IL PALAZZO DELLE PAROLE

per mia figlia Martina

C'era una volta una bambina dolce e intelligente, che si chiamava Martina. Era un bambina vispetta, a cui piaceva molto chiacchierare. Qualche volta Martina parlava un po' a vanvera, quando avrebbe fatto meglio a starsene zitta. Allora la nonna, che pure aveva la pazienza dei suoi tanti anni, si stancava di ascoltare dieci volte la stessa storiella o di rispondere venti volte alla stessa domanda e la prendeva in giro dicendo:
"Signorina lingualunga, stai attenta a quanto chiacchieri perché un giorno o l'altro ti finiranno le parole."
"Non è mica vero," rispondeva pronta Martina, "le parole non possono certo finire e io ne ho quante ne voglio."
Ma, quando rimaneva sola nella sua cameretta, si esercitava a ripetere tante volte la stessa parola: mare mare mare mare... cielo cielo cielo cielo... vento vento vento vento... per vedere se le parole finivano.

A forza di provare e riprovare, si svegliò un bel mattino e le erano finite le parole. Non poteva crederci: pensava qualcosa e non la poteva dire! Le erano rimaste solo le parole inutili, quelle di cui non sapeva neppure bene il significato. Ma come si può parlare del più e del meno usando solo parole come equinozio, parallelepipedo, inventario, obliteratrice, burocrazia e dermatologo? Così Martina era molto triste e, mentre si preparava per andare a scuola, le venivano le lacrime agli occhi. La sua mamma, che non si era accorta di niente perché era sempre troppo indaffarata a vestire bambini, preparare la colazione, pensare al pranzo, al bucato e alla spesa, la salutò come al solito con un bacetto e la guardò dalla finestra mentre attraversava la strada. Ma Martina non aveva proprio voglia di andare a scuola.
'Che ci vado a fare?' pensava. 'Non potrò chiacchierare con le mie compagna e tantomeno rispondere alle domande della maestra. Farò una brutta figura con tutti e non potrò neppure spiegare che cosa mi è successo.'

Mentre così rimuginava sulle sue disgrazie, si allontanava sempre di più dalla strada che conduceva alla scuola e a un certo punto si trovò davanti ai cancelli del parco. Era veramente disperata e poiché la disperazione genera la paura, si mise a correre per i viali del parco, a scappare non sapeva da che cosa, fuggire dalla gente che avrebbe potuto farle delle domande a cui non poteva più rispondere. Corse a perdifiato e infine si sedette, sfinita, su una panchina di pietra che, benché conoscesse il parco a menadito, non ricordava di avere mai visto. E cominciò a singhiozzare. Che altro avrebbe potuto fare? Un bel momento, fra le lacrime, si accorse che nel prato di fronte c'era una casetta piccolissima, la più piccola casa che avesse mai visto in vita sua.
La curiosità era più forte della disperazione e Martina dimenticò la sua disgrazia e si avvicinò alla casetta. Il tetto le arrivava al naso. Sopra la minuscola porticina c'era una scritta, proprio come nei palazzi importanti che contengono qualcosa di prezioso: PALAZZO DELLE PAROLE.
Martina ebbe un tuffo al cuore. Forse dentro alla casetta c'erano le sue parole!
Siccome non c'era nessun campanello, Martina spinse la porticina e infilò dentro la testa. Poi, piegandosi in ginocchio, timidamente, entrò.
Si trovò in un grandissimo salone, tanto alto che non se ne vedeva il soffitto e così profondo che la parete di fondo si perdeva nel buio. Un vecchietto, con una lunga giacca tutta rattoppata, era seduto su uno sgabello e teneva sulle ginocchia un gattino nero.
"Buongiorno," disse il vecchietto, "ti dico subito che questo non è il Paese delle Meraviglie. D'altra parte, scommetto quello che vuoi che tu non ti chiami Alice."
'No davvero,' pensò Martina, ma, naturalmente, non disse nulla.
"Buongiorno," ripeté il vecchietto e Martina, per non sembrare maleducata, abbassò garbatamente il capo a mo' di inchino.
"Io mi chiamo Calogero," continuò il vecchietto, "e tu come ti chiami?"
Martina sentì che doveva proprio rispondere. Cercò affannosamente qualcuna delle parole che le erano rimaste che potesse assomigliare a un nome e bisbigliò:
"Ermenegilda."
"Non ci credo," rispose Calogero, ridendo sotto i baffi, "tu ti chiami Ermenegilda come io mi chiamo Bustamante. So benissimo che cosa ti è successo: tu hai finito le parole. Se tu sapessi quanti bambini che hanno finito le parole capitano qui ogni giorno! Dieci, venti, tutti i giorni dell'anno. Ma mica solo le ragazzine come te, che sempre si dice siano le più chiacchierone, anche i maschi, e proprio tanti."
Martina si sentì un poco sollevata di avere tanti compagni di sventura, ma non poté dire nient'altro che:
"Aracnide paleolitico" e non le suonava molto appropriato.
"Basta con queste stupidaggini," disse Calogero. "Se vuoi riavere le tua parole dovrai guadagnartele, come hanno fatto tutti gli altri. Io intanto te ne regalo una, proprio perché mi sei simpatica. Sai come si chiama questo animale qui?"
"Gatto" rispose Martina ed era così contenta di aver ritrovato una parola che aveva voglia di far capriole. Ma non poté neppure dire grazie, perché quella parola era una di quelle che aveva finito.
"Vieni con me" le ordinò Calogero e cominciò a camminare, tirandosi dietro lo strascico rattoppato della sua giacca e il gatto nero.

Camminarono a lungo, per grandi saloni, e infine giunsero a un corridoio buio. Calogero tirò fuori una candela e la accese con un fiammifero, brontolò qualcosa su qualcuno che avrebbe dovuto regalargli una torcia elettrica e illuminò una parete. C'erano tanti sportellini, grandi quanto una cartolina postale, tutti in fila da sinistra a destra e dal basso in alto e tutti chiusi a chiave. Su ogni sportellino c'era scritta una parola: abete ... albero ... casa ... cenere ... libro ... mortadella ... panino. Una cassettina per ogni parola del mondo.
"Le chiavi non le ho mica io," diceva Calogero, "io sono solo l'usciere. Le chiavi delle cassettine le hanno dei signori che stanno molto in alto e sono i custodi delle parole. Sono signori molto potenti, ma anche molto giusti e saggi. Siccome custodiscono le parole, stanno molto attenti a non sprecarle e parlano pochissimo, una parola ogni dieci anni, solo se è veramente indispensabile. Così non possono mica dare le chiavi a una ragazzina come te, o a tutti i bambini che vengono qui. Succederebbe un finimondo, peggio della torre di Babele."
Martina aveva molte cose da dire e da chiedere, ma disse solo: "Gatto," ben contenta di quella sua piccola parola riconquistata.
"Ma che gatto d'Egitto!" continuò Calogero. "Ho giusto un pochino di bucato arretrato e, se me lo laverai tutto, potrai aprire una cassettina, cioè io ti darò un'altra parola. Questa è l'unica cosa che posso fare per te."
Così dicendo spinse Martina avanti per il corridoio, mentre il gattino nero li seguiva trotterellando. Dopo un tempo immemorabile, arrivarono in un'altra stanza, una specie di magazzino, dove c'erano degli enormi acquai, secchi, spazzole, sapone e un'immensa montagna di panni sporchi che arrivava al soffitto.
"Finito il bucato," disse Calogero, "sceglierai la parola che preferisci e io te la darò."
Ciò detto uscì, mentre il gatto si era arrampicato sulla montagna di panni e se ne stava accoccolato proprio vicino alla cima, leccandosi tranquillamente il pelo.

Martina aveva gli occhi gonfi di lacrime e faceva grandi sforzi per trattenerle. Era veramente impossibile, anche in una favola, che una ragazzina come lei potesse lavare tutta quella montagna di vestiti senza diventare vecchia nel frattempo. E poi, anche se fosse riuscita a lavare tutta quella roba, avrebbe avuto in cambio una sola parola e, anche se avesse scelto una parola importante come 'voglio', avrebbe potuto dire solo 'voglio un gatto', dopo tutta quella fatica. Aveva proprio ragione a essere triste.
Ciò nonostante, poiché non aveva altro da fare, incominciò a riempire d'acqua uno dei secchi e a insaponare la prima camicia, che era così sporca, unta e macchiata, da starsene rigida come fosse di cartone. Mentre la strofinava senza grande successo, vide che il gatto aveva cominciato a leccare un'altra camicia e che, sotto la sua lingua ruvida, le macchie scomparivano come se non ci fossero mai state e la tela diventava morbida, di un bel colore celeste. Prima che Martina avesse finito di insaponare la sua prima camicia, il gatto aveva già pulito metà dei panni, che ora se ne stavano ripiegati in ordine su uno scaffale.
Quando Calogero tornò, non erano passati neanche dieci minuti e tutto il bucato era pulito e ordinato al suo posto.
"Che parola vuoi?" chiese Calogero, per niente sorpreso.
Martina, che aveva già pensato di chiedere la parola 'voglio', rispose con un fil di voce piena di emozione:
"Grazie, gatto, grazie."
"Molto bene," bofonchiò il vecchietto, aggrottando le sopracciglia con stupita ammirazione. "Sei proprio una bambina furbetta e fortunata, perché la parola che hai detto è molto speciale e apre tutte le cassettine. Ora ti devo salutare perché ho un'incredibile quantità di lavoro da sbrigare. Arrivederci e buon fortuna."
"Arriveder..." cominciò Martina. Ma prima che potesse finire, il vecchietto, la stanza e il palazzo scomparvero in una fantasmagorica girandola di colori.

Martina si ritrovò nel prato del parco e si stropicciò gli occhi, intorpiditi come dopo un lungo sonno. Aveva sognato? La minuscola casetta non c'era più. Ma all'improvviso un gattino nero attraversò il prato correndo.
"Quello è il gatto che stava dentro il palazzo!" gridò Martina. "Ehi, gatto, fermati, fatti vedere. Sei stato così bravo. Senti, ora posso parlare, posso parlare di nuovo."
La bambina corse dietro al gatto attraverso tutto il parco, fino all'uscita. Allora lo perse di vista, come se fosse svanito nel nulla. Pensosa e felice, decise di incamminarsi verso la scuola.

Fu così che grazie ad un 'grazie' Martina recuperò tutte le sue parole.


di © Carla Marchetti
da un'idea di Luca Sacconi

Questa fiaba si è classificata al 2° posto al

Premio Hans Christian Andersen

Baia delle Favole 1988

e ha vinto il primo premio
al Concorso letterario
'Il Castello' di Lari (Pisa)
V edizione - 1994


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