chiesa in province, divenne nei secoli sempre meno rigida e il termine "Maritima" era aggiunto con un trattino a Campania e non si riteneva più come costituente una provincia a sé stante.

 

Una verde colorazione, di differenti tonalità, si offre poi alla vista osser-vando i campi di orzo non ancora giunti a piena maturazione.I rosolacci, ovvero le immancabili piante di papavero, sospingono in tutti i sensi i loro flessuosi steli alla cima esplodono i loro fiori di rosso acceso : possiamo qui ammirare l'eterna riproduzione dei germi del la natura che durano nel tempo più di tutte le opere e di tutte le istituzioni create dagli uomini.Questi fiori, dai colori ardenti, si scavano un passaggio per poter ricevere una carezza dal sole attraverso i fitti steli che si curvano sotto il peso delle chiomose spighe di grano. I terreni di mediocre qualità, che si estendono dalle montagnose cime fino al centro della pianura, sono coperte da boschetti e da alberi di alto fusto: è qui che si infittiscono i boschi cedui delle verdi querce, che procurano legno da costruzione e da riscaldamento; sempre qui si andranno a raccogliere i ramoscelli e le teneri radici per tessere corone, ghirlande e festoni in occasione di trionfi e di civili cerimonie, militari o religiose.

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Comunque, per rigore di ricostruzione storica, la provincia di Campagna era la zona dietro i Lepini, comprendente i paesi Ernici, da Ceccano fino a Frascati e a San Cesareo. Vi erano inclusi anche i paesi dell'antico Lazio (Vetus Latium),  ai quali  sovrastava il castello di Fumone, che col fumo dava  l'allarme per l'approssimarsi dei nemici. Perciò venne il famoso proverbio " Quando Fumone fuma, tutta la Campagna trema".

Il  territorio di Marittima invece comprendeva la zona  litoranea dei Volsci al di qua dei Lepini fino a Terracina, oltreché Marino e Rocca di Papa.Lo stesso territorio della città di Sezze, come tutti i paesi dei monti Lepini, era di "Marittima" e vi rimase per secoli. Nel 1832 l'intero territorio fu  riformato giuridicamente e burocratica-mente e passò sotto le  leggi generali dello Stato Pontificio. Il  papa  Gregorio XVI, realizzando ambite  aspirazioni  popolari tendenti ad una riforma generale, con "motu proprio" del 1°febbraio 1832 istituì la Legazione cui sarebbero appartenute diverse città .Velletri divenne sede della Legazione (con 56.539 abitanti  totali) comprendente la provincia di Marittima, con   seguenti governi e comuni: Velletri (Cisterna, Ninfa, Giulianello, Rocca Massima), Segni (Carpineto, Gavignano, Gorga e Montellanico),  Valmontone (Lugnano, Montefortino), Terracina (San Felice), Cori e Sezze. Sezze quindi fu riconosciuta sede di un governo che estendeva la  sua giurisdizione sui comuni limitrofi di Sermoneta, Norma  e Bassiano. Il complesso demografico di detto governo era  composto di 14.419 abitanti totali, così distribuiti: Sezze 8648; Sermoneta 2021; Norma 2009; Bassiano 1741).

 

I lavori dei campi terminano a mezzogiorno.I gruppi di schiavi, sia indigeni che stranieri, possono ora ritirarsi nelle proprie dimore. Essi cantano, per strada, delle monotone nenie per abbandonarsi all'oblio ed alla fatalità. Costoro sono naturalmente seguiti e controllati dai caporioni agricoli e dagli attendenti dei lavori che, senza alcuna passione e quasi freddamente, sono intenti a stimare il raccolto mattutino, peraltro con il pensiero già rivolto alla previsione serale. A quest'ora del giorno, di intensa calura e di somma quiete, veramente invitante alla tregua dei lavori ed al raccoglimento interiore, essi non sentono affatto nei loro animi dei sentimenti di adorazione e di ringraziamento verso gli dei dispensatori dei buoni frutti dei campi: essi non pensano ad altro che alle ricompense che coronano la fatica impiegata nei loro rudi lavori. Gli uomini di questo tempo sono diventati poco alla volta sempre meno religiosi: essi pensano e vogliono prima di tutto arricchirsi, godere delle prosperità e sono continuamen-te alla ricerca di nuovi piaceri.

Povere vittime del miraggio delle proprie illusioni !

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Poeti, pittori e romanzieri di ogni nazione trassero ispirazioni dalla campagna romana. La pittura , come giustamente notava Ugo Fleres, non se ne giovò abbastanza: la malaria fugò spesso l'artista. Nicolas Poussin e Claude de Lorena non osarono spingersi troppo oltre fuori porta del popolo dove abitavano e dipingevano. Il Piranesi si allontanò ancor meno per trarre elementi delle sue tetre ispirazioni , tipiche della cosiddetta poesia delle rovine.

 

Divenuti quindi molto prosaici e materialisti costoro dimenticano i be-nefici della bionda e feconda Cerere e la misteriosa protezione dei Fauni e delle vergini Dri adi. Ma, ciò che è ancor più grave, è il fatto che essi non invocano più quelle divinità che il poeta designa quali torce luminose dell'universo: "Clarissima mundi lumina". Essi sembrano ignorare ora sia Bacco che Nettuno, protettori delle vigne e dei focosi cavalli allevati in campagna ; ignorano inoltre la dea Minerva, la protet-trice dell'uliveto apportatore di pace ; ignorano infine il dio Pan, protettore delle placide schiere di greggi ed armenti, nonché il dio Silvano, fedele guardiano dei boschi consacrati ai ricordi celesti o destinati alle necessità dei mortali.

La Campagna, un tempo fiorente e popolata, continua a decadere rapi-damente: questa decadenza è il riflesso delle corruzioni e delle debo-lezze che già minano il centro vitale dell'impero. Una veloce e fatale risonanza di notizie fa pervenire nella metropoli notizie di disfatte e di colpi di mano subiti nelle lontane frontiere, estremo baluardo della potenza romana.

Rivolte e tumulti, sedizioni e delitti vari si rinnovano continuamente nel cuore stesso di Roma.

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I pittori francesi e tedeschi non trovarono di meglio che i carri di fieno e le mandrie di bufali; e del resto, le barbe incolte, i panciotti rossi e tutta la colorazione a bandiera dei ciociari non v'era bisogno di cercarla al di là della scalinata di Trinità dei Monti. Tuttavia il Sartorio, il Coleman, il Petiti, il Carlandi e il Costa composero artisticamente con molta originalità i loro assai pregevoli lavori.

Benché apparentemente le situazioni, quanto alle culture ed alle piantagioni, fossero simili o di poco cambiate rispetto agli ultimi tempi della Repubblica o al primo periodo imperiale, in realtà, quanto alle prati che amministrative si erano consolidate nuove abitudini che dove-vano apportare una funesta influenza sulla vita agricola. I municipi ave-vano perduto la propria indi pendenza:le tradizionali prerogative dei cittadini cadevano nel dimenticatoio a causa del semplice volere di un commissario imperiale ; lo stato di liberi cittadini andava man mano scomparendo nei comuni dell'impero.

A causa di siffatte condizioni socio - politiche e per altri motivi non meno sfavorevoli alla vita economica, le proprietà divenivano sempre più estese: i piccoli coltivatori andavano scomparendo; le fattorie non erano oggetto della dovuta attenzione. Solo le lussuose e nobili ville, la cui conduzione era nelle mani di famiglie patrizie, peraltro sempre sog-giogate al potere imperiale, continuavano la loro esistenza nel ben mezzo di una sempre più invadente e totale desolazione. A questo punto arrivò il colpo di grazia: fu messa in atto la divisione e la spartizione dell'impero romano, a seguito delle selvagge devastazioni e dei feroci assalti sopravvenuti nel quarto e quinto secolo d.C. .

Una imperitura fama di barbarie stigmatizzerà i fautori di queste atro-cità, cioè quelle compiute dalle armate di Alarico e di Gianserico, seppur possano meritare tali orde il nome di armata. La parte di territorio più colpita da queste barbarie furono gli immediati dintorni della città di Roma. Proprio qui infatti sono state messe in atto tutte quelle svariate operazioni di assedio. Ne è scaturito il risultato che niente, letteralmente niente, è rima sto intatto.

Molti pensano che la più alta rispettabilità o inviolabilità, che doveva garantire la salvaguardia dei monumenti e degli altri edifici (per la loro grande bellezza o per la loro consacrazione religiosa agli dei o ai morti), non abbia fatto altro che agevolare la loro distruzione ed il loro annientamento. Nell'anno 536 la mole Adriana, al nord del Tevere, fu testimone di un increscioso avvenimento. La massa monumentale era stata già trasformata in fortezza ma essa era ancora adorna di opere d'arte e di ricchezze architettoniche che si annoveravano tra quelle più preziose della Roma imperiale. Or dunque avvenne che gli assediati, per poter controbattere l'assalto che i Goti scagliarono in quel ricordato periodo, un bel giorno non trovarono di meglio che sbarazzarsi dei barbari nientemeno che lapidandoli e gettando loro contro, dall'alto delle merlature, le statue greche e le altre sculture che sormontavano il detto mausoleo. I Goti furono debellati e respinti ma oggi ci si interroga su chi, nella suddetta circostanza, siano stati i veri barbari: forse i Ro-mani che si trovavano in alto o i Goti che li assediavano dal basso ? Ecco ancora un altro esempio di questo nocivo modo di agire. In un ' altro fatto si videro dei cavalieri che avevano attaccato i loro cavalli a delle statue rovesciate ; altri invece abbattevano e riducevano a pezzi dei cor-nicioni di stile corinzio riccamente ornati: delle trabeazioni scolpite erano invece collocate a terra in modo da poter servire da transenne o da ripari murari. Più tardi si potranno vedere, ohilà , dei forni da calce riempiti con monconi di statue di maestri d'arte, miseramente ridotte in polvere di marmo allo scopo di facilitare la calcinazione.

A voler operare una distruzione più metodica si demolivano poi , da sopra a sotto, quelle terme che parevano indistruttibili: si riducevano quindi in un ammasso rovinoso i templi, le basiliche ed i sepolcreti. Si ab-battevano gli alberi dei parchi e dei giardini per servirsene come legna da ardere o per affastellarli ed incendiarli all'aria aperta.Tali sono state le dolorose vicissitudini avvenute in generale nella Campagna. Ma il La-zio, regione speciale ed antico territorio di eroiche guerre e di irri-ducibili confederazioni, il "Vecchio Lazio" doveva ancora soffrire le più grandi distruzioni ed i più grandi danneggiamenti.

Nel corso dei secoli, soprattutto a partire dai tempi leggendari resi fa-mosi da Enea ed i suoi Troiani, tutto era ridente, gioioso e fiorente.

Sopravvenne però la politica della rifondata Roma : essa causò discordie ed impacci socio - politici in questa placida quiete : gli abitanti autoctoni di colpo vennero a trovarsi, senza alcuna garanzia di dedicarsi ai lavori agricoli, privi di totale sicurezza per i loro beni e per le proprie persone.

Roma era una temibile vicina di casa. Sempre vittoriosa nei combatti-menti essa non mancava di approfittare dei suoi successi per sottomet-tere o per mandare inesorabilmente in rovina quei popoli vinti e soggio-gati: era questo il risultato di tutte le sue conquiste. Malgrado questi vio-lenti accadimenti tuttavia ne risultò una certa positività : queste popo-lazioni , terminate le guerre, venivano a beneficiare di leggi dettate da spirito pratico e che Roma dettava loro.

Durante la Repubblica, ad esempio, furono promulgate quelle famose leggi dette "Cassie" e "Licinie" : esse limitavano il possedimento di grandi latifondi e favorivano così, in modo tutto legale, le piccole proprietà.

L ' " Agro " intero venne diviso in porzioni o lotti di una limitata consi-stenza; questa saggia misura apportò una nuova prosperità che durò per un certo periodo di tempo. Più tardi le interminabili guerre dell'impero fece cadere il Lazio in una generale decadenza: l'aratro, considerato disdi-cente dai favoriti e dai pidocchi rifatti, non trovò più dei cittadini disponibili ad impugnarlo.

Per somma sventura inoltre un giorno accadde che le nuove strade costruite per le comunicazioni con i paesi stranieri e lontani nonché la facilità dei tra sporti marittimi offerta al commercio dalle flotte romane, signore del mare come le legioni lo erano della terra, provocarono dap-pertutto la diminuzione del prezzo delle derrate alimentari.

I cereali furono importati dall'Africa mentre gli altri prodotti agricoli vennero forniti in abbondanza dalla fertile Campania e dall'industriosa Etruria.

Una sventura non arriva però mai da sola: una volta che furono sop-presse le colture nei bassifondi, fece la sua comparizione la malaria: essa divenne endemica e rese inabitabili molte zone della Campagna.

La divisione dell'Impero, e più tardi il trasferimento della sua sede in Bisanzio ( Costantinopoli ) furono causa di un ancor più profondo abbandono. I desolati pa lazzi restarono miseramente inabitati, restando silenziosamente ritti su se stessi, imponenti e destinati all'oblio nel mez-zo delle grandi zone verdi dei parchi che le circondavano. Esse erano disertate dai loro padroni. In breve si videro le superbe ville, tristi ed abbandonate, custodite soltanto da vecchi cipressi pesantemente al-lineati, a guisa di sentinelle, davanti a dei monumenti funebri.

I giardini, invasi da erbacce di ogni tipo, si trasformarono in incolti terreni cespugliosi. I barbari, sguinzagliati come orde cieche in mezzo ai campi, finirono per devastare ogni cosa.

Essi uccidevano e distruggevano intere popolazioni travolgendo tutto ciò che si parava loro contro ed accanendosi contro tutte le opere d'arte.

Una delle conseguenze naturali della nuova politica era stata l'imposta di tutte le esorbitanti tasse che gravavano sopra i campi di coltivazione : i carichi erano tanto più penosi perché ripartiti in modo ineguale, essendoci già dei privilegi ben stabiliti. Erano le classi più infime che sopportavano ingiustamente le più forti pressioni fiscali.

In Roma si erano venuti a formare, fatto prettamente nuovo, dei gradi specifici nei titoli e nelle pubbliche funzioni. Si distinguevano per questo i Nobilissimi, i patrizi, gli illustri, gli spettabili, i chiarissimi, i perfetti , gli egregi , ecc. ecc.

I conti facevano la loro prima apparizione. Tutti i quei signori i cui onori e le cui cariche erano cessate misero davanti i loro titoli una preposizione : si ebbero così gli "ex" consoli, gli ex - prefetti...

Ecco l'esordio della nobiltà imperiale che si andò a sviluppare e ad ac-centuare a seguito del fenomeno detto del "nepotismo" e , subordina-tamente, del "servilismo". Dopo la Nobiltà susseguiva una seconda gerarchia, quel la dei Curiali, ed una terza, quella dei liberi cittadini. Questi ultimi vennero però facilmente spogliati delle loro proprietà agricole, sia per la sagacia e la violenza dei ricchi sia per l'invasione dei barbari. In ogni caso essi furono ridotti a diventare semplici coloni al servizi dei potenti. E' pur vero che, più tardi, questa crudele condizione degli umili ricevette delle compensazioni appena che si pervenne a migliorare le condizioni riservate agli schiavi.

Questo miglioramento sociale , dovuto anzitutto alla filosofia stoica e liberale, non raggiunse la sua perfezione se non grazie alla dottrina cristiana, fondata sulla Carità. Lo schiavo divenne un uomo e poté dispor re di un proprio salario e reddito. Diventò così impossibile sia venderlo che separarlo dalla propria famiglia. Questi rivoluzionamenti apportarono grandi migliorie all'agricoltura.

La Chiesa, che cominciava a diffondersi e stabilizzarsi nel territorio, inculcò i suoi principi. a tutte le classi della società, di cui essa modificò il modo di essere e le norme morali.

Tutte le nozioni e tutti i dettami ammessi fino a quel periodo vennero profondamente trasformati: una nuova vita morale andava ad iniziare in tutte le campagne e nella città.

" Ad una società violenta essa si sforzò di insegnare la dolcezza : alla gerarchia feudale essa oppose l'uguaglianza di tutti gli uomini ; al disordine interpose la disciplina, alla servitù contrappose la libertà e contrastò la forza con il diritto. Essa proteggeva lo schiavo dalla superbia dei padroni : contro quegli sposi un poco libertini, che non avevano alcun timore né di divorziare né di praticare la poligamia, essa difese i diritti della donna, dei figli e della famiglia.

Agli stati, che non sapevano altro, per le pubbliche cari che, che ricor-rere alla successione consanguinea diretta, essa indicò la strada di quella spirituale, anche e soprattutto per la libera successione degli abbati, dei vescovi e degli stessi pontefici : si videro così dei servì che ebbero modo di insediarsi nella cattedra di San Pietro, al di sopra di ogni re. Le nazioni barbare avevano fatto scempio dell'antica civiltà: essa ne raccolse, nell'intimità dei suoi monasteri, i mutilati avanzi. Essa fu anche la madre delle fedi così come lo fu del libero pensiero, dell'arte e della scienza "

( Victor DURUY "Histoire du Moyen Age" ).

 

Fu alla fine del VI secolo che la Campagna rotolò definitivamente verso il totale degrado.

Per conoscere il curioso modo con cui vennero distrutti i castelli , le abitazioni di piacere e di lusso, le fattorie e le case di commercio che era-no distribuite su tutta la campagna, sarebbe opportuno capire le deduzioni degli archeologi su tale questione.Costoro hanno rinvenuto, dopo attento esame, delle stratificazioni che ricopri vano l'area di quelle distrutte costruzioni ( che furono la maggior parte ) e di quelle incendiate : altre invece erano state semplicemente abbandonate.

Gli spessi muri ed alcune colonne, sempre di materiali molto solidi, rimasero in piedi per alcuni anni ma alla fine caddero su se stessi, spar-gendosi nell'area circostante.In ogni scavo o ricerca sono state sempre trovate delle colonne rotolate in terra in una stessa direzione : per tale motivo è stato concluso che i sollevamenti sismici avevano provocato la definitiva distruzione di queste costruzioni che costituivano il ricco ornamento della Campagna.

Nell ' VIII secolo, che si distinse per la più grande stabilità politica, i pontefici romani ebbero modo di stabilire una amministrazione rego-lare : la Campagna entrò in un'era relativamente prospera.

La Chiesa , che stava già procurando una pace duratura , non avrebbe tralasciato di mantenerla anche per se stessa nel corso dei secoli suc-cessivi. Alcuni centri cominciarono a ripopolarsi:erano principalmente

quelli che godevano il favore di una salubre posizione su elevati colli, dall'alto dei quali si poteva lottare, all'occorrenza, sia contro i nemici che contro le febbri malariche delle paludi che infestavano le zone sot-tostanti. Il regime proprietario dei cosiddetti latifondi, cioè degli estesi appezzamenti agricoli, venivano rimpiazzati dalle domuscultae , cioè da quelle " proprietà effettivamente lavorate, aventi peraltro un'estensione adeguata al tipo di coltura in esse praticate ".

In questo periodo restavano ancora delle zone boscose che potevano es-sere sfruttate vantaggiosamente. Malgrado tutto non era più la campa-gna dei buoni tempi passati.

Noi l'abbiamo già sottolineato: non esistevano più quei vasti appezza-menti dove la ricchezza e il buon gusto apparivano in ogni loro minimo dettaglio. I superbi monumenti architettonici, interminabile serie di opere ornamentali poste lungo le strade che tagliavano in due le verdi praterie, giacevano a terra; i monumenti funebri, dai lineamenti finemen-te scolpiti e le urne cinerarie coperte da iscrizioni, erano riverse a terra in mille pezzi.L'erba cresceva tra gli interstizi ed i giunti murari che an-davano a ricoprire; la ruggine, invece, sfigurava, a guisa di un'orrida piaga, le bianche e rotondeggianti facce e i mutili arti delle statue e dei bassorilievi. I blocchi sfavillanti di marmo, i contorni lattei del le figure mutava-no in pallore di morte o in macchie verdastre che delineavano fenditure e spaccature archi tettoniche.

Sembrava come se le epoche storiche si iscrivessero da loro stesse sui monumenti tramite i cambiamenti e le discrepanze del marmo: infatti il passare degli anni fa variare il colore marmoreo donandogli mille sfu-mature che corrispondono ad altrettante misteriose alterazioni cheil tempo, l'aria, la luce, l'umidità e l'abbandono provocano sulla super-ficie della nobile materia. Nei primi anni di vita sfavilla la candida tonalità del bianco marmo venato ; negli ultimi periodi invece sarà la tonalità di rosso vermiglio, somigliante a quella delle comuni pietre. Le statue denotano dunque le differenti fasi del tempo seguendo la patina che le ricopre. Questa patina è dolce e, per così dire, tenera: essa dona quasi un riflesso di incarnato giovanile per ché queste statue sono state da poco scolpite. Ma la patina è più dura e sfuma verso una calda e rosea colorazione quando queste opere d'arte cominciano ad avere qualche anno di età, anche quando esse sono state accuratamente tenute al riparo delle intemperie della brutta stagione.In seguito la patina diventa di aspro colore, quasi rugosa, cinerea, nonché opaca, smorta e con macchie rossastre: essa infine spegne la trasparenza delle venature e produce delle placche cadaveri che su quelle statue che purtroppo sono di annosa età. Non sarà forse che lo statuario marmo, questa pelle delle montagne, fredda e dura,venga ad assumere una certa inspiegabile vita quando l'arte e l'immaginazione, nonché il genio, gli vengono a conferire una forma che risponde allo stesso ideale dell'artista ?

Verso il nono secolo furono eretti, quali segni tangibili di un nuovo potere, le prime torri strategiche sulle alture collinari ed in mezzo alle verdi pianure. L'uso giuridico delle terre in enfiteusi, cioè cedute in pos-sesso di lunga durata sotto il pagamento di annuale rendita, cadde in discredito. Senza provenire dallo stesso legale principio il feudalesimo venne a rimpiazzare la detta enfiteusi. La gente povera, senza alcun in-teresse a invischiarsi in estranee lotte ed in sanguinosi intrighi, che com-portavano continui assalti tra truppe rivali, si ritirò a vita privata nei bassi fondi malsani. Conseguenza di ciò fu che l'agricoltura decadde in proporzione del progresso feudale: l'abbandono delle fattorie e dei campi coltivati giunse a compimento estremo in diretto collegamento del popolamento delle rocche e castelli fortificati; alcuni di questi non tar-darono a formare dei comuni indipendenti. Siamo arrivati nel momento storico in cui non esisteva più l'agricoltura e non c'era interesse che per la pastorizia che permette all'uomo di traslocare nel giro di una sola notte. 

( Tomasetti, La Campagna Romana nel medio evo ).

 

Si può immaginare fino a che punto di regresso ci si stesse incamminan-do ricordandosi che papa Innocenzo VII, nel 1046, nominò "defensor stratarum et viarum" ( difensore delle strade e delle vie ) quel tale Pietro di Masuccio .Costui creò, diciamo così, una funzione e una figura, come quella del difensore dei minorenni, per proteggere e mantenere tra di essi quello più operoso ma che in generale godeva di cattiva reputazione. Oggi il potere civile è molto diverso: la politica ha sofferto molto per i cambiamenti e per le brusche alte razioni ma, nonostante tutto, l'aspetto generale della campagna non è quasi affatto cambiato a partire da quel periodo. Abbiamo già visto che le principali vie erano in cattivo stato: i loro monumenti principali erano stati di strutti, fatti a pezzi ed abban-donati a terra. Le lucertole correvano svelte lungo le fessure e le crepe marmoree, i corvi che volavano si venivano a posare sopra di esse quali signori della solitudine e i lupi avanzavano di notte fino alle stesse porte della città : questa arrivava quasi a contenere trenta mila abitanti, tutti di misera condizione sociale.

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Le Torri Costiere del territorio pontino

 

 

 

La difesa dei siti abitati e del territorio pontino è stato sempre una preoccupazione continua per tutti i popoli che si sono susseguiti nel dominio sopra di esso.

La maggior parte dei presidi difensivi risale ad epoca pre-romana o romana ma un vero assetto organico difensivo è stato progettato dalla Chiesa solo nel tardo medioevo, ricostruendo e rafforzando dei siti costieri e montani particolarmente adatti alla difesa del territorio.

Si potevano scorgere, da ogni lato, delle torri squadrate costruite a mat-toni, dove gli uomini potevano arroccarsi sia per difendersi sia per lan-ciare segnali di guerra. le torri più munite si ergevano lungo il litorale marino: esse erano occupate da vedette che difendevano gli accessi costieri. ( z 1 )

 

 

 

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( z 1 ) Le torri costiere difensive pontine

Dal IX al XV secolo il sistema difensivo della costa pontina era costituito da fortilizi di presidio e di avvistamento. Oltre al Castello di Terracina, posto in pozione elevata a guardia della città, potevamo scorgere alcune fortezze tutte risalenti ad epoca romana o pre-romana; tali luoghi di difesa erano:la fortezza delle Mole ( o del Farrone ) ; il Fortilizio di Monte Sant’Angelo; il Castello baronale di Rocca Traversa e la Fortezza del Pesco Montano.

La difesa del territorio, dal XIII al XV secolo, era ancora affidata a tale sistema di fortificazione della costa costituito soprattutto dalle antiche torri semaforiche che sopravvivevano ancora nel tratto da San Felice a Terracina.

Tali torri non solo servivano a segnalare le navi nemiche ma fungevano anche da fortezze difensive di tutto il contado e delle rocche baronali, opponendosi anche alle eventuali offensive dei nemici, soprattutto dei Turchi e di tutti i Musulmani.

Nel XVI secolo avvenne la trasformazione organica del sistema difensivo della costa laziale e pontina.

 

Oltre a Torre Astura ( nei pressi di Anzio ) vengono restaurate o riprogettate interamente dallo Stato Pontificio e precisamente nel periodo di governo dei papi Pio IV, Pio V, Gregorio XIII e Paolo V ( anni dal 1563 al 1621 ) .

Sorgono così Torre Paola, Torre Fico,Torre Moresca e Torre Cervia ( dal 1563 al 1574 ). Tra il 1582 e il 1592 vengono ugualmente innalzate :Torre Olevola ( 1570 circa ), Torre Vittoria ( costruita presso San Felice e così chiamata in seguito alla vittoria di Lepanto del 1571), Torre Gregoriana ( del Posatore o Torre Nova ) , Torre del Pesce e Torre dell’Epitaffio .

A fianco di queste torri, sorge ancora, e non senza ostacoli burocratici e progettuali, altri baluardi : nel 1560 circa papa Pio IV erige al rango di fortezza la torre del Pesco Montano ( avamposto di epoca anteriore ma menzionato come torre soltanto nel 1460 , sotto Pio II, essendo sorta presso la porta Napoletana di Terracina ) ed infine viene costruita la Torre Badino ( di Paolo V nel 1616 ).

Tutte queste torri, ad eccezione di Torre Paola, nel 1809 erano già distrutte o gravemente danneggiate; Torre Cervia e Torre Fico sono state comunque ricostruite in seguito.

Fu proprio in quei luoghi che approdarono le imbarcazioni saracene e quel-le dei pirati : costoro non furono adeguatamente fermati e puniti per cui avanzarono audacemente fino all'interno del territorio laziale.

In effetti le spiagge romane non furono liberate da queste dannose incursioni se non nel 1571 quando i musulmani invasori furono sgominati nella più brillante azione di guerra annotata nei giorni fausti delle imprese militari marine : la battaglia di Lepanto. ( z 2 )

Tale impresa, dove don Giovanni d'Austria si coprì di imperitura gloria, fu opera anche di Roma : il papa infatti avendo sollecitato e ottenuto l'appoggio della potente Spagna, formò la lega che condusse le flotte a questo eroico combattimento.

Grazie a questa vittoria il litorale italiano, così come quellodi tutta l' Eu-ropa, riguadagnò la dovuta tranquillità e fiduciosa calma.

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( z 2 ) : La Battaglia di Lepanto_

 

La città greca di Lepanto, posta nei pressi di Corinto, ha assunto una grande fama storica per essere stata sede di una famosa battaglia navale combattuta il 7 ottobre 1571 tra la Santa Sede ed i Turchi ottomani , comandati da Mehemet Alì pascià .Combatterono questa "Crociata" le principali potenze navali cattoliche, riunitesi in una Sagra Lega promossa dal papa San Pio V.La flotta della lega ( a cui concorsero - oltre la Santa Sede - Venezia, La Spagna, i Savoia, Genova, Malta e alcuni altri stati italiani ) fu affidata al comando di don Giovanni d'Austria (Fratello di Filippo II ) ma la flotta pontificia vera e propria fu diretta e governata da Marcantonio Colonna. Sotto le direttive di questo condottiero combatterono valorosamente anche dei cittadini di tutto il territorio pontino

( quelli di Sermoneta, legati ai Caetani, quelli di Sezze, legati ai Colonna, quelli di Gaeta , che abitavano là dove partì la flotta pontificia ).

 

A seguito di tutti questi avvenimenti, le fantasie si trovavano in preda dell'esaltazione e la vita non conosceva più la dolce quiete dello spirito; le leggende si facevano facilmente strada.

Le credenze e le superstizioni, private di ogni fondamento dogmatico o razionale, arrivavano a coprirsi di una parvenza di religiosità. Tali erano i mali dell'epoca feudale, comuni peraltro a tutta l'Europa: a Roma essi erano minori di quelli dei paesi del nord.

Una di queste sinistre superstizioni trovò diffusione all'inizio della cam-pagna, verso nord, proprio all'uscita della porta Flaminia .

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Pio V donò alla propria flotta un vessillo rappresentato da un drappo di seta cremisi di mt 3,15 x 2,35, sul quale il sermonetano Girolamo Siciolante dipinse il Crocifisso tra S.Pietro e S.Paolo , che recava la scritta "In hoc signo vinces".

Sotto questo sacro vessillo le navi pontificie ( ben 238 galere,1800 cannoni, 30000 soldati, 12900 marinai e 40000 schiavi ) si riunirono a Gaeta e proseguirono per Napoli, dove il drappo fu benedetto a Santa Chiara. La flotta partì quindi per Messina da dove puntò diritta verso Lepanto.

Conclusasi la battaglia navale con il trionfo delle armi cristiane, don Giovanni d'Austria e Marcantonio Colonna, adempiendo al voto fatto alla partenza, depositarono il vessillo (rimasto miracolosamente indenne) nel Duomo di Sant'Erasmo di Gaeta, dove più tardi fu intelaiato come pala d'altare.Oggi è ancora conservato sull'altare maggiore della predetta chiesa.In ricordo di tale prodigiosa battaglia, che segnò l'inizio della decadenza turca in occidente, anche Onorato IV Caetani di Sermoneta fece erigere, a valle del paese, la chiesetta di Santa Maria della Vittoria.

Tale grandiosa vittoria , pur rivelandosi grandiosa nelle sue proporzioni, non sconfisse totalmente i Turchi ed infatti non impedì nuove incursioni ottomane lungo le coste tirrene: nel 1588, nel 1593 alcuni musulmani tornarono nel nostro territorio, guidati soprattutto dal pirata Assan Agà che fu sconfitto nelle acque tra il Circeo e Ventotene soltanto nel 1598 . A questi episodi ne seguirono certamente altri che procurarono ancora delle preoccupazioni ai nostri pontefici, sempre dediti all’opera di rafforzamento costiero.

Là vi era una delle più malfamate contrade cittadine: se non c'era completo deserto era perché i delinquenti si davano appuntamento proprio in tale posto. La porta aveva già le sue tradizioni e le sue gloriose leggende ma il suo circondario era tenebroso e godeva di una cattiva reputazione. Tuttavia fu proprio sotto quest'arco monumentale che Costantino, vincitore di Massenzio nel 312, fece la sua entrata trionfale in Roma: era stato inoltre proprio qui che, presso il ponte Milvio, prima della battaglia era apparsa il segno della Croce "In hoc signo vinces"

( Con questo segno vincerai ) , parole che facevano il verso del " Mane, thecel , phares" ( "Pesato, Contato, Diviso") della Bibbia.

Ma niente aveva impedito che un albero nefasto, evidentemente infestato dai demoni, fosse cresciuto in questi paraggi sul luogo, si diceva, della sepoltura di Nerone. Lo spirito del tiranno tornava nel mondo ed appariva girovagando nelle immediate vicinanze. Era peraltro ancora lì che si distendevano i giardini della famiglia dei Pincii: il luogo oggi è chiamato il giardino del Pincio.

Vi si poteva ammirare la grande villa di Messalina, moglie dell'imperatore Claudio. Chi mai non era a conoscenza della vita licenziosa e dissoluta di questa famosa imperatrice ? E , inoltre, come se non vi fossero abbastanza antecedenti deplorevoli, registriamo il seguente avvenimento : da molto tempo, ai piedi del muro che delimita ancor oggi la villa Borghese e non molto distante da quel citato albero spiritato, i Romani era no soliti seppellire le donne di malaffare e quegli uomini che morivano senza i conforti religiosi. Niente poteva vincere il terrore che incuteva questo luogo: neanche la considerazione che questa stessa porzione di muro, il muro torto, è sempre stata difesa dal papato anche in modo nascosto.

I Goti stessi non osarono affatto attaccare Roma da questo punto e Be-lisario aveva appositamente evacuato le fortificazioni di quest'angolo ben sapendo che anche i barbari temevano e rispettavano l'Apostolo. Il fatto è che l'invasione di questi spiriti malvagi arrivò ad un limite tale che il papa Pasquale II dovette prendere un ' atteggia mento radicale. Egli affidò questa dimora del demonio a colei che gli tiene schiacciata la testa sotto il proprio tallone e vi costruì sopra la chiesa di Santa Maria del Popolo. Questa dicitura derivava dal fatto che tale luogo, mal grado tutto, era abbastanza abitato, benché lontano dalla città propriamente detta. Quando i movimenti demografici della popolazione portarono i cittadini ad abitare verso il nord città, una delle strade principali della città venne prolungata fino alla nuova chiesa. Due altri templi furono di nuovo dedicati alla stessa Vergine Maria. Era così che il luogo doveva chiamarsi, soprattutto dopo che esso fu trasformato in una monu-mentale piazza, la piazza delle Tre Marie . A proposito di tali fatti si può constatare che lo straordinario fenomeno della campagna stava inva-dendo la città: si verificò in occasione del triste periodo dell'esilio dei papi, esuli in Avignone, dal 1305 al 1377. Lo spazio vuoto compreso all'interno della città venne convertito, per tre quarti, in terre libere da qualsiasi coltivazione: le stesse miserie e la stessa febbre malarica di pa-lude, che abbiamo già riscontrato in campagna, vennero ad opprimere questi improvvisati campi cittadini. Le abitazioni urbane, tutte sporche e malsane, erano costruite su quei lembi di muri che altro non erano che le vestigia delle superbe antiche costruzioni.

Sopra i palazzi, sotto le terme, e perfino sopra i templi, si scorgevano dei modesti tetti di paglia sotto i quali dimoravano le migliori famiglie : non si beveva che la sola acqua del Tevere, torbida e piena di impurità; gli acquedotti erano stati interrotti o divelti da movimenti tellurici ed i loro formidabili piloni giacevano in terra, come mani dei giganti dopo la battaglia.

Secondo altri studiosi invece la città di Roma, in quel periodo, non avrebbe contato più di settemila abitanti. Fu a questo punto che il papa decise di ritornare dall'esilio di Avignone per poter ancora una volta salvare la città; Roma riacquistò la sua salvezza grazie ai persuasivi con-sigli di Santa Caterina da Siena:

" E' certo che l'umanità debba dei ringraziamenti a coloro che non ab-biano mai abbandonato il suolo natale.

Senza di essi, forse, si dovrebbe oggi mostrare al visitatore straniero soltanto il sito dove fosse sorta Roma, come peraltro si indica al visi-tatore l'arcaico abitato di Veio, di Ostia o di Tuscolo ".

 

( Lanciani, La destruction de Rome antique )

Il ritorno del papa nel suo stato è, allo stesso tempo, uno dei giorni fausti più memorabili della campagna romana. Lo si può paragonare con quell'altro avvenimento anteriore di mille anni, cioè con l'ingresso trionfale Costantino, vincitore di Massenzio.Costui discese dal nord della città dalla parte di rettamente opposta alla strada da cui entrò il papa tornando da Avignone. Costantino entrò in Roma per lasciarvi espandere il Cristianesimo; Gregorio per impedire la morte di Roma.

Preceduto dai gonfalonieri e dai magistrati il papa fece la sua entrata il 17 gennaio 1377, giorno che resterà per sempre memorabile.

Egli era a cavallo e posto sotto un grande baldacchino, circondato da una magnifica parata di cavalieri tra i quali si potevano contare almeno undi-ci cardinali. La città semi - deserta , affamata, provata dai tormenti di sete e di febbri malariche, si svegliò improvvisamente per dedicarsi a pub-bliche feste : essa si sentì alfine alquanto rianimata.

La città seppe trovare i dovuti incensi, i cantici e i fiori per abbellire l'ac-coglienza tributata al padre della patria.

Quando venne sera, costui si recò in preghiera presso la tomba dell'Apostolo, trovandola illuminata da ottomila lampade. L'affidamento e la fede dei fedeli che erano stati abbandonati fecero dei prodigi per testimoniare la loro riconoscenza. Il Senato e il popolo romano eressero un monumento. Un bassorilievo, dello scultore Olivieri, ci ha trasmesso la rappresentazione della scena della processione. Si vede il papa che si avvicina alle porte della città per fare il suo solenne ingresso attraverso i campi, nella cinta delle merlate mura. Ma Gregorio dovette riconoscere che la grande Roma, la meraviglia del mondo, era allora ridotta ad uno stato inferiore a quello delle più piccole città del territorio romano.

I popolosi centri della campagna potevano mostrargli i loro edifici pub-blici e privati come magnifici esemplari che infondono speranza. Tivoli, Viterbo ed altre città di secondo piano erano tutte più fiorenti di Roma !

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Uno speciale tratto della storia della Campagna è l'influenza e il potere dei suoi feudatari nelle decisioni riguardanti la vita di Roma.

La nobiltà diveniva tal mente potente che essa era in grado di dettare, dall'alto dei suoi fieri castelli, le più importanti risoluzioni di politica.

All'interno della città cominciavano ad originarsi oscure fazioni : era però nei campi che esse dispiegavano le loro bande di avventurieri.

Esse mettevano in atto dei veri assalti e dei veri combattimenti , so-prattutto in occasione della elezione del papa.

I conclavi non potevano più esplicare i propri mandati con la dovuta in-dipendenza. Una volta affermatesi queste cattive abitudini non sorprende affatto che alcune famiglie, che si accaparravano i favori con il loro coraggio o la loro violenza, siano pervenute ad imporre i loro mal-vagi desideri: il sovrano pontefice non doveva forse la sua elezione, fino ad un certo punto, all'intrigo di costoro ? I conti di Tuscolo, ad esempio, i fondatori dell'illustre famiglia dei Colonna, decisero da soli l'elezione di parecchi papi.

Capi turbolenti ed autoritari essi furono talvolta la causa di molte ri-volte facendo sì che il papa dovesse quindi ricorrere alle armi per sottomettere la Campagna e ricondurla sotto l'antico diritto.

Nel corso del 12° secolo la ricchezza e il potere dei conti di Tuscolo toc-carono un tale degrado che i loro domini e le loro proprietà vennero ad estendersi da Tu scolo fino alle porte stesse di Roma, e da qui fino al mare.

( Abbate, Guida alla Provincia di Roma )

 

A fianco di questi potenti signori e di altri loro simili, come i Frangipane, gli Orsini ed i Caetani, che dettavano la loro legge nelle zone di Campagna altrettanto bene di come lo facessero in città, erano sorti i cosiddetti baroni:costoro, forse perché meno numerosi , mostravano altrettanto più orgoglio e spirito turbolento. Essi coprivano di torri merlate tutte le colline e tutte le loro proprietà che si trovavano all'interno della città. Il paesaggio assunse quell'aspetto ostile, straniero, che le stampe e le pitture dell'epoca hanno per noi conservato. Da ogni angolo si ergevano torrioni che tagliavano di netto le ondulanti linee dell'orizzonte; in città esse si slanciavano in alto come per sorpassare, in altezza, le più alte costruzioni e i campanili. La tomba di Cecilia Metella era sempre stata la più bella e la più semplice delle monumentali costruzioni della Campagna; eccola dunque tutta sfigurata dagli edifici feudali : la sua elegante mole non è altro che il supporto e la base di sedici torri che fanno corona al castello dei Caetani.

Accadde anche che i duchi e i conti iniziarono a disputare con gli altri nobili, soprattutto con i terribili baroni: queste controversie avevano origine dalle opinioni politiche che dividevano Roma oppure dalle stesse ambizioni di quei rivali che si facevano lotta. Erano come le bat-taglie tra pesci nelle quali i più grandi mangiano quelli più piccoli. I titoli secondari iniziarono allora a cadere in disuso: molti sparirono del tutto. Ecco la spiegazione di quelle strane rovine che occupano ancor oggi i più bei siti di Campagna.

Vi sono castelli , torri e borgate di cui si è perduto il ricordo , lo stesso nome: non si sa più a chi siano appartenuti né in che periodo abbiano cominciato ad esse re distrutti. Se essi avessero avuto origine dai tempi classici, lontani di mille anni, il mistero che li copre sarebbe meno affascinante e forse sarebbe anche meno oscuro.

Più tardi, precisamente nel corso del XVII secolo, noi possiamo imbatter-ci in nuovi appellativi tra quelle famiglie nobili che governarono le zone di Campagna dividendosene le zone di influenza. Sono i Doria , i Borghese, i Torlonia , i Barberini ecc. ecc.

I tempi delle guerre intestinali e della vita aspra e violenta è passato alle spalle.

Al contrario i lavori agricoli si praticano con molto più piacere e dol-cezza: nelle vicinanze della città si ergono, dopo un'accurata scelta dei posti più panoramici, quelle graziose ville romane che resteranno in vita come veri gioielli della natura e dell' arte.

Il papa Pio VI, consacrato nel 1775, poté intraprendere in quella epoca alcuni importanti lavori nell'Agro Romano. I campi di battaglia, campi di morte, cedettero il posto a campi di coltura, a campi di allevamento.

Il nome di questo papa è rimasto collegato alle prime opere di bonifica. Si sa che, a seguito delle guerre delle fazioni, la malaria era penetrata, peraltro incoraggiata dagli uomini che abbandonavano la terra, fino all'interno della stessa città.

La situazione della regione restringeva il problema delle febbri ma-lariche in un circolo vizioso : persino ai nostri giorni non siamo ancora del tutto usciti da questo problema.

I campi erano inospitali perché non erano coltivati e non li si coltivava perché erano inospitali. Pio VI avviò risolutamente le prime opere di bonifica per favorire lo scolo delle acque. La sua principale preoccu-pazione, dopo aver fatto tracciare appositi canali per disseccare le paludi Pontine, le più infette di tutte, fu quella di escogitare una retta distribuzione delle proprietà.

Questa indagine permise di constatare che la quinta parte del territorio non era in possesso che di tre soli proprietari.

Il papa mise in atto tutti quei metodi di riscatto delle proprietà da queste manomorte ma tutti i suoi domini vennero ad essere invasi dalle truppe della Rivoluzione Francese: si stava per fondare la Repubblica Romana. Dopo questa inattesa invasione fu la volta delle locali insurrezioni contro lo straniero. I Napoletani, con a capo il famigerato Fra' Diavolo, presero parte alla lotta. I Francesi dovettero evacuare la città e la Campagna, ritirandosi a Civitavecchia.

A questo punto sopravvenne la più imprevedibile delle vicissitudini. Poco tempo dopo, l' antico Lazio e la Campagna Romana, terra dei discendenti di Enea e signori dell'universo, regno terreno o seggio della Chiesa cattolica nel corso del 18° secolo, non doveva più esistere che in condizioni veramente incredibili.

Napoleone, prendendo di per sé il posto di Carlo Magno, annulla la cessione fatta al sovrano pontefice e crea un dipartimento francese del tutto nuovo, il Dipartimento del Tevere !

 

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Abbiamo fin qui tracciato, in grandi linee, la storia della Campagna. Allunghiamo ora lo sguardo, prima che non sia troppo avanzato il giorno romano, su alcune delle città e alcuni siti agresti che attualmente esistono e si schiudono di fronte a noi, studiamo un poco queste popolazioni nuove, nascite recenti, necessarie all'attività della regione. Non c'è uno solo di questi posti che non possieda le sue particolari bellezze, sia naturali sia pertinenti all'arte.

L'interesse storico ed archeologico nascerà, nel visitatore, ad ogni visita, ad ogni passo. Rimireremo, ancora una volta, sia i monti che le colline, le valli, i fiumi ed i ruscelli: rassegna positiva questa volta, in cui tutte le cose appariranno sotto il loro vero odierno aspetto.

Dopo aver superato porta San Paolo, si giunge, a circa due chilometri, dinanzi alla basilica che porta lo stesso nome e che, potrete constatare, gareggia con quella di San Pietro, se nondimeno abbiate l'occasione di visitare anche quest' ultima.

( cfr note in appendice " Giubileo 2000, Storia degli anni santi e delle basiliche cristiane romane ) .

Se poi, alla prima biforcazione delle vie che vanno verso il mare, si dovesse prendere quella di sinistra, non si tarderà a raggiungere l'abbazia delle Tre Fontane. Molto tempo prima di giungervi ci si può rendere conto della sua vicinanza alla sola vista degli eucalipti che qui crescono come piante di alto fusto.

E' una fondazione relativamente recente creata dai fra ti Trappisti che non hanno avuto affatto paura della morte.

Il sito era oltremodo pestilenziale perché invaso, all'inizio di ogni estate, da nugoli di perniciose zanzare che iniettavano con i loro aculei, come se fossero lance, l'inoculazione fatale della malaria. Questi bravi religiosi , che non parlano mai, rispondono alle domande con segni affabili ed intelligibili. Colui che è preposto a ricevere le visite è il solo di essi che abbia una lingua ed una voce. Al termine di alcuni anni di penoso la-voro questa porzione di Campagna fu pressoché risanata e bonificata. Ci sono tre chiese una affianco all'altra: in quel la di fondo sono state sistemate le tre fontane che danno nome a questo luogo di pel-legrinaggio. La tradizione designa questo luogo delle tre fontane come quello corrispondente ai tre balzi prodigiosi che compì la testa di San Paolo nell'atto in cui essa cadde a terra, mozzata e staccata dal corpo per mezzo della spada del carnefice.

Ostia si trova ad una distanza di ventuno chilometri; ci si arriva tramite l'altra strada che abbiamo lasciato alla nostra destra.

Il viaggiatore romantico non saprebbe reprimere, prima di arrivare, una certa emozione di fronte alla vista di Laurento, la città madre dei Latini: il sito di questa città rimane poco distante sulla sinistra ma non si sa più dove esista precisamente il luogo archeologico.

Forse esso potrebbe essere l'attuale castello, molto noto, di Tor Paterno, o più precisamente la piccola borgata di Capocotta, a circa quattro chilometri e all'interno della zona.

Tutti questi paraggi sono rigogliosi di vegetazione fino al limite del litorale marino:esistono ancora delle piante di alloro che crescono e si sviluppano in ottime condizioni climatiche. Lo spirito si distende sotto l'influenza di questi ricordi e si dilata commosso dalla grandezza che ispira la culla latina e da questa atmosfera luminosa e leggera in cui le nuvole riflettono vivamente i lampi scintillanti della plumbea sabbiatura. Questa piana immensa e questi arbusti che abbiamo sotto lo sguardo, quest' aere sempre puro, fresco e gradevole, fanno bene ai sensi, al cuore e all'intelletto. La moderna città di Ostia è un sito colmo di melanconica pace: ciò che le conferisce ancora una certa importanza è unicamente il fatto di rivestire la funzione di peristilio del vecchio porto dei Romani, attualmente scomparso, porta superba ed orgogliosa città che oggi giace come un cadavere sotto le spesse coltri di polvere e di resti urbani. Alcuni operai, lavorando in silenzio, effettuano fruttuosi scavi: vengono dissotterrati dei bei sarcofagi di marmo; ancor prima erano sta ti trovati degli scheletri, delle anfore e dei vasi di terracotta: il tutto giaceva sotto una strada che fu un tempo la più trafficata della città. I trecento abitanti attuali di Ostia vivono sopra i resti di ventimila abitantidell'antica Ostia. Essi offrono alla curiosità ed alla moderna ricerca il tesoro delle loro strade, i loro palazzi, i loro templi divenuti silenziosi. E' una nuova Pom-pei, non sepolta sotto la lava e la cenere ma distrutta dalle inondazioni e coperta dalle sabbie del Tevere. La corrente del fiume si dirige sempre verso la stessa parte di litorale ed essa potrebbe invadere la città per sommergerla se essa esistesse ancora.

Questa distruzione comunque era stata innanzitutto iniziata dai pirati e dai Saraceni: essa fu ultimata nel tempo, nel corso dei secoli di decadenza e di abbandono. Ecco la spiegazione di questo aspetto di cimitero senza croce, di luogo desolato, quantunque verde e fertile, che offre la vista di queste rovine.

Le volpi vi trovano oggi riparo mentre i voraci e selvaggi cinghiali vi si nascondono per sfuggire ai cacciatori. Non si penserebbe mai che questo luogo si possa trovare soltanto a mezz'ora di automobile dalla città; si crederebbe piuttosto che esso sia molto lontano da qualsiasi centro - città . Gli uomini della zona percorrono la Campagna cavalcando pelosi cavalli : essi indossano in testa un grande cappellaccio di cencio scuro e girano armati di un fucile a doppia canna, ben sistemato in sella.E' con quest'acconciatura e con tali armi che essi rimpiazzano gli antichi sog-getti del re Latino. Coloro che non appartengono alla colonia di Ostia moderna vivono con le loro famiglie sotto delle capanne coperte di paglia e di rami, tutto come in certi luoghi dell'America latino- spagnola . E' vero comunque che essi non vi restano ad abitare che per il solo inverno : dal momento in cui la calura ritorna a farsi sentire, peraltro accompagnata dall'inevitabile malaria, essi tornano nei loro villaggi, nelle montagne della Sabina e degli Abruzzi , da dove erano scesi a valle. In queste capanne si trovano uomini, donne e bambini dai modi rozzi e quasi selvaggi: essi rispondono alle domande del forestiero con una certa durezza e diffidenza.

Anzio, con il suo delizioso porto, è superiore a Ostia, senza timore di essere contraddetti: la sua posizione vantaggiosa è data dalle sue strade spaziose e dai suoi discreti palazzi; essa conta tremila abitanti che aumentano considerevolmente durante il periodo estivo. Il clima della zona è salubre e ameno. Il nome di Anzio comunque sta per acquistare felicemente una inattesa popolarità, pari a quella che ha reso illustre l'ignota isola di Milo nell'arcipelago delle Cicladi. E' stata trovata, negli scavi dell'antico palazzo di Nerone, dove essa era rimasta sepolta per ben venti secoli, una statua di straordinaria bellezza. Gli studiosi, i conoscitori, le hanno attribuito differenti nominativi. La folla entusiasta però, senza altre spiegazioni, ha adottato la statua come sua figlia. E' una giovinetta molto simpatica, in tutto graziosa, ricoperta da un peplo dalle plissettature della migliore epoca classica. Essa incede portando, all'altezza del petto, un oggetto tutto spezzato che somiglia ad un piatto.

La statua per questo è stata denominata, molto semplicemente, con il titolo di "La fanciulla d'Anzio". Questo nome di bambino viziato, trova-to in famiglia, non le sarà giammai levato.

La fanciulla è felice, robusta e sprizzante freschezza ; il suo portamento ispira graziosità e bontà d'animo : non si può far a meno di vederla per poterla amare, per cercare la sua amicizia, per desiderare uno schiudersi della sua bocca che ispira sincerità.

- Dimmi, cara fanciulla, da dove sei venuta e chi ti ha condotta in questi pa-raggi dai laboratori della Grecia, dove gli dei entrano ed escono liberamente ? In che modo si è proceduto per poterti far attraversare il mar Jonio sempre agitato ? In quale angolo eri posta, di fronte alle turchine acque del mare e in mezzo agli allori rosati della villa di Nerone ? Che pensa di te l'imperatore ? E' vero che tu eri già consacrata al servizio degli dei come fedele sacerdotessa e che la tua pri-ma preoccupazione era quella di non disertare le funzioni religiose ?

E' per questo motivo che, essendo neofita in questi riti, tu rechi in mano con molta attenzione il ramoscello di alloro e il rotolo di papiro che ti è stato affidato? Raccontami, nella tua schietta parlata e facendoci ammirare la tua bella dentatura, i sentimenti e le impressioni che ti hanno accompagnato da quando l'artista ti ha concepito e ti ha dato una forma pregevole , in una materia incorruttibile, fino al tuo ritrovamento ed alla tua bella mostra nel mezzo della capitale delle eterne bellezze. In quella città i cittadini e i forestieri ti am-mirano con occhi compiacenti. Essi fissano, compiaciuti, la loro attenzione là dove la quieta serenità del tuo sguardo pulito non incontra altro che un sentimento che esprime e riflette soltanto la più grande ammirazione.

Affiancata ai monti ed a poca distanza da Roma si trova la piccola città di Frascati. Essa rimane adagiata in mezzo a piantagioni di vigneti e di uliveti: antichi palazzi, circondati da meravigliosi giardini, la incoronano come un diadema.

E' il sito più vicino in cui i Romani sono soliti cercare un periodo di distensione, di piacevole svago e di aria pura. Il suo nome da solo merita una accurata descrizione : Frascati vuol dire ornamento di fogliame, sito verdeggiante e pergole colme di uve. La vista panoramica, che si gode dai suoi terrazzamenti, è una delle più gradevoli del mondo. In fondo alla valle si intravede in lontananza l'intera città di Roma: Il Lazio al completo si dispiega ai piedi della montagna. Se si getta lo sguardo a sinistra si può scorgere il mare; a destra, invece, si scopre tutta la vallata racchiusa tra i monti della Sabina e l'Etruria; là in basso infine si notano già i primi siti della Toscana. Le ridenti chine dei monti, in forma di anfiteatro, sono perennemente ricoperte di alberi, di boschi e di ville che stagliano i loro profili sotto la luce e gli azzurri colori dell'orizzonte lontano.

Le verdi cupole dei platani orientali, i fusti ad ombrello dei pini e i classici giardini pensili che sovrastano le squadrate abitazioni italiane, chiudono l'orizzonte donandogli , con i propri contorni, un ultimo tocco di gusto pittoresco. Ecco le scene che attiravano gli artisti in quell'epoca, nel tempo in cui Claudio di Lorena attese il momento propizio della sera prima per rubare alla natura, in un batter d'occhio, tutte le sue riunite grazie e poi per fissarle sulla tela a buon pro' dei suoi posteri.

La fondazione di Frascati è posteriore all'impero romano. Fu una rigo-gliosa rinascita della vegetazione e della vita umana sulle ultime ve-stigia quasi smorte di una splendida villa appartenuta a Lucullo e più tardi a Domiziano.Tusculo, il sito preferito dei nobili romani, ristagnava nell'oblio nel mezzo delle sue grandiose rovine che si potevano ammira-re dall'alto della montagna. Dopo il Rinascimento si provvide a costruire in tale posto delle sontuose ville, divenute oggi dei palazzi e dei parchi di un enigmatico mutismo.

L'animo è colpito dal contrasto che essi formano con i verdi germogli e le macchie floreali dei graziosi giardini, con le loro casupole dai vario-pinti colori e le screziate palazzine. Gli alberi di queste classicheggianti ville, specialmente i cipressi, hanno raggiunto proporzioni smisurate.

Il tutto è improntato ad un carattere di immobilità e di solennità che si comunica allo stesso essere, soggiogato dalla contemplazione dell'e-norme e profondo nonché immutabile bacino dove si adagia la città di Roma con la sua immortale esistenza. Se si desidera inerpicarsi sulla col-lina , lungo gli stretti sentieri che mettono in comunicazione le ville Lancelotti e Rufinella, si arriva, dopo un'ora di cammino e di scalata, a ciò che resta della famosa Tuscolo. Di tutte le antiche costruzioni non rimangono altro che i gradini del teatro, delle iscrizioni e dei terrei brandelli di marmo, raccolti e risistemati dai monaci del convento di Camaldoli.

I castagni cominciano ad essere abbastanza colmi di frutti a queste altitudini : ce ne sono alcuni che difendono queste rovine, alcuni tratti di una grossa muraglia, ultimi resti forse di un grande serbatoio d'ac-qua. Le vestigia della villa di Cicerone non sono perfettamente localizzate :l'esatto luogo della sua dislocazione è reclamato in proprietà da svariati ed attuali pretendenti. Essi poggia no le loro pretese su qualche brandello di antiche fondamenta che mostrano con grande venerazione: laggiù, essi dicono, è la dimora dell'autore delle Catilinarie. Tivoli, l'antica Tibur, è anch'essa un paese di villeggiatura che gode di un ameno clima. Essa è resa interessante soprattutto dalle rovine dei suoi imperiali templi e da quelle della superba villa di Adriano. Si visita inoltre la gradevole villa d'Este, risalente all'epoca rinascimentale e costruita dall'omonimo cardinale nel XVI secolo.

I monti della Sabina circondano la cittadella con i loro dolci declivi; su questi ultimi si scorgono parecchi castagni il cui verde e gaio fogliame dona piacevolezza al paesaggio e leggerezza all' aere. L'ornamento che, comunque, rimane il più bello e il più raro è tutto quel sistema di bianche e frizzanti cascate formate dall'Aniene, all'interno della stessa cinta della città di Tivoli.

La rapacità degli speculatori ha voluto impossessarsi di queste cascate. Essi le hanno ristrette e canalizzate per mezzo di tubazioni di ghisa per trasformare queste naturali bellezze in forza motrice, in titoli azionari, in rendite vitalizie. E' da qui che perviene in Roma la luce elettrica che la illumina. Per fortuna che tutte le cascate non sono diventate ambita preda di gente d'affari! Ce ne sono rimaste alcune che continua no a far sentire il loro dolce mormorio facendo zampillare in alto gli spruzzi brillanti delle loro acque sguscianti, divise in mille rivoli e che si vaporizzano cadendo su rocce inalterabili.

La classica campagna non è sfuggita all'invasione del moderno pro-gresso. Le linee ferroviarie la circondano da ogni parte: sono degli anacronismi necessari per facilitare gli spostamenti degli uomini . Si ode talvolta un sibilo stridente; improvvisamente appare una locomotiva che traina un con voglio che traccia una curva, evitando l' ostacolo causato da una serie di supporti di acquedotto; l'abbondante fumata biancastra, violentemente sprigionata, non arriva all'altezza della conduttura d'ac-qua sopraelevata. La ferrovia non possiede alcuna o ben poche stazioni periferiche: non ci sono popolazioni da servire con tale mezzo di trasporto. I treni sfrecciano con molta rapidità: essi hanno più l'aria di chi fugge che di chi si avvicina, come infatti se essi volessero sfuggire alla tristezza ed alla solitudine che emanano da questo luogo. Sono sem-pre dei treni di viaggiatori: ce ne sono ben pochi infatti per il trasporto delle merci. Quest'angolo di Campagna non sarà mai un centro di grandi movimenti industriali.

I destini del genio lati no sono più eccelsi: ogni cosa qui si indirizza al cuore e all'intelligenza dell'umanità. Il commercio di Roma è il più attivo del mondo : esso si pratica con ingegno e potrebbe anche sfruttare la strada ferrata.

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Abbiamo già analizzato il singolare aspetto della grandiosa pianura denominata "Agro Romano": abbiamo soffermato sopra di essa i nostri trasognati sguardi sui tempi primordiali, nei secoli dell'impero e nel seguito dei periodi più recenti.Ecco il teatro delle antiche lotte eroiche e dei più grandi avvenimenti della storia; fu in questo lembo centrale di terra che si compì la più formale e la più feconda evoluzione dell'u-manità : fu sotto questo cielo che avvenne, nei cuori e negli animi, la trasformazione più sostanziale e più intima. Sottolineiamo ora la ricca varietà degli elementi naturali che costituirono questo territorio. Davanti le montagne che lo delimitano si estendono immense pianure verdi, dei grandi lotti coltivati, dei laghi e delle paludi, dei cumuli di rocce, delle sinuose valli, degli altipiani erbosi o coperti di querce o di pini; infine, sulle cime dei monti sono infossati dei crateri rimasti aperti quando i vulcani si estinsero. Imponenti rovine, grandiose, come quelle di acquedotti, di terme e di sepolcreti, sembrano essersi radicati da soli sopra questo suolo tutto impregnato di storia feconda. I sette colli dell'Urbe sono stati resi meno aspri, quasi appianati, dai cumuli delle dirute rovine, dalle piogge dei numerosi secoli trascorsi, dai danni di guerra e dal fuoco devastatore. Esse non sono altro che delle linee on-dulate dominate da qualche palazzo nobiliare o da qualche tempio.

Il Campidoglio è sormontato dalle colossali impalcature del colonnato che sta a commemorare il re Vittorio Emanuele II e l'unità d'Italia.

Dei cupoloni semi - sferici, coronati da lanterne e da grandi pomelli che servono da sostegno alla croce, si sono disseminati in tutto l'esteso panorama di Roma.

Essi sottolineano la differenza essenziale tra questa Roma formata fati-cosamente dai papi in mezzo a tante difficoltà, ora sviluppate dagli Ita-liani, e l'antica Roma cesariana, distrutta dai barbari esternamente e dalle fazioni al suo interno.

Diritti, sereni ed immutabili, avvolti nei loro mantelli di marmo, ecco i santi che, sugli elevati frontoni delle basiliche, montano di guardia tra il cielo e la terra.

E queste figure nere e severe che si distaccano sui tetti delle case ed al di sopra delle logge dei palazzi, sono gli Apostoli di bronzo, che sovrasta no i capitelli e le trionfanti spirali delle colonne erette un tempo alla gloria di Traiano e di Antonino.

colle Vaticano sembra erigersi lontano dalla via comune e del gruppo dove brillano le sue colline sorelle sotto il sole pomeridiano: esso estende i suoi giardini, il suo tempio, le sue elevate mura e i suoi palazzi sacri nel mezzo di un quartiere isolato. Naturalmente è il tempio che domina con la sua massa tranquilla e con il suo benefico aspetto. La sua semi sfera, di un colore grigio perla, copre e protegge la tomba del primo dei vicari del cielo, di Pietro il pescatore di Galilea. La città, la campagna, il Lazio, le montagne popolate da differenti popolazioni e l'intera regione visibile all'orizzonte, tutto si sottomette a questo monumento amato da ogni parte. I cittadini lo chiamano familiarmente "Cupolone".

Tali fortunati abitanti di Roma lo possono scorgere da ogni lato ed inviargli le loro familiari carezze. Essi sentono ed apprezzano istin-tivamente la forza, la pace e la gloria che da lì si irradiano. Essi credono di scorgere l'irradiazione eterna delle virtù care al cristiano.

Le aquile dagli occhi penetranti non si fanno più vede re in cielo. Delle colombe, amiche dei templi, uccelli di alleanza e di concordia, che sono attirate dall' odore di incenso, volteggiano al di sopra delle chiese ed attorno ai campanili. I loro spassosi volteggi non alterano affatto la calma di tale scenario.

L'intero aspetto della città comunica all'anima dei sentimenti pacifici , delle rassicuranti emozioni.

Si prova, senza volerlo, l'effetto di vicinanza di questo grande focolare melanconico che porta in lui e dirige verso l'universo tutti gli abbracci della carità di Cristo. Gli avvenimenti politici non potranno mai to-gliergli questo carattere.

Questi lampi che vengono da lontano, questi gioielli brillanti incasto-nati nella ricca montatura del vermiglio autunno, non sono che i riflessi inviati, attraverso la campagna latina, da Tivoli, Frascati, Grottaferrata, Marino, Castel Gandolfo e Rocca di Papa, città svogliatamente distese al-la fine del giorno sulle coste delle vicine montagne.

Se si osserva bene questa pianura che ci separa dai pendii del Lazio , si può apprezzare più facilmente qual’ è la sua fisionomia al bagliore dei raggi spiegati del sole.Non è un terreno completamente piano, come si è indotti a credere. Oltre gli altipiani, la pianura è spesso interrotta da piccole valli allungate il cui umido fondo forma dei burroni poco profondi, dove scorrono piccoli ruscelli o umili sorgenti d'acqua.

La pianura consta di più di duecentomila ettari di superficie: la sua altezza sopra il livello del mare è assai modesta. I viaggiatori che la contemplano per la prima volta dalla finestra di un vagone, subiscono un'impressione di monotonia e di abbandono, poiché infatti essa è , al-l'apparenza, un territorio inospitale, steppa spoglia dell ' occidente , dove non si arriva se non perché lì vicino vi è Roma. Il Tevere, almo padre di questi paesi, si snoda su un lungo percorso. Trecentosettanta chilometri separano le sorgenti, nel monte Coronaro, dal suo estuario nella riva di Ostia. Esso traccia le sue curve più pronuncia te proprio at-traversando la città: vuole così renderle l'omaggio curvandosi davanti al suo avvicinarsi, e rallenta il suo corso per godere più a lungo del suo sacro contatto. I rivieraschi dicono che il Tevere è un fiume fanciullone, che le sue piene sono modeste e che se arriva a straripare, gonfio dalle piogge o ingrossato da gli affluenti, ciò non dura che qualche breve tempo. Prima di chiamarsi il Tevere il suo nome era Albula, Biancastro:la sua acqua era di tale colore alle sue origini. Esso porta attualmente il nome del gigante Tybris, re dei Toscani, gettato nelle sue acque dopo aver trovato la morte in un terribile combattimento con Glauco, figlio di Minosa. I suoi afflu-enti sono numerosi ma privi di impetuosa portata d'acqua: il loro corso così esile ricorda quei fanciulli che si arrampicano sopra un vecchio , come abbiamo già menzionato in una precedente descrizione. L'Aniene è il più consistente tra questi affluenti: lo si chiama ora Teverone, nome familiare datogli dal popolo romano. Il suo vero nome italiano è appunto Aniene: esso discende i monti della Sabina e la sua confluenza con il Tevere si trova a monte della città e dirimpetto alla via Flaminia. Esistono altri corsi d'acqua che si vedono in lontananza, che svolgono attraverso la campagna verde i loro bei nastri argentati. Essi portano una ben piccola quantità d'acqua e il loro corso è molto limitato: appena usciti dalla sorgente essi vanno a gettarsi diritti verso il mare, non cercando minimamente di contribuire ad ingrossare il fiume. Il Numico merita una menzione speciale: esso serve da linea di demarcazione tra antichi possedimenti dei Rutuli e quelli dei Latini. Le sue acque cristalline si dischiusero e seppellirono per sempre Enea: il fracasso della battaglia fu causa di canti funebri. Tra questi fiumi ce ne sono alcuni che formano degli stagni e dei laghi prima di giungere al termine della loro corsa. Queste acque stagnanti dove le piante e i residui si decompongono durante l'estate, favoriscono lo sbocciare di quelle malsane zanzare che trasmettono all'uomo le febbri di paludi, la malaria.

Si credeva fino a questi ultimi tempi che le esalazioni degli acquitrini fossero la causa di questa malattia: è invece scientificamente provato ora che gli agenti infettivi sono le zanzare. Ecco perché gli abitanti della campagna hanno dotato le loro porte e finestre di piccole reticelle che non fanno filtrare altro che l'aria e la luce del giorno. Questa causa ( fatto assai curioso ) è stata già segnalata nell' antichità da uno scienziato che sembra aver scoperto anche i microbi. Varrone, per nominarlo, parla di "minuti corpuscoli invisibili" che nascono sulle acque morte e che provocano le malattie degli uomini.

I venti trasportano questi miasmi, questi piccoli esseri malsani e li spandono su tutta la campagna: ecco la causa principale della sua de-solazione. Non si deve dunque credere ciò che afferma Madame de Stael nella sua opera classica intitolata "Corinne ou l'Italie" ; essa qui descrive l'isterilimento del suolo stanco di produrre. Le terre di campagna, si dirà al contrario, non si stancano mai di produrre : esse so-no, in genere, straordinariamente fertili.

E' stato provato, per esempio, che in uno stesso terreno, al Foro Appio, fu praticata la semina per trenta anni di seguito e le raccolte non diminuirono affatto. La rassegna dei corsi d'acqua che noi abbiamo passata porta a parlare del fiume di Ninfa, il Ninfeo: appena che esso sorge va scomparendo subito a poca di stanza, nelle immediate vici-nanze delle Paludi Pontine, in direzione di Terracina.

Il fiume, il lago e la città di Ninfa sono luoghi ammalianti, avvolti di mistero e di magica bellezza ( A ). Se ciò è un fascino per gli artisti esso è assolutamente una disperazione per gli storici e gli archeologi. C'è in quel sito, non si sa più esattamente a che epoca, un tempio dedicato alle ninfe.I cristiani, venuti più tardi, si servirono di quei muri e di quelle colonne per erigere, sullo stesso posto, un santuario in onore dell' arcangelo San Michele, capo delle milizie celesti.

 

( A ) : vedi nota in Appendice sulla storia e la leggenda di NINFA .

 

 

 

Si sa ancora che nel corso del XII secolo, tale luogo fu un piccolo feudo dei potenti ed ambiziosi Frangipani e divenendo, allo stesso tempo, un teatro, per molte riprese, delle lotte tra i Guelfi e i Ghibellini; costoro incendiarono tutto e malauguratamente non si conosce più altra ulteriore notizia. Il fiume appariva in superficie sotto forma di una sorgente molto limpida: essa, ancor oggi, ristagna dopo i suoi primi passi per formare un laghetto, molto limpido anch'esso, in cui si riflette una torre medievale. Or dunque, a sostegno della sua origine, non abbiamo né minore storia né minore tradizione. La torre comunque non è realmente isolata, come potrebbe sembrare al primo impatto.

Esistono, ad essa molto vicine, altre rovine poetiche, di altre costruzioni misteriose: monasteri, chiese e dimore particolari. Una sorniona quiete ed un'atmosfera perfida riempiono questo deserto di Ninfa. Senza dubbio sono queste acque stagnanti che, non potendo scorrere per i canali ed i fossati ostruiti, divengono la causa di queste stregonerie. Le febbri e le altre malattie hanno impedito che gli uomini restassero ad abitare tale angolo di palude da almeno sei secoli a questa parte. Le anatre selvatiche ed i corvi sono rimasti i padroni del lago e della città, che una volta era tanto fiera. Al contrario i fiori, la cui purezza e la cui delicata conformazione sfidano i capricci del tempo, si sono moltiplicati con tanta abbondanza, in mezzo a tale affascinante sito, che non si possono contare le svariate e belle specie: ci sono delle malve di parec-chie varietà, dei cespugli di rose cani ne, di narcisi nonché dei gigli e delle margherite dai petali dorati. Qui crescono tutte le migliori specie di piante e fiori da giardino, come altrove crescono le cattive erbe. Gli allori e gli olezzanti cespugli di ginestra distaccano i loro fusti su tale insieme tutto fiorito. Le edere hanno già ricoperto con il loro scuro e fe-dele mantello tutti i muri e le torri. I cardi selvatici, dal pelo bianco appuntito e pungente, circonda no il lago con i loro gambi capricciosi e lussureggianti. Ecco dunque la città enigmatica di Ninfa.

E' Ofelia, la fidanzata di Amleto, languidamente distesa nel suo letto di acque trasparenti: essa svanisce e scompare, come un'illusione, tra le canne dei giunchi acquatici e le ampie foglie dei ninfei che fluttuano sulla superficie delle acque luminose di queste lagune paludose della morte...

 

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Appendice

NINFA : STORIA E LEGGENDA

A) LA "STORIA DI NINFA" :

Ai  margini della " Via Consolare Pedemontana ", ( * )  proprio sotto  la  rupe di Norma, a lato di un limpido  laghetto  formato dalle acque del fiume Ninfeo, nell’VIII secolo d.C. si insediò un modesto nucleo di persone che avevano abbandonato la diruta  Norma. Il  luogo era ricco di terreni fertili per  l’agricoltura  che consentivano la coltura di vigneti, oliveti e ortaggi. Il piccolo borgo medievale di Ninfa, ai piedi di Norma, crebbe di importanza con l’abbandono della via Appia e della via  Setina a vantaggio della "Via Consolare Pedemontana".

( * ) Tale  via Pedemontana era quella strada di epoca  romana ai piedi dei monti Lepini, peraltro già esistente e di origine  volsca, che univa a Velletri ed a Roma le città periferiche di  Cisterna, Cori, Norma, Sermoneta, Sezze, Priverno, Terracina. Questo percorso, quasi contemporaneo alla via "Appia" e ad essa alternativo ( soprattutto in caso di frequenti allagamenti  di quest’ultima), si sviluppò lungo la base dei monti Lepini, facendo crescere d’importanza gli insediamenti creati dalle popolazioni di pianura, fuggite sui monti a causa degli allagamenti e del le invasioni saracene.

Questa strada iniziava ai piedi dei monti Lepini presso  l’antica "statio" romana di Cisterna e proseguiva per Ninfa, s’allungava poi ai piedi di Norma e Valvisciolo, lambiva quindi Sermoneta,  Bassiano, Sezze, Priverno, Fossanova , arrivando infine  a congiungersi con l’Appia poco prima di Terracina. Sotto Sermoneta si trovava in funzione, e si trova tuttora ma  in stato  di abbandono, la suggestiva Torre del Monticchio. Essa  fu costruita  dai Caetani, che la ressero per secoli, e fu  posta  a controllo della sottostante via Pedemontana. Oggi essa si presenta al visitatore in una posizione singolare, infatti il  "Monticchio",  ovvero la collinetta su cui era stata costruita, è stata letteralmente  divorata da una cava, che ha risparmiato  solo  il banco  di roccia su cui insiste la stessa torre, ormai  diventata isolata ed inaccessibile. Nel 1700 il Pantanelli così descriveva la torre: "Tra lo Ninfeo e la via Papale s’erge ameno monticello, composto delle medesime pietre naturali dei nostri monti e vestito  d’arbori  d’oliva e da ghiande, appellato il Montecchio..." Inoltre, sempre nel ‘700, lungo il percorso di tale via, sorgeva no delle stazioni di servizio per il cambio, il riposo ed il  foraggiamento dei cavalli: Di questi luoghi chiamati "Poste", ve ne era  uno sotto Sermoneta sul quale i Caetani esercitavano il  di ritto di riscuotere un pedaggio dai passeggeri in transito. Quando per la Posta passava un membro di tale nobile  famiglia veniva sparata una salva di dodici colpi di cannone dal  Castello sermonetano a spese del Ministro dell’Eccellentissima Casa.Nel  territorio di Sezze invece, proprio nei pressi della  stessa Pedemontana, si potevano ammirare, in epoca romana, le costruzioni  di ville romane, costruite soprattutto nel I secolo  a.C.  ed abitate da nobili famiglie per alcuni secoli. La più nota,  anche perché ancora ben conservata, è la villa detta "Le Grotte", di cui restano ancora dei cospicui resti. Tali vestigia ci fanno in tendere  che  trattavasi di una grande villa a terrazze  che,  in virtù della sua notevole estensione, della sua maestosità e della presenza di grandi cisterne, doveva necessariamente avere un  carattere latifondistico . Alcuni studiosi del secolo scorso identificarono questa costruzione con la villa di Mecenate, altri  parlano delle terme di Augusto. Papa Zaccaria nel 743 ebbe in dono dall’imperatore Costantino Copronimo il possedimento di Ninfa, che con altri paesi costituirono poi il nucleo del patrimonio della Chiesa nel sud del Lazio. Il borgo divenne comune fin dal 1118 ( L’anno stesso della  morte di  Lidano) per concessione di papa Pasquale II che,  con  nobile gesto,  si degnò di conferire il feudo di Ninfa non ad un  casato signorile ma al popolo stesso. Venne così regolata l’amministrazione comunale e regolati con magnanimità i rapporti con il governo centrale di Roma. L’abitato così si espande completamente, fioriscono i commerci  e sorgono numerose torri signorilità sua ricchezza comincia ad interessare molti signorotti locali e romani. Dopo alterne vicende di spadroneggiamenti vari da parte dei conti di Tuscolo su tutto l’agro pontino, il papa Eugenio III nel  1146 offrì il feudo di Ninfa, con piena fruizione delle rendite percepite dalla Chiesa, a Cencio ed ai nipoti Oddone ed E.Frangipane. Nel  XII  secolo ci pensa Federico Barbarossa a  spezzare  questo ricco  borgo medievale distruggendolo completamente  durante  gli anni che vanno dal 1159 al 1167. Tutto  questo fu causato da furiose lotte di carattere feudale  e religioso  che sopravvennero dopo l’incoronazione del papa Alessandro  III (al secolo Rolando Bandinelli di Siena): tale  nobile senese venne consacrato papa il 20 settembre 1159 proprio  nella Chiesa di Santa Maria Maggiore della stessa Ninfa. L’incoronazione  era  stata a lungo osteggiata da  Federico  al punto tale che detto casato dei Bandinelli, non sentendosi sicuro neanche in Roma, si rifugiò a Ninfa per procedere sbrigativamente alla consacrazione papale del citato Alessandro III. Dopo  otto anni di saccheggi e di distruzioni lo stesso  Federico dovette però arrendersi e sottostare, umiliato, dinanzi alla  potenza dello stesso papa a lungo osteggiato. Il  tutto si risolse con una pace e con un perdono totale ma  ciò non valse a salvare Ninfa che era stata orribilmente distrutta. Ninfa  in  verità era divenuta una splendida  "  città – giardino " , ricca di superbi monumenti e dotata di un piano urbanistico vera mente ammirevole.La città, con la pace riacquistata, passò momentaneamente in possesso  dei Frangipane e poi degli Annibaldi, che la tennero  fino al 1297, quando la cedettero per 200.000 fiorini d’oro alla fami glia Caetani, i quali poi per secoli, tranne una breve  parentesi di dominio Borgia, ne furono i legittimi proprietari. A  protezione del borgo per tutto il medioevo dominava una  slanciata torre con merlatura ghibellina, a pianta quadrangolare, al ta m.32,fatta costruire da Pietro Caetani proprio nel 1300 (ancora  oggi  esistente ed in buone condizioni), che  si  specchiava nelle limpide acque del lago. Esisteva inoltre, a difesa  dell’abitato, una poderosa cinta di mura. In quegli anni Ninfa poteva disporre di oltre 150 abitazioni e di due mulini per cereali. Nel suo territorio Ninfa ospitava ben nove chiese: ben  sette chiese erano state costruite al suo interno ( S.Maria Maggiore,  S.Biagio, S.Salvatore, S.Leone, S.Angelo,  S.Marino  e S.Quinziano);  altre due chiese invece, quelle di S.Pietro  e  di S.Clemente, sorgevano fuori le mura.

 

 

Negli ultimi mesi del 1992 sono state rinvenute, quasi casualmente, vestigia di ulteriori edifici medievali finora sconosciuti. Nelle vicinanze della città era presente anche il grande monastero di S.Maria delle Marmore(o Marmosolio), identificato da alcuni con l’abbazia di Valvisciolo mentre da altri storici ( tra i qua li il cardinale Borgia di Velletri) viene collocato presso  Doganella, dove la presenza di cave di travertino avrebbe giustificato l’appellativo delle Marmore.( * )

( * ) Percorrendo la via Appia, poco prima del bivio per Latina  Scalo, si vede chiaramente in lontananza la monumentale abbazia di  Valvisciolo,  situata  nel  territorio  del  comune  di Sermoneta. Riportiamo di seguito alla presente appendice, certi di fare cosa gradita  a tutti, la complessa e millenaria storia  di  detto luogo di culto.

Dopo una lenta ricostruzione Ninfa passò sotto il dominio di  Ottaviano Conti, consegnatagli in feudo da Innocenzo III nel 1216. Alla  fine del XIII secolo Ninfa si ritrova ad essere  sotto  la mira dei Caetani che, con l’intento di possederla  completamente, cominciarono  ad acquistare vari appezzamenti del paese.  l’opera di appropriazione di detti Caetani fu favorita anche da Bonifacio VIII che, pochi anni prima di morire, donò in concessione feudataria ai suoi potentissimi parenti non solo Ninfa ma quasi tutto il territorio pontino.

Fra le famiglie di antica nobiltà che ebbero feudi, ducati e possedimenti nel territorio dell’attuale provincia di Latina, quella dei  CAETANI è la più antica, e quella che per molto tempo  riunì sotto  il proprio segno "nobiliare" il territorio che va  da  Cisterna al fiume Garigliano. A questo casato sono legate molte vicende  storiche pontine. Originaria di Gaeta, cui dette  duchi  e ipati nei secoli IX e X, la famiglia dei Caetani ha dato vita  a diversi "rami". I più importanti sono stati i Caetani  d’Aragona, i Caetani di Sermoneta e i Caetani di Fondi. Questa potente fami glia  ha dato alla Chiesa quattro pontefici, fra  cui  Bonifacio VIII, e ben ventotto cardinali. Guerre, alleanze, matrimoni, hanno contrassegnato la storia e  i rapporti con altre casate italiane, quali i Gonzaga , i Medici,  i Colonna, ed altre. A differenza di queste, ai Caetani non  riuscì il disegno di formare una loro Signoria, fra lo Stato  Pontificio e il Reame di Napoli, sia per gli interessi del Vaticano sui territori pontini, sia per l’opposizione di importanti comunità, fra cui SEZZE, che non ebbero facili rapporti con la famiglia  Caetani.Nel  secolo successivo, pur essendo feudo papale, Ninfa  venne ugualmente sconvolta da rappresaglie, da saccheggi e da  distruzioni.Infatti il 14 settembre 1328 Ludovico il Bavaro, per vendicarsi del rifiuto del pontefice( Giovanni XXII) di incoronarlo imperatore, ordinò ai suoi soldati di attaccare la città, castelli  e territori che appartenevano al papa o che erano feudi della Chiesa.I soldati bavaresi piombarono anche su Ninfa, ne  infransero le mura e saccheggiarono case, chiese e granai. Alla  fine si misero a distruggere tutto ciò che  restava  del borgo e finirono la loro opera devastatrice incendiando tutto:  i cittadini ninfani, annichiliti da tale inaspettata ferocia, furono presi da grande timore e, tra grida e pianti di  avvilimento, fuggirono, come impazziti, fuori dalle mura , cercando di salvarsi nelle zone limitrofe che non erano state assalite.Nel 1330 la città, comunque, passò completamente sotto il dominio dei Caetani che provvidero a restaurarla dalle sofferte distruzioni.

La  pace e la prosperità di Ninfa durarono pochi anni perché la città si trovò ben presto coinvolta nelle  sanguinose  guerre seguite allo scisma d’Occidente.Tutto iniziò il 20 settembre 1378 quando in Fondi, nella chiesa di S.Pietro, venne eletto l’antipapa Clemente VII ( al secolo Roberto  di Ginevra), sotto la protezione di Onorato  I  Caetani, conte di Fondi nonché cugino dei padroni di Ninfa. Fu  questa  incoronazione la causa scatenante sia  del  citato scisma  e sia delle violente contese che ad esso susseguirono  in tutto il territorio italiano, pur tra nobili dello stesso  casato ma di opposti schieramenti politico - religiosi. Nel  1380  quindi i Caetani di Ninfa non riuscirono  a  fermare l’immane saccheggio della città da parte delle truppe inviate dal cugino Onorato I.

Benedetto  Caetani, padrone del posto, si salvò solo  con  una fuga precipitosa mentre tutta la sua proprietà venne completamente depredata: il danno subito dai Ninfani, pur senza  distruzione completa, risultò veramente ingente e stimato sui 1500 fiorini d’oro.

L’anno successivo, il 1381, fu la fine definitiva della fiorente cittadina medievale: i vicini paesi di Sezze, Bassiano e Sermoneta, che la invidiavano a causa della sua importanza assunta fino a quel tempo, si allearono per distruggerla. Fu  così che con odio implacabile tali  popolazioni  limitrofe misero fine definitivamente a Ninfa, distruggendone le mura ed  i palazzi con il ferro e con il fuoco.

Le tenebre della notte calarono sulla gemma della pianura pontina che da quel giorno perse la vitalità di nucleo popolato.Alcuni  cittadini, dopo la distruzione, tornarono nel borgo  a prendersi, come cimelio affettuoso, gli stipiti di pietra  delle loro  case e che in parte rimisero in opera a Sermoneta, là  dove riedificarono le loro abitazioni quei Ninfani che qui vollero rifarsi la nuova residenza.

Dopo  questo terribile evento Ninfa non fu più abitata e anche  a causa della malaria divenne la "città dei morti", in cui i  rovi, l’edera,  la rigogliosa vegetazione spontanea presero il sopravvento sulle  costruzioni di quello che era stato  un  importante centro economico e strategico.

In verità Ninfa fu oggetto, per questo, di un tentativo di ripopolamento da parte dei Caetani ma ciò fallì miseramente. Nel  1499,  in seguito a lotte di nobili e potenti  famiglie  del territorio  pontino,  il pontefice Alessandro VI della  famiglia Borgia tentò di sterminare il ramo dei Caetani di Sermoneta, confiscandone i beni e facendo uccidere vari membri della  famiglia. Egli decretò che i beni dei Caetani, compresi quelli relativi al la  povera Ninfa, fossero venduti a favore della Chiesa. Fu  così che  il 12 febbraio 1500 i castelli di Sermoneta e  di  Bassiano, nonché le tenute di Ninfa, Norma, Cisterna, S.Felice e  S.Donato, furono venduti a Lucrezia Borgia per 80.000 ducati d’oro, che  il papa "ufficialmente" incassò dalla figlia. La famigerata  ferocia dei Borgia si manifestò ancora una volta con lo spregevole  gesto sacrilego  di Lucrezia che diede ordine di gettare le  ossa  dei Caetani sepolti ella chiesa di S.Pietro in Sermoneta. Una  volta distrutta tale chiesa infatti i resti mortali di tali nobili  furono  fatti  gettare  con  i calcinacci  nel  dirupo  del  monte sermonetano. Ma il regno dei Borgia fu di breve durata, perché già nel 1505, dopo la morte del pontefice, la restaurata Signoria dei Caetani  tornò a brillare sui feudi pontini, purtroppo senza  più gloriarsi dello splendore di Ninfa, ormai in lento e continuo disfacimento. Si distese così un definitivo velo di oblio su questa splendida città che, visitata nel corso del 1800 dallo  storico  tedesco Ferdinand  Gregorovius, venne da questi definita come la  "Pompei del  Medioevo". La poetica descrizione di Ninfa fatta nel  secolo scorso da questo grande storico, ha ancora intatto il suo  fascino:

"Ecco Ninfa, ecco le favolose rovine di una città che con le  sue mura,  torri, chiese, conventi ed abitati, giace  mezza  sommersa nella palude, sepolta sotto l’edera foltissima. I fiori brulicano in tutte le strade, si dirigono in processione verso la chiesa in rovina,  scalano le torri, giacciono ridenti e scherzosi sui  de serti  telai delle finestre, invadono le soglie,  perché ovunque dimorano le Silfidi, le Fate, le Naiadi e mille spiriti  graziosi del mondo della favola".

Nel  1920-21  comunque il duca Gelasio, discendente  dei  signori Caetani,  che aveva ereditato la proprietà della zona, decise  di risanare Ninfa per trasformarla in parco. Gelasio  provvide altresì a restaurare la grande torre, che  presentava  notevoli guasti alle pareti e alla merlatura, e il castello, ridotto in cattive condizioni di staticità.

Con  grandi sforzi e con tanta passione il luogo viene  completa mente trasformato fino a diventare un vero giardino sotto le cure di Roffredo e di sua figlia Lelia Caetani. Opera veramente di rilievo fu la messa a coltura di essenze rare e profumate, esotiche e nostrane; furono disciplinati e ben organizzati i numerosi corsi d’acqua. Ninfa viene così attraversata dal fiume Ninfeo che irriga ed  impreziosisce tutta l’oasi e la vegetazione presente.

Con il proprio marito,il nobile inglese Hubert Howard, Lelia  amplia i progetti dello zio ed inizia con molta passione l’opera di trasformazione di Ninfa da giardino restaurato a vera oasi naturalistica e vero giardino botanico. Dell’antico  splendore cittadino però non rimangono che i ruderi di due ponti, della torre e delle sette chiese interne.

Oggi l’oasi di Ninfa fa parte della fondazione "Roffredo Caetani" di Sermoneta, istituita dopo l’estinzione di detto casato, e  per la  sua grande importanza naturalistica è gestita con la consulenza delle associazioni ambientalistiche LIPU e WWF che organizzano le visite stagionali dell’oasi da Aprile a Settembre di ogni anno. ( i biglietti vanno acquistati in anticipo presso l’EPT  di Latina, la sezione LIPU di Latina, la fondazione Caetani di Roma, il WWF di Roma. Le visite scolastiche sono consentite in date  da concordare). Il  consultivo del 1992 ci svela che sono stati oltre 42  mila  i visitatori  che hanno frequentato quest’anno, nelle  giornate di visita al pubblico, la città-giardino di Ninfa. In detto rapporto annuale, curato dalla suddetta fondazione, vengono evidenziati i problemi che attengono alla difficile ma entusiasmante gestione di questo angolo medievale botanico - avifaunicolo e, in genere, ambientale, che può considerarsi davvero  unico. Nel giardino, che si estende insieme alla distrutta città medievale, su un territorio di circa 6,5 ettari, vivono 1200 specie vegetali, 154 specie di uccelli e 16 specie di mammiferi. Ninfa  "opera" all’interno di una più ampia oasi di 1852  ettari, che abbraccia territori dei comuni di Norma, Cisterna e  Sermone ta, costituiti per 1/3 di collina, 2/3 di pianura, con un 70%  di coltivi, 10% di aree umide e il 20% di bosco misto. Nello splendido giardino, insieme ai nostri ontani, salici, pioppi, olmi, querce aranci, limoni, melograni,  crescono l’azzurro "Ceanothus"  californiano, i grandi aceri nipponici,  le  betulle boreali, l’albero dei tulipani, l’acero dello zucchero,  giganteschi  bambù, la splendida "Gunnera Manicata" dell’Amazzonia,  che ha le foglie larghe fino a m. 1.5, i ciliegi cinesi, la Calla  etiopica. Profumate sono le numerose varietà di rose che compongo no giochi floreali con altri alberi; profumatissimi sono i cuscinetti di terreno coltivati con garofani, papaveri d’oltre oceano, tulipani  olandesi, peonie, begonie, lillà, lavanda, salvia,  rosmarino …

Il tutto è disposto con amorosa cura e in  modo scientifico.  Nelle acque del Ninfeo e nel laghetto si  trova  la lontra, mammifero ormai raro in Italia. Numerosi sono gli animali che vivono, rigorosamente protetti, nell’oasi di Ninfa: il tasso, l’istrice, la faina, la puzzola, e le 154 specie di uccelli:  va rie specie di anatre selvatiche, gli aironi cenerini, le  garzette, il gufo, l’allocco, il barbagianni, l’usignolo, il  cardellino, il picchio rosso, le cincie e i rari passeri solitari e pendolini,  un genere d’uccello quest’ultimo che crea un  caratteristico nido a forma di fiasco che appende ai rami dei salici.

E’  questo un insieme botanico veramente costoso  e  rilevante, accresciutosi  dal 1920 ad oggi, che però non è la  vera  essenza caratteristica dell’oasi di Ninfa. Ciò che contraddistingue tale oasi non è infatti questa sua varietà ed abbondanza di vegetazione bensì il suo particolare sito geografico - climatico, posto al riparo da forti escursioni termiche, che permette l’impianto e la rigogliosità di piante ed arbusti di differenti regioni  tropicali. Nel giardino sono state immesse nuove specie vegetali, rispettando  il  delicato equilibrio biologico, dei rapporti e anche  dei cromatismi, ed è stato ripulito il fondo del laghetto che si forma con le prime acque sorgenti del fiume Ninfeo, con la conseguenza  di renderlo trasparente e di richiamare una più nutrita popolazione  di uccelli acquatici, tra tiffetti, germani,  reali, aironi,  martin pescatori, folaghe, gallinelle d’acqua e, per  la prima volta, moriglioni.

Il tutto è disposto con amorosa cura e in  modo scientifico.  Nelle acque del Ninfeo e nel laghetto si  trova  la lontra, mammifero ormai raro in Italia. Numerosi sono gli animali che vivono, rigorosamente protetti, nell’oasi di Ninfa: il tasso, l’istrice, la faina, la puzzola, e le 154 specie di uccelli:  va rie specie di anatre selvatiche, gli aironi cenerini, le  garzette, il gufo, l’allocco, il barbagianni, l’usignolo, il  cardellino, il picchio rosso, le cincie e i rari passeri solitari e pendolini,  un genere d’uccello quest’ultimo che crea un  caratteristico nido a forma di fiasco che appende ai rami dei salici.

E’  questo Un insieme botanico veramente costoso  e  rilevante, accresciutosi  dal 1920 ad oggi, che però non è la  vera  essenza caratteristica dell’oasi di Ninfa. Ciò che contraddistingue tale oasi non è infatti questa sua varietà ed abbondanza di vegetazione bensì il suo particolare sito geografico - climatico, posto al riparo da forti escursioni termiche, che permette l’impianto e la rigogliosità di piante ed arbusti di differenti regioni  tropicali. Nel giardino sono state immesse nuove specie vegetali, rispettando  il  delicato equilibrio biologico, dei rapporti e anche  dei cromatismi, ed è stato ripulito il fondo del laghetto che si forma con le prime acque sorgenti del fiume Ninfeo, con la conseguenza  di renderlo trasparente e di richiamare una più nutrita popolazione  di uccelli acquatici, tra tiffetti, germani,  reali, aironi,  martin pescatori, folaghe, gallinelle d’acqua e, per  la prima volta, moriglioni.

 

E’ proprio di questi ultimi giorni una bella notizia circa tutto il territorio di Ninfa: La Regione Lazio ha emesso un decreto con il quale il giardino di Ninfa ( e naturalmente tutte sue le pertinenze ) è stato istituito in Monumento Naturale, come Campo Soriano e come il Tempio di Giove Anxur inTerracina.

Il decreto porta la data del 25.02.2000 e la Commissione consiliare permanente della Regione si era espressa appena undici giorni prima. E’ veramente una encomiabile rapidità buracratica.

L’area ricade sotto il perimetro comunale di Cisterna.

Per effetto del provvedimento di tutela dell’area, all’interno della zona saranno posti dei divieti circa alcune azioni: gli antichi proprietari e benemeriti creatori della Fondazione Roffredo Caetani, donna Lelia Caetani e Hubert Howard ( cui è naturalmente affidata la gestione del Monumento naturale) , avevano peraltro definito una serie di proibizioni volte a garantire la conservazione della "naturalità" dello scenario.

La Fondazione stessa dovrà ora adottare uno specifico regolamento per l’utilizzo e la fruizione di questo nuovo monumento naturale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

B) LA "LEGGENDA " DI NINFA

 

 

La  storia "leggendaria" di Ninfa si perde nel mito di  tempi arcaici, da ambientarsi forse in epoca volsca quando i fatti storici non erano ancora tutti suffragati da riscontri certi o tramandati per iscritto.

Secondo la tradizione leggendaria quindi Ninfa era una principessa e cioè la bella figlia del re volsco del luogo.

Costui, come tanti altri suoi predecessori e successori, aveva in  cuor  suo un solo tormento: il desiderio di  liberare  l'Agro dalla presenza soffocante e devastante della palude.

Per  risolvere questo angoscioso problema tale re non esitò a chiedere aiuto ad altri due re suoi confinanti: Martino, buono  e saggio,  e Moro ( detto anche Portatore) , malvagio e  dedito  ad arti magiche.

Ad ambedue i sovrani vicini il nostro re decise di affidare il compito di prosciugare il territorio gravemente insalubre.

Con l'affidamento di tale onerosa opera il re manifestò l'idea di una singolare ricompensa: egli avrebbe dato in sposa la  propria figlia a chi fosse riuscito in tale impresa.

Ambedue i contendenti idearono subito un sistema di prosciugamento  basato sull'escavazione di un canale che facesse  defluire le acque stagnanti verso il vicino mare : l'idea, di per sé ottima,  ben presto non si dimostrò di facile praticabilità  a  causa dei molti ostacoli geografici di tali luoghi.

Martino, amato segretamente da Ninfa, molto ragionò e molto si adoperò per portare per primo a termine l'opera  intrapresa  che invece procedeva con enorme fatica e lentezza.

Moro era ugualmente in affannosa ricerca ed alla fine,  quando non trovò una razionale soluzione del problema, ricorse alle arti magiche, anche perché i progressi dell'avversario erano  comunque più rapidi.

Fu  solo  attraverso  questi mezzi fraudolenti  che  il  canale sboccò rapidamente a mare, poco tempo prima di quello  progettato da  Martino : tale magico soccorso diede la vittoria al  malvagio re  Moro  (Portatore) nella singolare  sfida  con  il  buon  re Martino .

Di fronte a questa dura realtà la bella Ninfa, addolorata,  si gettò a capofitto nel lago ( che venne a pren-derne il nome)  non volendo acconsentire alle nozze con l'odiato pretendente.

Per incanto il canale di Moro scomparve e la pianura fu nuovamente sommersa nel pantano.

Questa leggenda è veramente fantastica ma possiamo trovare ancor oggi dei reali riferimenti alla storia: infatti esistono  ancora nel nostro territorio i nomi di Ninfa (lago), di Martino  e di Portatore (ambedue legati a due corsi d'acqua).

Rimane aperto un dilemma: sono veramente questi nomi che  scaturiscono  dalla storia fantastica oppure è la leggenda che si è originata da fatti e persone reali?

Sembra a tal proposito che il canale di rio Martino, certamente scavato in epoca antichissima, sia stata opera dei Volsci, antichi abitanti dei nostri luoghi, primi bonificatori delle paludi pontine.

Finché tali antenati si occuparono del deflusso delle acque al mare,  non risulta esserci stato alcun luogo paludoso nel  nostro Agro Pontino. Oggi in verità la città morta di Ninfa è un suggestivo ed  inquietante luogo che evoca un passato burrascoso: rovine scheletriche  circondate da piante esotiche, cavalieri medievali morti in battaglia, il rudere di un castello che si specchia su un laghetto dalle acque malefiche, sono questi i segni reali ed a volte impalpabili dell'antica vitalità di Ninfa.

Su  tali luoghi della città fantasma aleggia anche lo  spettro di una dama misteriosa ed ammaliante che dalla notte dei tempi si para sul cammino di viandanti solitari.

Impetuosa  e ribollente l'acqua sembra  possedere  enigmatiche affinità con la contessa Giselda Frangipane, vissuta alcuni secoli  or sono a Cisterna di Latina e riconosciuta proprio  come  il fantasma del lago di Ninfa.

 

 

 

 

APPENDICE II:

ORIGINE E STORIA DELL'ABBAZIA DI VALVISCIOLO.

L'Abbazia di Valvisciolo, dedicata ai santi Pietro e Stefano, situata ai piedi del monte Corvino, ha una storia molto  complessa ed  alquanto controversa. Nella storia di questo luogo  abbaziale infatti si intrecciano le intricate vicende di ordini  religiosi, quali i Basiliani, i Cistercensi ed i Templari, che si  succedettero nei vari luoghi religiosi pontini.

Tale successione di eventi possiamo riscontrarla anche nella  nascita e nello sviluppo dell'abbazia sermonetana.

Mancando notizie sicure circa l'inizio della sua esistenza, si  è diversamente  congetturato tra gli studiosi di  arte  medievale, sulla  genesi sia dell'appellativo con cui è stata denominata  e sia sulla costruzione.

L'abbazia  fu probabilmente costruita, nel secolo XI, dai  monaci greci  basiliani, portati nella campagna romana da S.Nilo  nel  X secolo.  In  origine essa fu detta la chiesa di S.Pietro presso Sermoneta.

Nel  XII  secolo i monaci basiliani scomparvero dalla  zona,  lasciando i loro siti religiosi ai Cistercensi ed ai Cavalieri Templari (ordine soppresso nel 1312 da papa Clemente V ), che adattarono le modeste strutture edilizie basiliane alle loro  diverse esigenze, ricostruendo e riadattando i primitivi edifici di  culto.Quasi  subito dopo il loro arrivo in Italia, cioè subito  dopo il  1116, i Templari si insediarono presso Sermoneta dove ebbero in concessione la "Commenda nel territorio di Sermoneta, per  entrate della quale furono concessi molti terreni e vigne e  altri, né in quel tempo era Abbadia dei Santi Pietro e Stefano come  al presente", così come descrive un anonimo.

Detti  Cavalieri si dovettero limitare a costruire, accanto  alle celle  dei Basiliani, degli ambienti per loro abitazione,  adatti alla regola ed al tenore di vita che osservavano.

Il nome "Valvisciolo" per alcuni studiosi sarebbe stato derivante da  "Valle dell'usignolo", nome non appartenente  originariamente al luogo attuale, ma ad un altro, situato presso Carpineto,  precisamente a Malvisciolo, presso la Valle Roscina, esisteva un'altra abbazia ugualmente dedicata a S. Stefano.

In realtà tali studiosi sono caduti in errore perché il nuovo toponimo sarebbe sempre derivante dall'abbazia sermonetana ma  risulterebbe un misto tra Malvisciolo e Valle, cioè "Valvisciolo", quale poi è rimasto.

L'abbazia invero sorge allo sbocco di una valle, alle pendici del monte Corvino, e la seconda parte del nome deriva presumibilmente dai  viscioli selvatici che dovevano crescere presso  Malvisciolo carpinetano.  Dunque non saranno stati certo gli usignoli a dare l'appellativo al complesso abbaziale.

L'attuale Valvisciolo ebbe anche l'appellativo di Marmosolio, che era quello di Doganella dove era esistita un'altra abbazia  dedicata  allo  stesso santo, distrutta da  Federico Barbarossa  nel 1165, in odio al pontefice Alessandro III.

I  Cistercensi di Marmosolio si videro quindi costretti  a  rifugiarsi  presso Valvisciolo sermonetano, in quel  tempo  governata dai Templari.

Tale  presenza  gerosolimitana  era  giustificata  anche  proprio dall'esistenza delle zone paludose che sia i Templari sia i  loro "cugini" Cistercensi erano soliti bonificare con tanta cura.Dopo la distruzione di Marmosolio quindi i Templari abbandonarono ben presto Valvisciolo per consegnarla definitivamente ai Cistercensi  provenienti da questa abbazia distrutta. A  questi  ultimi monaci dunque toccò il compito di costruire, con la loro particolare  arte, la solida ed attuale abbazia. Si può così datare  la costruzione dell'odierna chiesa fra il 1165 ed il 1170.

Il  complesso  edilizio quindi ricevette anche  l'appellativo  di Marmosolio,per rie-vocazione nostalgica dell'altra, e l'annessa chiesa fu dedicata ai santi Pietro e Stefano.

Essa rappresenta il più antico edificio religioso di stile gotico-cistercense esistente nell'area dei Monti Lepini.

Si chiarisce quindi la successione cronologica dei tre  monasteri: agli inizi del X secolo esistette Valvisciolo carpinetano, la cui denominazione fu ripresa da quello sermonetano dei Templari. Tale abbazia rilevò anche l'appellativo di Marmosolio di  Doganella nell'XI secolo e, passato in mano dei Cistercensi,  venne definitivamente ricostruita nel XII secolo e sistemata nello stato in cui ancora ci appare; essa è la sola di quelle altre abbazie che resiste ancora alla rovina ed alla distruzione dovuta  al trascorrere del tempo.

 

 

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SANT'ANGELO SUL MONTE MIRTETO

 

(Tempio rupestre - Monastero diroccato)

 

 

1)

 

la grotta-santuario dedicata a San Michele protettore delle anime dei pellegrini,Lasciata Ninfa, si prende un viottolo bianco sulla destra e ci si arrampica per l’ultima tappa lungo i fianchi del monte sotto Norma, scoprendo un’altra delle costanti del cammino di Santiago. Frequentemente le alture sono dedicate al pesatore delle anime, al giustiziere del drago che insidia il pellegrino scoraggiandone l’andare con le difficoltà e le tentazioni della via. E così da Sant’Angelo del Gargano a Compostella, passando per Castel Sant’Angelo (Roma), la Sagra di San Michele nella Val di Susa, St. Michel d’Aiguille a Le Puy nell’Alvernia francese, San Miguel in Excelsis a Estella nella Navarra spagnola. E relativamente al tratto d’Appia Pedemontana: per San’Angeletto di Terracina (Monte Giove), Sant’Angelo del Mirteto e Porta San Sebastiano dove l’Appia incontra le mura di Roma.

Mentre si sale la vista si allarga ad abbracciare la pianura e il mare. La grotta è circondata da un casolare e dalla chiesa di Santa Maria ( cfr seguente paragrafo ) , resti del monastero dell’ordine florense animato dalla presenza dei discepoli diretti di Gioacchino da Fiore, venuti sui Lepini all’inizio del ‘200.

 

Oggi il santuario rupestre è completamente disadorno e lontano dalla descrizione del Pantanelli: «Vicinissimo a detto convento si vede il devoto antro di Sant’Angelo sopra Ninfa o della Stramma, che ha alcuni altari, pitture e stalli intagliati nei vivi massi di pietra che muovono a devozione» (P.Pantanelli "Notizie storiche della terra di Sermoneta ", Bardi ed. Roma 1972, vol.I pg. 26).

Lo spazio fino agli anni venti-trenta presentava leggibili gli affreschi, tra i quali quello di Michele che uccide il drago (fortunatamente riportati su cartoncino dall'archeologa Maria Barosso).

Ma la nudità permette l'ascolto del silenzio, cogliendo l'eco del vociare dei pellegrini che accorrevano numerosi in cerca di protezione, e riprendevano il cammino pronti a sfidare il caldo della palude e le imboscate dei banditi: traduzione materiale delle insidie tese dal maligno alle loro anime.

Dopo un lungo periodo d'abbandono il sito è preso in custodia dal movimento delle "Domus Cultae", che intendono trasformare l'ambiente in luogo di riflessione culturale e formazione umana.

Affacciandosi sulla pianura si nota come il luogo sia una vedetta naturale per il controllo della sottostante Pedemontana che, terminata la sua funzione, va a ricongiungersi con l’Appia nel territorio di Cisterna.

 

Conclusione

 

Senza mezzi termini l’Associazione Italia-Francia per l’Europa di Bassiano ribadisce la denuncia contro i danni ambientali subiti e i rischi di degrado che la Pedemontana corre: altrimenti l’averne risvegliato la memoria si risolverebbe in un lavoro sterile e inutile.

In termini di bilancio finale, i siti illustrati per presentare la seconda parte della ricerca risultano ugualmente funzionali alle strade di pellegrinaggio. Materialmente: sorgenti terapeutiche e osterie in Piedimonte, ospedale a Valvisciolo. Spiritualmente: venerazione delle reliquie di San Lidano nel territorio di Sezze, lucro di indulgenze a Ninfa. Inoltre: l’assistenza ai viandanti degli Ospitalieri Antoniani è potenziata da quella dei Cavalieri Templari (passo di Acquapuzza e Valvisciolo), ordine cui è legato pure l’itinerario alchemico per San Giacomo (iniziazione evocata da cerchio magico graffito, salamandra e conchiglia scolpite nell’abbazia). La memoria compostellana si rivela nei documenti (cronache del capitolo di Santa Maria in Sermoneta), sul piano iconografico (Giacomo Leonardo, Giorgio, Francesco a Selvascura e Michele arcangelo al Mirteto); deriva dalla dedicazione di chiese rurali ai protettori: Antonio abate e Giacomo nonchè Madonna della Stella con evidente allusione alla Via Lattea nella quale si riflettono anche le tracce lepine del cammino di San Giacomo. Finalmente la consapevolezza carolingia è ribadita dalla toponomastica (Fossato di Orlando), mentre si delineano i profili di altri pellegrini per Santiago (Luca e Gualtiero da Sermoneta), per Roma (confraternita di Lecce) e Gerusalemme (Oddone da Sermoneta e Vincenzo da Bassiano).

I dati, sommandosi agli elementi forniti con la prima serie di tappe, sanzionano il ruolo della Pedemontana nei movimento dei pellegrinaggi. La via pone così la sua candidatura all’ingresso nel reticolo europeo delle strade per Campostella.

Se la verifica dello studio attualmente in corso presso il Centro di Studi Campostelani dell'Università di perugia darà esito positivo, l'Associazione titolare della ricerca chiederà al Consiglio d'Europa di poter installare nella microregione lepina il cartello "Cammino di Santiago - Itinerario Culturale Europeo" (con la stilizzazione della conchiglia jacopea e la bandiera dalle dodici stelle in campo blu).

Chissà che non serva a diffondere tra i cittadini della XIII Comunità Montana e della Provincia pontina la coscienza del valore di un patrimonio culturale e ambientale che va difeso dai vandali di turno, dall'abbandono, dall'oblìo e che va adeguatamente valorizzato: perché appartiene alle regioni d'Europa nel senso delle comuni radici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2 )

ILTEMPIO RUPESTRE DI SAN MICHELE ARCANGELO

 

 

È questo un monastero medievale sorto nelle immediate adiacenze di una grotta la quale, a partire dall'Alto Medioevo, venne usata come tempio rupestre dedicato a San Michele Àrcangelo. E posto a mezzacosta tra le rovine di Norba e Ninfa. Seppur con qualche fatica, dato lo stato di conservazione non ottimale delle strutture, è possibile riconoscere gli spazi e gli ambienti nei quali i monaci trascorrevano la loro vita quotidiana. La chiesa non è eccessivamente grande, a navata unica e presenta segni di rifacimenti nel corso della sua vita millenaria.

La foresteria è situata a distanza rispetto al resto del complesso monastico; un giardino la divide dagli altri edifici. Nel corso dei secoli, in questo luogo, venne costruito un frantoio che è rimasto in funzione fino al secolo scorso. lì monastero fu sicuramente abitato dai monaci florensi finché Martino V ( Papa , 1417-1431 ) decise di unirlo a quello benedettino di Santa Scolastica di Subiaco.

Da notizie storiche risulta che nel corso del XIII secolo i proventi di Ninfa venivano dati in concessione ( definitiva o temporanea ) ai monasteri di Santa Maria della Gloria, di Santa Maria di Monte Mirteto oppure di Santa Maria dei Lebbrosi di Terracina.

All’epoca di Gregorio IX (1227 / 1241) risultano varie concessioni e/o donazioni effettuate nei confronti del monastero di Santa Maria della Gloria di Monte Mirteto ( cfr

" Les registres de Gregoire IX " ). La vasta zona pianeggiante che si estendeva ai piedi del colle era in parte paludosa . La palude ospitava delle piscine acquitrinose che si alternavano con aree emerse, con boschi e con prati , territori questi tutti frequentati da mandrie di bufali . I papi Gregorio IX e Alessandro IV ( 1254-1261 )decisero di concedere all’abbazia di Santa Maria di Monte Mirteto il libero pascolo proprio per i bufali ( cfr "Les structures du Latium médiéval…" pg. 269 , 2 voll. – Roma 1973 ).

Qualora si voglia essere informati sulle caratteristiche della macchia nelle zone paludose si può consultare il volume "Lazio", pg. 183 e ssgg. di R. ALMAGIA’ – Torino 1976 (2).

Per notizie generali su tale monastero si consulti il famoso « Masticon Italiane, I, pg. 121, e pg. 136, n° 87.

Per uno studio più approfondito della storia del sito religioso e di tutto il complesso patrimoniale di Santa Maria de Gloria si può consultare il testo "Il monastero forense di S. Maria della Gloria… " di F. CARAFFA edito in Roma nel 1940.

Diversi saccheggi accelerarono la rovina di Sant'Angelo sul Monte Mirteto e vi fu bisogno di due restauri (1770 e 1832) per prevenire il crollo. Oggi il monastero non è più abitato ed è oggetto di una lodevole iniziativa di recupero ad opera dell'Associazione Culturale "Opera di San'Angelo sul Monte Mirteto" che , originatasi dall'ex Domus culta pontina, raggruppa innanzitutto le attività di varie Domusculte pontine ( Sessana, Normense, Setina ) ed è diventata la guida di gruppi scouts provinciali ( vedasi Agesci zona pontina e relativo gruppo giovanile "Sentiero Luminoso" ). L'Opera intende essere punto di riferimento culturale per tutti i gruppi culturali che operano nel territorio adiacente.

L'Associazione, infine, che opera già in contatto con i Centri Coscienza di Milano e di Bergamo, intende restaurare il complesso arcaico e religioso per fondare in esso un Centro socio-culturale di grande respiro ed apertura.

Per tale eccellente finalità sono stati organizzati molti momenti di volontariato.

 

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IL MIRTO

(Myrthus communis)

 

Il colle che si estende tra Ninfa, Norba e Norma è chiamato Monte Mirteto, fin dall'epoca medievale, proprio per la presenza del Mirto. Infatti questa pianta, nell'ambiente mediterraneo, subentra alla vegetazione originaria distrutta da incendi o coltivazioni. E questa una pianta farmaceutica appartenente alla famiglia delle "Mirtacee" che molta parte ha avuto nella storia e nelle leggende di tutti i popoli mediterranei: fu pianta sacra per i Persiani mentre per gli Ebrei è considerato simbolo di pace e di verginità. La bellezza di questo arbusto sempreverde (alto normalmente da i a 3 metri), che profuma l'aria con il suo delicato aroma sembra giustificare tanta fama. Le foglie possono essere sia ovali che di forma allungata assottigliate alla punta e hanno un colore verde assai brillante. lì Mirto fiorisce in estate. I fiori sono di colore bianco latte ed hanno moltissimi stami sporgenti.

il frutto, dal colore nero - ceruleo, è una bacca di forma sferica; si distingue nettamente dal resto della pianta per il suo riflesso metallico.

il Mirto vive comunemente nell'ambiente della macchia mediterranea in unione con altri vegetali caratteristici. È presente in quasi tutto il bacino mediterraneo ed anche in Asia Minore, in Persia e perfino in Afghanistan. Tutte le parti della pianta possono essere distillate per ricavarne un olio chiamato "acqua di mirto", il quale viene usato sia in profumeria, che come medicinale.

Molte specie di uccelli mangiano questo frutto per il suo sapore aromatico.

 

Dopo quest’ampia escursione culturale sul territorio pontino posto presso Ninfa e nelle sue immediate vicinanze riprendiamo il filo del racconto per spingerci verso la periferia di Roma.uasi tutte le piante, i fiori ed i legumi della zona temperata sono facilmente coltivati, anche sui monti della regione romana. Noi non potremmo, senza ripeterci, parlare ancora della vigna e dell'uliveto che si direbbero trovarsi qui nella loro terra d'origine.

Noi li vediamo dominati dai bei fusti di querce, di olmi e di castagni che si alternano a dei faggi e ad altri alberi di buona fattura; essi hanno sempre occupato tali pendii o questi altipiani: infatti sono là da tempo immemorabile. Gli arbusti ed i fiori arborescenti, o quelli che , al modo delle malve, delle violette, dei papaveri, degli anemoni e delle marghe-rite, si ergono poco al di sopra del suolo, sono sempre molto diversi e molto abbondanti.

Quest'insieme floreale compone una flora molto ricca, i cui differenti soggetti si spandono da sé stessi, in modo sempre maggiore: le loro chiare sementi sono trasportate dalle acque o disperse dai venti.

La fauna non offre niente di particolare: gli orsi scompaiono, come an-che quegli angoli oscuri e nascosti che si trovano sulle boscose alture, coperte di neve per una metà dell'anno. E' anche il caso del lupo. Quanto ai cinghiali ed alle volpi, essi non sono ancora scomparsi: forniscono, al contrario, il pretesto per delle brillanti battute di caccia ad inseguimento, praticate dall'alta società. Ci sono, oltre all'aquila reale dalle enormi ali e dallo sguardo altezzoso, delle aquile di molte altre specie. Ma esse non sono le sole padrone dell'aria: nel loro alto volo, infatti, si incrociano con i falconi e gli altri uccelli da preda. Gli uccelli di piccolo taglio sono molto abbondanti: essi sono sempre preceduti, come dappertutto, dalla rapida e capricciosa rondinella. Tra i rettili, biso-gna menzionare il carbonaro o "colubro verde", il serpente che serviva come emblema di Esculapio, il figlio d'Apollo e dio della medicina. L'aspide , che si nasconde sotto le pietre e i rovi , è il solo che sia vera-mente velenoso. Si può comprendere poi, nella fauna romana, quei gran di buoi dalle enormi corna e quelle pance dal terribile e selvatico aspetto? I buoi di campagna, come quelli dellaToscana, non hanno forse l'aria di appartenere alla razza egiziana, le cui forme ci sono state fedelmente trasmesse dalle sculture e dagli obelischi della valle del Nilo ? I tori e le vacche delle praterie sono selvaggi e pericolosi: ci si può trovare faccia a faccia con questi animali irritati e minacciosi senza che vi siano vicini né alberi ne muretti di possibile rifugio: bisognerebbe allora coricarsi in terra e restare in tale posizione senza muoversi affatto; altrimenti la bestia , sdegnata, attaccherebbe e si getterebbe su di voi a testa bassa.

I bufali, da qualche anno, si mostravano ancora in gruppo e si avvi-cinavano così uniti fino alle porte del paese; ora invece essi sono completamente scomparsi: ci si serviva di loro per i traini agricoli ; le femmine producevano latte così come le vacche e si poteva mangiare la loro carne. Cosa manca all'uomo, il re del creato, in mezzo a tanti favorevoli elementi ?

Il numero considerevole delle città scomparse, i cumuli delle loro rovine, le vestigia delle grandi necropoli ci permettono di affermare che la popolazione laziale e della campagna è stata nei primi tempi abbastanza numerosa. In seguito, l'affermarsi della repubblica favorirà naturalmente la crescita degli abitanti; noi comunque l'abbiamo già ben delineato, l'impero fu la causa del declino sociale, sotto tutti gli aspetti. Dopo il disastroso periodo del feudalesimo, il papa Sisto V, si dedicò energicamente all'amministrazione dello stato. Egli fece rispettare la legge in modo integerrimo tanto dai nobili sediziosi quanto dalla borghesia che dal popolo: i dintorni di Roma cominciarono a ripopolarsi. Questo movimento, non molto sensibile ma regolare e metodico, è con-tinuato favorevolmente fino ai tempi moderni. Almeno si può affermare che lo spopolamento è stato frenato.

La razza dei Latini, così come esiste oggi anche sui monti e i loro con-trafforti nei paesi latini, si di sangue sempre da quelle di tutte le altre zone. Sono persone di bella taglia, robuste, con una regolare fisionomia, poco diversa da quelle che abbiamo riscontrato nei soggetti dell'antico regno visitato da Enea. Esse si fanno notare per i loro cadenzati e ben equilibrati movimenti, per i loro modi alteri ma privi di durezza. Si può prendere per certo che quando le genti sono tenute a cambiare di con-dizione sociale, quando esse discendono, ad esempio, dalle valli per stabilirsi nelle pianure, le loro caratteristiche somatiche vanno gradual-mente a perdersi . Alcuna determinata fisionomia si è conservata intatta in qualche angolo lontano di questo magnifico Lazio e neanche nella stessa Roma: in essa infatti, non vi si trovano più i tratti di alcuna razza predominante.

Ciascun individuo, soprattutto nelle classi superiori e medie, costituisce un esemplare a sé stante. I tratti sono gotici o asiatici, gallici o saraceni, normanni, giudei o greci. Dopo tante vicissitudini, tante invasioni e tante promiscuità, queste disparate influenze sono rimaste inevitabil-mente nel bagaglio genetico della razza latina.Ciò che non si può contestare invece è il fatto che tutta la popolazione delle zone alte della campagna vale fisicamente più di quella che abita le umide pianure, do-ve l'aria è pesante e dove le febbri rendono anemiche e recano danno alle generazioni. Le linee ferroviarie e telegrafiche, le automobili e le biciclette, sono arrivate, ben inteso, a far perdere certe originalità che rimarcavano la differenza ed il carattere personale delle località.Rimane , come felice eccezione, l'angolo pittoresco delle montagne del sud, dove gli abitanti, vestiti inun modo tutto particolare, sono chiamati "Ciociari" : essi appartengono principalmente al comprensorio di Frosinone. Disgraziatamente li si vede sempre di meno nella città di Roma, cui essi donavano una nota di pittoresca allegria con i loro abiti di opera-comica. Alcuni di essi sono ancora al servizio, come modelli viventi, nelle botteghe degli artisti, o , meglio ancora, vendono fiori sulle scale di piazza di Spagna. Il nome di ciociaro deriva loro dalle "ciocie", un tipo di sandalo allacciato fino a mezza gamba: è la calza tura comune degli uo-mini, delle donne e dei bambini di questo territorio.

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Quale differenza tra la Via Appia che noi abbiamo visitato nella prima metà del giorno e quella di questo pomeriggio! Noi siamo ora al decli-nare del giorno: il chiarore decrescente ci accompagnerà in quest'ultima passeggiata. Noi non troveremo più le rovine che i barbari hanno lasciato sopra di sé e che sono state totalmente di sfatte dalle fazioni sediziose. Ci sono, in questi momenti, delle rovine, dei tumuli informi, strane masse di pietre e di mattoni accatastati, che sono ricoperti di mu-schio, di scheletri di murature senza rivestimenti, senza proporzioni né forme. L'impressione monumentale non deriva che dall'allineamento di questi profi li : l'emozione non è prodotta che grazie al ricordo e alla me-ditazione di ciò che fu l'incomparabile sequenza di sepolcreti romani, così ricchi e così splendidi. La luce affabile del giorno che svanisce comunica un triste aspetto alle montagne che si ergono all'orizzonte e che abitual-mente sono spendenti di colori. Una tonalità uniforme copre il tutto: i tumuli, le grandi cubature di muratura verdastra si stagliano tetre e silenziosamente allineate ed immobili come delle sfingi. Non passa alcu-na persona: non si ode anima viva.

Se in un attimo le nuvole lasciano filtrare uno dei raggi del sole che è già sul mare, si scorgono a poca distanza alcuni resti di acquedotto, parte integrante del paesaggio romano; essi si lasciano colorire un i stante dalle calde luci del crepuscolo.

Si ha l'impressione di un incendio che si consuma rapidamente, scorgendo queste arcate illuminate, e che fugge e che interseca in larghezza tutto il paesaggio, ritornato monotono. L'effetto non dura molto: le forme e le linee svaniscono nella decolorazione della sera.

Si odono improvvisamente i belati di un gregge di montoni che risalgono sulla carreggiata e la invadono interamente.

Essi si sono inerpicati dal fondo valle e si frammischiano ai sepolcreti diruti, smantellati, dove le erbe, spuntando tra gli interstizi, si offrono come pasto provvidenziale. Un pastore , dal cappello appuntito , con un abbigliamento di pelle villosa, con calzoni e con sandali fermati da lacci, fa anch'egli la sua entrata in scena. E' proprio un ragazzotto carino !

Il suo viso, dolcemente colorito ed espressivo, è ricoperto da boccoli neri che adornano la sua fronte: si direbbe un'apparizione tutta romantica.

Egli domanda, con molte buone maniere, un poco di tabacco per fare un rimedio alla sua pecorella preferita e viziata.

Noi glielo doniamo molto volentieri, non senza dubitare che egli voglia semplicemente fumare. Si direbbe mai che ci si trovi a soli cento miglia di distanza da tutto il centro abitato ? Il silenzio regna dappertutto. Non arriva agli orecchi neanche un 'eco, un lontano brusio, se non il fioco tintinnio della campanella di una piccola cappella situata, nelle vicinan-ze, all'entrata di un antico cimitero. E' l'ora dell' Ave Maria.

Una formazione di vapore dovuta all'evaporazione fredda ed umida, si disegna nel bassofondo come una mussolina bianca e tesa. Le nuvole, leggermente smosse dal vento, sono per un istante colorate di rosa e di carminio dai raggi infuocati che il sole invia verso di esse.

Allora una melanconia intensa si impossessa della valle e delle colline; da lì essa sale verso le brume e i va pori aerei e raggiunge ugualmente le montagne e le nuvole del cielo. Essa copre sensibilmente tutte le cose della natura che non sono immerse dal generale oscuramento. Resta dunque nello spazio qualche cosa di grande, di bello e di imponente. Ad un tale luogo, ed alla stessa ora, lo spirito si trova assalito da strane e-vocazioni e da strane idee. Il pensiero e il cuore si riempiono dei ricordi di fatti sublimi che permisero alla religione cristiana di svilupparsi e di stabilizzare la comunicazione dell'uomo con il suo Dio. Le nozioni storiche prendono una via inattesa: i semplici ricordi poetici diventano pungenti emozioni.

Si vorrebbe avere tutta la forza di comprensione, tutta la serenità, tutte le facoltà occorrenti per abbracciare le grandi idee suggerite da questa zona. Ci si lascerebbe penetrare da tali sensazioni fino al fondo l’anima per ritemprare la volontà, l'intelligenza, e tutte le potenze morali che sono sopite in noi o che si svegliano spesso di fronte a delle sollecitazioni ben inferiori. Il boschetto di alberi rigidi e compatti, che spiccano sempre sulla pianura come un grande punto nero, è il sacro bosco della favolosa Ninfa Egeria: non ci sono altri, tranne quello degli Orazi e Curiazi, che ha resistito al trascorrere dei secoli, apparendo sempre nuovo sul medesimo sito. Annibale, il più grande guerriero dell'antichità , pervenne un giorno fin sotto alle sue distese ombrose . Chissà se la sola maestà di Roma con il suo nome misterioso, e con il semplice sviluppo dell'accidentato profilo, non furono sufficienti per gettare discordia e spavento nel suo ardito spirito ? Egli, ad ogni modo, tornò indietro senza tentare l'assalto , fermato dalla sola presenza dell'immortale città.

Ma sono i monumenti cristiani di tutte le epoche che emanano le sen-sazioni più profonde: quelle piccole basiliche, modestamente appartate, ci parlano ancora delle cose superiori. Esse danno accesso ai cimiteri sotterranei o " catacombe".

Era in queste oscure gallerie che si riunivano i primi cristiani per ren-dere un ultimo omaggio ai fratelli martirizzati. Verso sera, durante la notte oppure all'alba, si poteva incontrarli a gruppi silenziosi e misteriosi, mentre si dirigevano verso le proprietà terriere vicine alla cit-tà per discendere nelle catacombe.

Essi andavano a cospirare ! La cospirazione consiste va nel sottomettersi al tiranno e ad offrirsi al martirio soltanto dopo aver confessato pubblicamente la propria fede. Il loro saluto fraterno era "Pace": i loro emblemi erano il Buon Pastore e il nuovo Orfeo che attirava irresistibilmente le anime con la sua dottrina. Il loro pegno di sincerità era il loro nudo collo sempre pronto ad offrirsi alla spada del carnefice. Se la Campagna romana ha sempre racchiuso il più vasto teatro della storia è tuttavia nei sotterranei oscuri delle catacombe che è stato preparato lo scenario più trascendentale, il più sublime del dramma dell'umanità. Se il paganesimo brillava ancora sulla terra con le manifestazioni di forza brutale e incontestabile, ben presto una nuova forza sarebbe sorta da queste viscere di Roma : essa non aveva altre armi né altre luci tranne quelle delle coscienze: essa è sempre stata immortale perché è sempre stata spirituale. Questo ha prodotto la forza della Carità.

Tutto ciò che si rifà alle catacombe esercita nell'animo una commovente ammirazione.

Quelle lapidi di marmo semi - distrutte , quelle iscrizioni , di circa venti secoli, si indirizzano verso il cuore comunicandogli cose inef fabili :

" Figlia mia dolcissima, possa tu vivere nello spirito ".

Queste parole semplici e facili possiedono la forza di un eloquente discorso e di una completa manifestazione d'amore e di fede ben ferma. Nel cimitero di San Callisto, proprio vicino alla via, è stata scoperta in frammenti, in seguito ricomposti, quest'altra iscrizione :

" Qui giacciono in uno stesso cumulo i corpi dei santi. Le loro nobili anime sono state accolte nel regno dei cieli. Qui giacciono i compagni del papa Sisto che trionfarono sui loro nemici. Qui gli altri papi che fanno corona attorno all'altare di Cristo. Qui il papa ha vissuto in una profonda pace. Qui i confessori che vennero dalla Grecia. Qui i giovani, i bambini ed i vecchi con le loro caste discendenze che preferirono conservare la loro verginità.Qui, io, Damaso, ho desiderato farmi seppellire ma non ho voluto turbare il riposo dei santi ".

Malgrado la loro santa semplicità, questi versi sono degni di Omero : si può forse leggerli senza lasciarsi vincere da una pia emozione ? Essi furono fatti incide re dal papa nel IV secolo quando provvide anche a decorare magnificamente la cripta del cimitero che aveva accolto tanti martiri.

Eccoci dunque in una proprietà piena di ricordi, divenuti, si può dire, universali : sono precisamente i terreni che appartengono a santa Cecilia vergine: da tanto tempo è stato ritrovato il sarcofago contenen-te le sue spoglie mortali. Sepolta sopra la soglia della cappella dei papi essa sembrava voler proteggere l'ultimo sonno di quelli che aveva ricevuto in custodia.

Questa zona della Campagna emana veramente degli effluvi di santità, di pace e di poesia, come un giardino ricolma l'aria con i suoi penetranti sentori che esala no dai suoi fiori. C'è ora il languore della sera : il giorno è svanito. Ci si è pertanto abbandonati alla calma; si ode l'invocazione dell'infanzia che si rivolge ai martiri e particolarmente a Santa Cecilia il cui solo nome è una musica che rafforza lo sguardo a dirigersi verso il cielo. Questa giovinetta, mille volte nobile, ha il do no inesplicabile di farsi amare ed ammirare da tutti. La sua fama è giunta fino ai paesi più lontani; il 22 novembre di ogni anno, ci si riunisce per pregare in suo nome.Le più belle melodie della terra giungono ai nostri orecchi, per fe-steggiare la santa , sia nella catacomba sia nella basilica di Trastevere , sia nelle chiese del mondo intero. A Roma il suo nome è amato come se tutto il mondo avesse conosciuto la santità della vergine; nella Campagna il pastore più umile vi narrerà le virtù di Santa Cecilia. Attorno all' oscura scala che discende nell'antica sepoltura si scorgono dei pellegrini animati di curiosa simpatia che vengono a deporre con emozione una offerta, un ricordo per questa giovane e graziosa vergine, regina e simbolo dell'arte immateriale che distacca gli animi dalle attra-zioni più basse. La fredda brezza apporta ancora i profumi del fieno verde e dei trifogli che ricoprono tutta la campagna . Quando il sole sprofonda del tutto dietro l'orizzonte del mare, verso cui si stava dirigendo, il cielo si schiarisce per un momento; quindi alcune nuvole sono pennellate da raggi dorati e dalla porpora lasciata dal sole che ora non è più visibile. La vallata, rattristata, è leggermente rianimata per l'ultima volta da questo dolce fuoco delle nuvole che inviano a terra alcuni affabili riflessi.

Il crepuscolo termina e quindi si fa totalmente buio. Non si distingue altro, sotto i tenui raggi delle prime stelle, che la stretta Appia : non si può più camminare se non guardando attentamente , uno ad uno , i lastroni della pavimentazione dell'antica carreggiata.

( Da  "Il Lazio e la Campagna Romana"

       di  Carlo Luigi ABBENDA , Roma 2000 )