Ovvero
I Ruderi del Novecento
favola per un nuovo millennio
di Carla Marchetti
Personaggi
Roberta, sangue misto, 18 anni, F.I. 4718
Ester, bianca, circa 40 anni, F.I. 3535, amica di Roberta
Benjamin Lazz (Ben), amante di Ester (aspirante S.E., poi S.E.)
Lyla Frend Lazz, moglie di Ben
Vera Goles, madre di Ester (ex R. - ora I.)
Aidana Mech, ideatrice e direttrice del progetto T.F.
Maline Birtz, ingegnere medico, dello staff della dott.ssa Mech e amica
di quest’ultima
Riccardo Sorr, psichiatra comportamentalista, dello staff della dott.ssa
Mech
dottor Bartoldi, medico ricercatore, dello staff della dott.ssa Mech
dottor Filz, medico ricercatore, dello staff della dott.ssa Mech
dottor Giavet, medico ricercatore, dello staff della dott.ssa Mech
Tommaso Sorr, medico condotto qualifica U., figlio di Riccardo
Anna, madre di Tommaso, ex prostituta
Almes, milite della guardia (R.)
Georg, milite della guardia (R.)
Eva, moglie di Almes
Astor, fratello di Eva
Rosy, moglie di Astor
Franz Kolbernaz, vicino di casa e amico di Roberta
Danni, moglie di Franz
Varfa, ospite di Malina, moglie del sindaco della città
Frau Vaìra, nobildonna, amica di Malina
Billo, riproduttore
Freida, riproduttrice anziana
Lorenzo, diciott'anni, ragazzo dei ruderi
Arno, il vecchio dei ruderi
Stef, la bambina scalza
Lia, bambina dei ruderi
Teresa, donna dei ruderi
Giovanni, uomo dei ruderi
Attilia, donna del ghetto del Nord Est, prostituta e mendicante
Loira, la donna del casolare
qualifiche:
S.E. = dirigenti con mansioni Socialmente Essenziali
R. = lavoratori con mansioni di Responsabilità
U. = lavoratori con mansioni di Utilità
sottoqualifiche
F.I. = lavoratori con mansioni formalmente inutili; abitano in città
I. = Inabili o Inutili; abitano nelle residenze protette di periferia
T.F. = Tutela della Fertilità, da cui ITF (Istituto per la T.F.), progetto T.F. ecc
Parte prima:
La ragazza inutile
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior
Fabrizio De Andrè
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L’alba oltre i vetri era grigia e viola. Roberta stava sognando, rannicchiata
fra le lenzuola scomposte. Era un mattino radioso: la luce si era accesa
come d’un tratto e ora dilavava il buio, disegnando lunghe ombre rosate
lungo il profilo di una collina verde e bruna, e il cielo si andava tingendo
di nitido azzurro, appena venato dalle frange regolari dei cirri. Si levò
il sole. Un arcobaleno di raggi screziava uno specchio d’acqua cristallino,
spruzzandolo di riflessi argentei e il mare verde e turchino, vibrante
e immobile, si spalancava sulla nitida curva dell’orizzonte. Nel bosco,
fra le fitte fronde degli abeti, si rincorrevano gli uccelli del mattino,
cinguettando a distesa, in note ora festose e placide, ora acute. Sempre
più acute, intense, penetranti. Un’unica nota, sola, tagliente come
un sibilo. La sveglia. Con un riflesso meccanico, la colpì con il
palmo della mano, anche se la leggera pressione di un dito sarebbe stata
più che sufficiente ad interrompere la suoneria. Mentre cercava,
a tentoni, di riacchiappare il sogno, e la luce calda e dorata, rabbrividiva,
perché il suo corpo era umido, quasi bagnato. Quando aprì
gli occhi, fu il luminoso quadrante elettronico dell’orologio a guardarla
per primo, e non viceversa. Si alzò in piedi di scatto, perché
era di nuovo in ritardo, si sciacquò il viso con l’acqua tiepida
e bevve un sorso di tè, avanzato dalla sera prima. Con la tazza
ancora in mano, si infilava una camicia di maglia leggera, i calzoni e
la tuta impermeabile. Fuori di casa era tutta una nebbia, fine e opaca,
l’estate era finita da un pezzo e questo era l’autunno, una coltre di aria
ferma e smorta, vapore che lievitava dagli scarichi umidi dei motori, e
rimaneva incollato al suolo come una malta mal distribuita, molliccia e
sbriciolata, tanto che ci si poteva muovere dentro, attraversarla con passi
frettolosi, come spettri, a testa bassa, scivolando attraverso quell’umore
oscuro che non cancellava le cose, ma ne travestiva le forme. Roberta raggiunse
la fermata della metropolitana, si precipitò giù per le scale
e soltanto quando fu sul treno, riprese fiato, reggendosi al corrimano,
in piedi, pigiata tra la folla. La camicia le si era appiccicata addosso.
Come ogni mattina, il tragitto durò esattamente ventisette minuti.
Sul treno, gli sguardi scivolavano gli uni sugli altri, in silenzio, senza
un sorriso. I vecchi, pensava Roberta, hanno sempre poca voglia di sorridere.
Scese dal treno e via di corsa per i corridoi umidi e freddamente illuminati
dai neon, su per le scale e ancora avanti attraverso altri corridoi. Non
occorreva uscire all’aperto per arrivare allo stabilimento. Accanto alla
porta di ferro, c’era una fessura grigia, dove Roberta infilò la
mano sinistra. Su un piccolo schermo apparve la sua codifica e l’ora esatta
di arrivo.
- F.I. 4718 - 7:57:00
Lo schermo visualizzò -Okey- e la serratura del portone si aprì
con uno scatto. Roberta tirò la porta e entrò, tirando un
lungo respiro. Ce l’aveva fatta: il calcolatore non avrebbero registrato
un ritardo vicino alla sua codifica. Nello spogliatoio c’era odore di muffa;
due ragazze stavano sistemando le loro tute gocciolanti sugli attaccapanni
e sul pavimento si allargavano grosse pozzanghere, che defluivano verso
uno scarico, lungo un rivolo bianco. Roberta si sfilava la tuta lentamente,
non c’era più bisogno di affrettarsi ormai. L’unica tappa importante
della sua giornata era quel maledetto rivelatore; poi basta, era tutto
finito. Indossò l’uniforme da lavoro, prese dallo stipetto i guanti
e il caschetto e si incamminò lentamente, dietro alle altre, quasi
in fila indiana, attraverso il labirinto degli umidi corridoi sotterranei.
Nessuno aveva più fretta, nessuno aveva più paura.
“Sette cinquantanove e venticinque” gridò una voce affannata
dietro di lei “Oggi ero quasi spacciata. Quasi, capisci? Ma ce l’ho
fatta. Non mi ha fregato neppure stavolta, quel fottuto rivelatore.” Ora
la voce rideva. Ester correva più rischi di Roberta di arrivare
in ritardo: non aveva voluto lasciare sola la sua vecchia madre in periferia
e, siccome laggiù non arrivava nessun treno, raggiungeva la città
a piedi, camminando nella melma per più di due ore.
“Sempre spazzatura, oggi?” chiese Ester, sempre sorridendo.
“Credo che avremo spazzatura per tutto il mese,” rispose un donna magra,
che camminava fra Ester e Roberta. “Francamente la preferisco alle scatole,
se non fosse per l’organico che a volte ci si trova dentro…”
“Le scatole ce le danno quando non trovano niente di meglio,” disse
un uomo asciutto, sputando una gomma sul pavimento. “Lo sapete, eh, che
le scatole che ci fanno incollare sono le stesse che ci fanno fare a pezzetti
il mese dopo?”
“La spazzatura è la stessa cosa,” commentò Ester a bassa
voce. “Dicono che un robot potrebbe fare in meno di dieci minuti il lavoro
che facciamo noi in un giorno.” Il sorriso le si era spento negli occhi.
Raggiunsero presto un vasto magazzino, con muri ampi, sporchi e nudi,
sulla cui parete di fondo si aprivano sei saracinesche, aperte a metà
e contrassegnate da simboli luminosi: un giornale, una bottiglia, una latta
lucida, un rottame rugginoso, un contenitore di plastica e un vaso di coccio.
Lungo una delle lunghe pareti laterali, su due guide appena rialzate dal
pavimento, avanzava cigolando un largo nastro trasportatore. Era di gomma
dura e grassa, corrugata da solchi polverosi, come le impronte di un carro
lungo un tratturo fangoso e strideva appena sulle guide, mentre, con movimenti
lenti e pigri, i lavoranti si infilavano i guanti e il casco, parlottavano
fra loro, atteggiandosi a un’aria distratta e annoiata - anche oggi i rifiuti
da dividere, è già quasi di mese che abbiamo la spazzatura,
e fuori la nebbia, ma non durerà mica, lo sento, lo sento nelle
ossa che deve piovere, e quando piove in questa stagione, lo sanno tutti,
piove sul serio, mica per ridere, che travolge tutto - si guardavano in
giro, come smarriti, finché il gemito del nastro fu sovrastato da
un rumore sordo e scomposto e un tozzo bidone cilindrico, coperto di ruggine,
cominciò ad avanzare oscillando sulle guide. Gli operai indietreggiavano
verso il centro della stanza, in gruppo compatto, obbedendo al comando
dell’abitudine, mentre il nastro continuava a scorrere, trascinando tutta
una riga di fusti rugginosi, e, mentre avanzava, cominciava a sollevarsi
lateralmente ed a torcersi, obbligando i bidoni ad inclinarsi in avanti.
Quando il primo fusto era arrivato verso il termine della corsa, il nastro
era quasi verticale e il fusto, rovesciato in avanti, cominciava a vibrare
ritmicamente, sputando tutto il suo contenuto di rifiuti sul pavimento.
Per terra si ammucchiava l’immondizia, depositata con cura, adagiata, è
questa la parola giusta, perché quel meccanismo con la spazzatura
ci sapeva fare e la trattava con delicatezza, e neppure una bottiglia di
vetro andava in frantumi, a meno che non lo fosse già stata prima,
per l’incuria di chi l’aveva gettata via. Così i bidoni si rovesciavano,
ordinatamente, e gli operai dovevano cominciare a darsi da fare in fretta,
anche se avrebbero potuto lavorare lentamente, perché certo quel
lavoro non prevedeva controlli di qualità e nessuno si sarebbe mai
preoccupato del rendimento, ma era il nastro che imponeva il suo ritmo,
il nastro che non si fermava mai e implacabili i fusti vomitavano la spazzatura
sul pavimento, ammucchiandola sempre più in alto, sopra la precedente.
E se il mucchio diventava troppo alto, più alto di un uomo, incappava
in una violenta folata d’aria compressa che lo sparpagliava in giro senza
pietà, senza delicatezza questa volta, e i lavoranti stessi venivano
travolti da un turbine di rifiuti. Così si affaccendavano, fra brevi
incoraggiamenti e lunghe lamentele, chi più chi meno, ma insomma
tutti quanti, a spianare la catasta di immondizia, allontanando i rifiuti
dal punto dove erano caduti, perché il bidone successivo trovasse
sgombro lo spazio per svuotarsi, ordinatamente, delicatamente, e affondavano
le braccia fra i rifiuti, li selezionavano e li trasferivano in fretta
oltre la saracinesca appropriata, e benché l’impianto di aerazione
pompasse a pieno ritmo aria pulita, la stanza odorava solo di rancido e
di sudore.
“Ma guarda quanti organici qui dentro! Ma lo fanno apposta a buttare
gli organici nei rifiuti ordinari?” protestava la donna magra, guardando
con ribrezzo il mucchio di spazzatura che ingrossava a vista d’occhio.
“Che si fa degli organici? C’è un porco contenitore per gli organici,
stamattina?”
L’uomo che le stava accanto scrollò le spalle.
“Chi se ne frega, li butti dove capita. Tanto è tutta quanta
immondizia.”
“Ma non ce l’avete gli occhi?” intervenne un altro uomo, con voce vibrante
e rauca, facendo un gesto in direzioni di un angolo del magazzino, opposto
alle saracinesche. “Eccolo là il contenitore degli organici, sta
sempre al suo posto, come tutti i giorni, coglioni.”
“Accidenti,” protestò la donna magra, “come l’hanno messo lontano,
mi tocca andare fino a laggiù? E va già bene che non dovrebbero
esserci organici…se quegli imbecilli dividessero la loro immondizia come
si deve.”
Roberta lavorava di buona lena, con grande impegno e con l’energia
di un uomo. Sparpagliava la spazzatura e la divideva con attenzione, prima
di trasportarla, a bracciate colme, verso le saracinesche. Separava la
plastica trasparente dalle scatole di cartone, l’alluminio dal ferro e
tutto gettava con precisione oltre la saracinesca contrassegnata dall’opportuno
simbolo. Ma non perdeva di vista Ester e sempre cercava di accostarsi a
lei perché, sommersa in tutta quella immondizia, brillava la sua
speranza, la speranza che quello fosse un giorno buono, che Ester si fosse
svegliata di buon umore e avesse voglia di raccontare delle storie. Ester
conosceva una marea di storie, storie che leggeva nei libri, quelli che
lei chiamava romanzi. Roberta non sapeva molto bene che cosa fosse un romanzo,
ma trovava che quella parola avesse un suono rotondo e piacevole. Non tutti
i giorni erano buoni. Capitava spesso che Ester non avesse neppure voglia
di dire una parola, e se ne stesse, cupa, china sull’immondizia, torva
e scontrosa, come rimuginando di qualcosa che non riusciva né a
ingoiare né a sputare. Roberta si allontanava docile e la lasciava
in pace. Le piaceva rispettare gli umori della sua amica e non si sentiva
offesa di essere respinta. Ma quando capitava il giorno buono, quando Ester
era in vena di raccontare, la ripagava di tutta le musonerie e di tutti
le speranze sepolte sotto la spazzatura.
- Dove eravamo rimasti? Ah, ti stavo raccontando ‘Via dalla pazza folla’.
Ti ho già raccontato dell’incendio? -- Ma sì, ma sì.
E’ proprio all’inizio, Ester. Se non fosse stato per Gabriel tutti i covoni
di Bathsheba sarebbero bruciati. Me lo hai già raccontato.—E delle
pecore che avevano mangiato la veccia, ed avevano cominciato a gonfiarsi
come tanti otri? -- Ma sì, ma sì. Soltanto Gabriel sapeva
come guarire le pecore, come sgonfiarle senza farle morire. E quella volta
Bathsheba lo deve proprio supplicare, perché lui, quella volta lì,
si era proprio offeso, e secondo me aveva anche ragione, davvero tutte
le ragioni del mondo. Ma dimmi del temporale, eravamo rimaste al temporale.
Erano tutti a far baldoria con Troy, tutti ubriachi e neppure si erano
accorti che stava diluviando…-
Ester raccontava, e Roberta raccoglieva le cartacce e pensava che quella
Bathsheba lì era ora che mettesse la testa a posto, che aveva l’uomo
migliore del mondo proprio davanti a lei, quasi in ginocchio, e invece
se ne stava a fare la civetta, a far finta di non accorgersene. Intanto
cercava di raccattare tutta la carta per farne un bel mucchio e buttarlo
in una sola volta al di là della saracinesca.
“Guarda, Ester, un libro!” Era così eccitata che non poté
fare a meno di interromperla, mostrandole un opuscoletto consunto che aveva
pescato in mezzo al mucchio di carta. “E’ un libro, vero Ester? Come si
intitola?” Roberta non sapeva leggere.
Ester gettò un’occhiata distratta alla copertina sdrucita.
“Potresti sforzarti qualche volta, però, Robertina,” ribatté,
con finta aria materna. “Fertilità assistita. Fertilità assistita,
si intitola questo libro.”
Roberta la guardava interrogativa. “E’ un romanzo?” domandò,
pronunciando la parola con cauta attenzione
“Oh, no,” rispose Ester con aria divertita. “Spiegano come possono
fare i figli quelli che, naturalmente, non ci riuscirebbero.”
“Naturalmente?”
“Cioè con i metodi naturali. Un semplice rapporto sessuale,
e la donna rimane incinta. Certe coppie non ci riescono.”
“Quasi nessuno ci riesce,” intervenne l’uomo, con la voce rauca. “E’
roba d’altri tempi.”
“Anche questo libro mi pare proprio roba d’altri tempi,” protestò
Ester.” Non c’è da stupirsi che sia finito in questa discarica di
rifiuti…”
“Dev’essere roba arcaica, come gli alcimisti” disse l’uomo, che non
conosceva né l’ortografia né il significato della parola.
“Ora chissà quali altre diavolerie hanno inventato. Chi se ne frega,
avere dei figli…non importa più a nessuno.”
Ma nessuno gli prestava attenzione, perché il nastro non si
fermava e i fusti non cessavano di vomitare la spazzatura sul pavimento
e Roberta si sentiva avvilita, perché aveva interrotto la storia
di Ester per quella sciocchezza. Per fortuna Ester ricominciava a raccontare,
e Roberta raccoglieva la spazzatura, ma non la vedeva neppure. Vedeva solo
campi e covoni, in una notte di tempesta, e Gabriel e Bathsheba che coprivano
il raccolto per ripararlo dal temporale.
Era già quasi mezzogiorno quando un altoparlante in alto sul
muro cominciò a gracchiare e a diffondere la voce metallica di un
annunciatore.
“La vostra attenzione, prego, la vostra attenzione.”
Dapprincipio quasi nessuno gli aveva dato retta, perché il nastro
avanzava ansimando e sibilando e i bidoni vibravano e quell’altoparlante
veniva usato così di rado che la maggior parte degli operai si era
dimenticato della sua esistenza.
“La vostra attenzione, prego, la vostra attenzione.”
Ora tutti i lavoranti si erano alzati in piedi, sbalorditi, e guardavano
in alto, verso quella voce, perché con un fischio lungo e uno scatto
secco e improvviso, e un clatterare di bidoni mezzi pieni e mezzi vuoti,
e uno scompiglio di immondizia, il nastro si era fermato. La donna magra
aprì le braccia di scatto e le bottiglie che teneva in mano caddero
sul pavimento di gomma e cominciarono a rotolare verso il muro.
Ci fu un lungo silenzio. Poi l’altoparlante ricominciò.
“La vostra attenzione, prego, la vostra attenzione.”
“Abbiamo capito, dai, abbiamo capito” sbottò Ester, “dicci che
succede.”
Quelle parole avevano rotto il ghiaccio e tutti cominciarono a parlare
contemporaneamente.
— Sarà un’inondazione, la solita inondazione — Sarà la
grande inondazione, sono mesi che dicono che deve venire la grande inondazione
— Macché. Ci buttano tutti fuori. Hanno appena costruito altri settemila
appartamenti in periferia. Li hanno preparati per noi. A muffire insieme
a quest’immondizia, ci mandano — Ci faranno un altro controllo sanitario.
Dicono che c’è un nuovo virus, che si trasmette attraverso gli scarichi
degli spogliatoi. Non avete visto che hanno messo degli specie di depuratori
fra lo spogliatoio e il corridoio di ingresso? — E che ci vogliono fare?
Di docce ne abbiamo abbastanza. Stavolta ci mandano alle camere a gas —
Roberta, che era stata zitta e quieta, credette di sentire di nuovo
l’altoparlante gracchiare.
“Se non state zitti, non sentiremo niente,” disse eccitata. Tutti quei
discorsi le avevano messo addosso un grande ansia e le tremavano le ginocchia.
L’altoparlante insisteva:
“La vostra attenzione, prego, la vostra attenzione.”
Nel laboratorio tornò il silenzio.
“I seguenti operai sono convocati presso la direzione sanitaria per
controllo routinario. Non esiste emergenza. La vostra attenzione, prego.
Non si tratta di un’emergenza. Tutti gli altri devono continuare il lavoro.
Prestare attenzione alle codifiche. I convocati dovranno presentarsi entro
la mattinata presso la direzione sanitaria dello stabilimento, piano quattordicesimo,
sesto corridoio, stanza diciotto. Non si tratta di un’emergenza. Tutti
gli altri possono continuare il lavoro. Prestare attenzione alle codifiche.”
“Prestare attenzione alle seguenti codifiche che saranno ripetute solo
due volte. R 58, R 213, R 789. Ripeto: R 58, R 213, R 789.”
Ester si era accovacciata per terra e Roberta si appoggiò al
muro per non cadere.
“… U2035, U2560…”
“Sono tutti qualificati, sono soli i qualificati che chiamano,” esclamò
l’uomo rauco, “che c’entriamo noi? Ma perché rompono...”
“... F.I. 4718; F.I. 5937, F.I. 8416, F.I. 9048.”
“Silenzio. Per piacere.”
“Ripeto: F.I. 567; F.I. 1945; F.I. 2789; F.I. 4718; F.I. 5937, F.I.
8416, F.I. 9048.”
Il cuore di Roberta cominciò a battere all’impazzata. Si strinse
fra le mani gelate le guance bollenti. Si voltò verso Ester.
“Hanno detto anche il tuo numero?” balbettò.
Ester aveva lo sguardo tranquillo di una mamma premurosa.
“No,” rispose, “la mia codifica non l’hanno detta. Ma si tratta di
un controllo di routine. Ne abbiamo fatti tanti.”
“Ne abbiamo fatti tanti, ma tutti insieme,” piagnucolò Roberta.
Si guardò intorno con aria sconsolata.
“Hanno chiamato qualcun altro, di voi?”
Le sembrò che, impercettibilmente, tutti si fossero ritratti
da lei e ripensò al virus degli spogliatoi. Una donna con i capelli
bianchi, che di solito non parlava mai, le sorrise.
“No, il mio numero non l’hanno detto. Sei sicura di aver capito bene?
Stavamo facendo molto chiasso, qui.”
“Io non ho sentito bene i numeri. Credevo chiamassero solo i qualificati...il
mio numero non l’ho sentito,” disse l’uomo che aveva parlato sopra la voce
dell’altoparlante, quasi per scusarsi di aver disturbato.
“Il mio numero non l’ho sentito,” diceva un altro.
Continuavano a parlare tutti insieme.
-- Neanche il mio.—No, la mia codifica, no—Qualcuno ha sentito se hanno
chiamato F.I. 6734? -- A me non hanno chiamato, stavo molto attenta.-
“Ti conviene andare, disse Ester, andare subito. Così ti togli
il pensiero. Non ti preoccupare. Magari ti sei sbagliata; io non mi ricordo
la tua codifica; non posso essere sicura che ti abbiano chiamato. Quattordicesimo
piano, dai, vai.”
“Non è un controllo di routine. Per i controlli di routine andiamo
sempre nei fondi...”
“Muoviti. Ogni secondo che passa ti preoccupi di più.”
Ester l’aveva quasi spinta fuori e Roberta si ritrovò, tutta
sola, in un grande ascensore che non aveva mai preso. Camminava spedita,
a testa bassa; quei corridoi le sembravano troppo lisci e puliti per le
sue scarpe unte e l’odore di rifiuti che si portava addosso. Sesto corridoio,
porta numero diciotto. Era chiusa. Bussò e una voce di donna disse
seccamente: “Avanti.”
C’erano sei persone sedute come in una sala d’aspetto. Un ragazzino
con la faccia piena di brufoli masticava una gomma. Una bella ragazza,
bionda e florida, fissava nel vuoto gli occhi sbarrati dalla paura. In
un angolo della stanza, un’assistente sedeva davanti a un tavolino, appoggiata
sulle braccia conserte.
“Che dobbiamo fare?” chiese Roberta.
“Niente. Chiamano loro,” disse un ragazzo in tuta verdolina, umida
di vapore. Lui aveva l’aria tranquilla; non sembrava aver paura del virus.
Roberta vide che sopra una porta c’era un monitor con un numero in rosso:
R58. Avevano appena chiamato il primo della lista. Una giovane donna, molto
distinta, in tailleur avana, con una vistosa R appuntata sul bavero della
giacca, era ritta in piedi a una certa distanza dagli altri, tenendosi
stretta al fianco una piccola borsetta di pelle. Dato che non c’erano più
sedie, Roberta le offerse premurosamente la sua, ma l’altra rifiutò
freddamente con il capo. Arrivarono altre quattro persone, ma rimasero
tutte in piedi.
L’attesa fu lunghissima. Quando finalmente la sua codifica comparve
sul monitor, Roberta si era quasi assopita e il ragazzo con la tuta dovette
scuoterla con la mano.
Non fu altro che una specie di interrogatorio. Un uomo e una donna
sulla sessantina, lei aveva i capelli tinti, ramati, lui era calvo, portava
gli occhiali, parlavano senza inflessioni.
“Come ti chiami?” “F.I. 4718”
“Ti ho chiesto il nome.” “Roberta.”
“Bene, Roberta, quando hai compiuto diciotto anni?” “Due mesi
fa.”
“Hai conosciuto i tuoi genitori?”
“Credo che mia madre sia stata trasferita in periferia quando ero molto
piccola.”
“Di che razza era?” “Non lo so.”
“Ma di che colore aveva la pelle?”
Roberta scosse il capo. “Non me lo ricordo.”
“Tu sei un sangue misto. Questo lo sai?” Senza aspettare una risposta,
si rivolse al collega:
“Afro-asiatica?”
“Non saprei,” l’uomo ridacchiò, “è una specie di razza...
come dire ... fantasia.”
“Andiamo, Alberto, non posso scrivere razza fantasia.”
“Scrivi quello che vuoi allora. Io non sono un esperto razziale e,
se funziona, la visiteranno almeno altre venti volte.”
L’interrogatorio continuava.
“Per quanti anni hai frequentato la scuola?”
“Qualche anno, credo. Non so leggere molto bene.”
“Ma avrai imparato,” ribatté la donna scuotendo il capo. “Ma
non sai che se voi F.I. dimostraste attitudine in qualcosa potreste essere
reintegrati nelle qualifiche professionali?”
Roberta non aveva mai immaginato niente del genere. Lavorava sodo perché
pensava che, se non si comportava a dovere, sarebbe stata trasferita in
periferia
“Qualche volta ci provo, a leggere,” disse, “ma non ho mai letto un
romanzo.” Provava sempre una certa emozione a pronunciare quella parola.
Ma la donna non le fece caso.
“Hai mai avuto rapporti sessuali?”
“Beh, avevo un amico.”
Roberta era confusa. Pensò alle malattie a trasmissione sessuale,
che però si diceva non fossero più diffuse da molto
tempo.
“E facevate l’amore?” continuò insistentemente l’altra.
Roberta arrossì. Sapeva la risposta, ma non sapeva che cosa
doveva rispondere.
“Sì,” disse, pensando che probabilmente avrebbe dovuto dire
di no.
“Senza precauzioni?”
“Ma non ce n’è bisogno,” protestò timidamente Roberta.
Pensava ancora che stessero parlando di malattie veneree.
“Non ce n’è bisogno? Per te non ce n’è bisogno?” disse
severamente l’uomo che si chiamava Alberto, piantandole gli occhi addosso.
“Quello che vogliamo sapere è se sei mai rimasta incinta.”
“Ma ho abortito, ho abortito ed è finita così. Non potevo
tenere il bambino, da sola e...ma io non sono malata.”
“Ma che malata. Sei una delle poche persone sane rimaste su questa
terra.”
“Alberto, per piacere.”
L’uomo si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi con le
dita.
“Fissale l’appuntamento,” disse alla collega, “io sono proprio a pezzi
stasera.”
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Non doveva apparire particolarmente, Ester, intabarrata nella tuta impermeabile,
con un berretto da uomo calcato sulle orecchie, mentre camminava a testa
bassa, estraniata e spedita, sul marciapiede del viale che conduceva dalla
stazione del treno urbano al Ponte Nord. Il viale era largo, costeggiato
da alte palme magre, lucido di vapore e lurido di passi. Non doveva apparire
particolarmente provocante, eppure le era già accaduto che una delle
rade, grosse automobili che transitavano silenziose nella penombra le si
affiancasse, e dal finestrino qualcuno le indirizzasse gesti ed espressioni
di richiamo. Ester tirava dritto, con lo sguardo inchiodato sui suoi passi.
Ma una volta, irritata dall’insistenza, aveva guardato lo sconosciuto con
rabbia, dicendo: “Ma insomma, per lei le donne che camminano in città
di sera sono tutte puttane?”. L’estraneo le aveva ricambiato l’occhiata
sprezzante: “Ti ho detto qualcosa, io, ti ho forse detto qualcosa?” ed
aveva sgommato via, in una sequela di insulti. Ester si era sentita ancora
più umiliata che se fosse stata zitta e quasi mortificata per le
altre, quelle sconosciute e rade figure, che mezze nude ed infreddolite,
misuravano la strada senza perdere d’occhio le automobili di passaggio.
Il viale le pareva interminabile e il profilo del ponte era una visione
agognata e rassicurante.
Il lungo ponte sospeso separava il complesso urbano dalla periferia.
Ritto sulle grigie colonne di acciaio, era una caricatura di imponenza.
La vasta carreggiata si perdeva nell’incolore foschia come la traccia di
una civiltà dispersa. Era quasi sempre deserto, fatta eccezione
per i rari transiti dei mezzi di manutenzione e approvvigionamento ed Ester
era forse l’unico essere umano che lo attraversasse abitualmente a piedi,
camminando rasente al guardrail, misurando la distanza percorsa dal numero
dei suoi passi. Alle sue spalle la città era un bagliore indistinto,
pallidamente rosseggiante nella nebbia. Verso gli indistinguibili strati
alti del cielo, una tenue linea grigia era l’unico, debole segnale della
stabile inversione termica che, anche quella sera, aveva imprigionato la
terra sotto la nebbia. L’aria era così immobile che dava l’impressione
che qualsiasi cosa sospesa potesse galleggiare.
Ester impiegava venti minuti ad attraversare il ponte e subito dopo
il suo cammino si faceva più agevole. La strada proseguiva attraverso
una piana di fango e sterpi, fra due file di ruderi scomposti. Alcune di
quelle case erano alte, fino a tre piani, con brandelli di tetti di pietra
e tegole rossiccie, file di finestre nere, alcune ancora provviste di sgangherate
persiane, ma per lo più erano ridotte a cumuli di basse macerie,
muri sbocconcellati e ricoperti di vegetazione incolta. Ester intravide
degli stracci sospesi a una cordicella che correva tra due finestre, a
un’improbabile secondo piano; gli stracci si muovevano debolmente, come
agitati da una brezza lenta, che non era percepibile al suolo. Si udì
sbattere una persiana, o forse una porta; l’eco di un tonfo seguito da
un’insistente cigolio. Nel silenzio i rumori sopraggiungevano come amplificati.
Quella zona suburbana era abbandonata da decenni e una popolazione scarna
e silenziosa ne aveva preso possesso. Si diceva che fossero individui solitari,
che apparentemente vivevano in indicibili ristrettezze. Nessuno in realtà
capiva come facessero a campare e si diceva che fossero regrediti a un
regime di sopravvivenza basato sulla caccia e la raccolta. Ester non ci
credeva. Le pareva impossibile che quella piana spoglia potesse fornire
selvaggina più appetitosa degli scarafaggi o erbe selvatiche commestibili.
Ester incontrava di rado qualcuna di quelle creature e mai le era accaduto
di venire importunata. Aveva visto uomini curvi, seduti su gradini di pietra,
sulle soglie di quelle costruzioni distrutte, a pochi passi dalla strada.
Li aveva fissati per lunghi istanti in silenzio, senza poter dire se i
loro sguardi si fossero veramente incrociati. Talvolta aveva udito grida
e suoni acuti, che potevano assomigliare a ghigni o risate, ma non avrebbe
saputo dire se quelle gente parlava la sua lingua. E se aveva intuito,
o forse solo supposto, un gesto di richiesta, o di pretesa, aveva scosso
il capo con freddezza, aveva abbassato gli occhi e accelerato il passo.
Non aveva niente con sé, che potesse cedere a qualcuno, tantomeno
denaro, che non le era permesso di possedere. Ma neppure avrebbe trovato
scampo, se fosse stata aggredita. Per questo, forse, tutti quelli che sapevano
della strada, lunga, fangosa e desolata, che percorreva ogni giorno per
tornare a casa, pensavano che fosse matta. In realtà, quegli improbabili
incontri avevano l’aspetto di sbiadite visioni, e la lasciavano incuriosita
e sgomenta, perché non squarciavano mai il velo di mistero che circondava
quella gente.
A un certo punto, i ruderi si interrompevano quasi di colpo e rimaneva
soltanto la piana. Cominciavano a comparire vaghi arbusti, e alberi più
alti e folti e il fango si abbassava in piccoli stagni, dove a tratti gracidavano
le rane. I pioppi argentati, dal pallido tronco contorto, si piegavano
sull’acqua immota. Certi uccelli gialli compivano brevi voli e si fermavano
a razzolare alla base dei tronchi. Ester procedeva spedita, con passi sicuri
e elastici, ma la solitudine e il silenzio le appesantivano il respiro.
Gli avvenimenti di quel pomeriggio avevano alterato il ritmo monotono della
sua giornata. Parlava fra sé, ma non si rivolgeva veramente se stessa.
Piuttosto immaginava di parlare con il suo amico Ben, che non vedeva da
diversi giorni. Gli parlava dentro uno dei suoi sogni, come se la loro
relazione non fosse un legame clandestino e incerto, ma un tranquillo rapporto
di coppia, stabile e gratificante.
“Roberta non è più tornata, capisci. Accidenti, sono
preoccupata per quella ragazza. E’ giovane, è bella, sicuramente
non è malata. Non è più tornata in magazzino, oggi.
Se non la vedo domani, l’andrò a cercare a casa. So dove abita,
non sarà un problema rintracciarla. Ma no, non farò nessuna
sciocchezza. Ma tu hai una vaga idea di perché l’abbiano chiamata?
Solo questo vorrei sapere, che cosa vogliono da lei. Figurati se non la
trovo a casa. Certo che torno presto, dove vuoi che vada. Sì, sarei
molto contenta se tu mi accompagnassi.”
Si fermò di colpo, perché gli era parso di sentire un
rumore e di scorgere un’ombra alle sue spalle. Non aveva paura, ma era
turbata che qualcuno avesse potuto ascoltare quello sconnesso discorso.
Si voltò verso una macchia di arbusti bassi a un lato della strada
e vide, appollaiato su un ramo, un grosso uccello giallo che le sembrava
la fissasse. Ester rimase immobile, quasi trattenendo il fiato. L’uccello
aveva piccoli occhi tondi e neri e il becco curvo gli conferiva un’aria
vagamente imbronciata. Quell’apparizione improvvisa, quella creatura così
vicina e viva, era un segno che la realtà esisteva e che non era
giusto che lei cercasse di estraniarsene.
‘Ecco il mio compagno di strada,’ pensò, ‘lui c’è, non
c’è nessun altro.’
Fece un movimento, quasi inconsapevole, con la mano, e l’uccello spiccò
un rapidissimo volo e scomparve nell’aria bianca. Ester rabbrividì
e riprese il cammino in silenzio, ma Ben era scomparso dal suo fianco.
La luce si faceva sempre più flebile e quando raggiunse il recinto
delle residenze di periferia, era ormai notte. Nei pressi del cancello,
un lampione proiettava un alone giallastro sul selciato.
Quando arrivò a casa, disse che forse la sera seguente sarebbe
rimasta in città a dormire da un’amica.
“Spero che sia un amico,” la prendeva in giro la madre.
“Può darsi,” disse Ester e le venne di nuovo in mente Ben. Ma
era impossibile, perché Ben era sposato.
La madre di Ester aveva quasi novant’anni, era in buona salute, ma
non usciva quasi mai di casa. Per più di quarant’anni, aveva lavorato
come responsabile ed era ancora enormemente orgogliosa di un elegante R
argentata, ricamata sul bavero di una giacca di tweed che custodiva religiosamente.
“Avrei dovuto restituirla, raccontava, ma in queste cose non sono molto
fiscali. L’importante è che non me la metta addosso in pubblico,
anche se sarebbe divertente vedere la faccia di tutti questi poveri mentecatti
che circolano in periferia mentre sfilo davanti a loro con una R sulla
giacca.”
Poi si perdeva, dietro a qualche tenue visione.
“Accidenti, mamma, potresti farlo davvero,” le disse Ester.
La madre scosse le spalle e la guardò sorpresa, squadrandola
da capo a piedi.
“E tu che ci fai con quel cartellino da sottoqualificata appeso sulla
maglia? Ti sei messa in maschera?”
“E’ la mia codifica, mamma, lo sai.”
“Pfui, figuriamoci. F.I. Formalmente inutile, che spazzatura.”
“Infatti sto nell’immondizia dalla mattina alla sera,” disse Ester
pacata, scodellando nei piatti una fine brodaglia fumante.
La madre fece una brutta smorfia.
“Questa sì che è proprio immondizia. Neppure oggi c’era
verdura fresca, neppure oggi formaggio. Ho raccolto le ortiche, ecco quello
che ho fatto, ma non so mica se poi mi sono ricordata di metterle a bollire.”
“Non le hai messe le ortiche nella minestra, mamma, sarebbe più
verde.”
“Ma non è per me, sai, Ester, alla mia età mangiare per
sopravvivere è diventata solo una brutta abitudine. Ma tu, ragazza
mia, con il tuo lavoro, le tue responsabilità, dovresti mangiare
meglio, mangiare di più.”
Ester soffiò esageratamente a lungo sul cucchiaio di brodo che
teneva in mano.
“Questa minestra è ottima, mamma.”
La vecchia allungò il collo verso il piatto di Ester.
“La tua minestra è buona? Meno male,” soggiunse, quasi divertita,
“che almeno la tua è buona, la mia invece fa schifo.”
“E’ la stessa minestra, mamma, non c’è altra minestra, stasera.
La prossima volta che vengo faccio la spesa, te lo prometto, ho tanti buoni
alimentari, ma non trovo mai il tempo. Ti compro qualcosa di fresco, se
lo trovo, in città.”
“In città? Quant’è che dista la città?”
“Ci vogliono due ore, a piedi, poco più.”
“E la corriera, perché non prendi la corriera?”
“Non ci sono corriere che vanno in città, mamma.”
“Se hai bisogno di un biglietto, devo averne qualcuno nella mia borsetta,
vammela a prendere, per piacere, la mia borsetta, così ti do un
biglietto per la corriera.”
“Non ci sono corriere che vanno in città.”
D’un tratto, come in un improvviso, la vecchia recuperava la lucidità
e si spalancava attraverso le sue iridi offuscate uno squarcio come d’azzurro,
un bagliore scintillante.
“Le qualifiche, Ester, accidenti alle qualifiche. Quanti bei discorsi
che ci hanno fatto, quante parole. Me li ricordo, sai, i dibattiti, gli
interventi, le risse. No, no, dicevano, queste discriminazioni sociali
sono inaccettabili, assomigliano troppo allo schiavismo. Ma sono solo provvisorie,
dicevano, finita l’emergenza, saranno abolite. E adesso che cosa dicono?
Ne parlano ancora? Macché, basta, discorso chiuso, non se ne parla
più, vero? Più. Che si dice adesso? Che si dice?”
Ester aveva sonno e si coprì gli occhi con la mano.
“Che si tratta di valutazioni …attitudinali,” bisbigliò lentamente
“Valutazioni che? Ma fammi il piacere, non sono poi così rimbambita.
E’ che a un certo punto non c’era più lavoro, non c’era lavoro per
tutti, e allora qualcuno ha cominciato a dire che non tutti meritano di
lavorare. Che non tutti sono all’altezza, che non hanno le capacità.
Una volta sì che qualcuno aveva ancora il coraggio, o l’impudenza,
di dare alle cose il loro vero nome. Lo chiamavano Mercato, con una bella
M maiuscola, tutta tonda. Legge numero uno del signor mercato: una minoranza,
un esiguo manipolo di superuomini può aspirare a una vera funzione
sociale, e quindi ad una qualifica. Gli altri, beh, per tutti gli altri,
non c'è funzione, quindi non c'è lavoro, quindi non c'è
qualifica, stato, esistenza, non c'è niente. A parte, ovviamente,
tutte quelle cose là, quelle gratis, la libertà, la democrazia,
il diritto di voto e...”
“Dai, mamma, finiscila.”
La vecchia storceva di nuovo le labbra in una boccaccia.
“No, non ci riesco a finire quest’acqua calda,” disse, allontanando
il piatto che aveva appena toccato. “Ma immaginateli un po’, tutti questi
gaglioffi, quest’esercito di disperati, questa gentaglia di insufficienti,
ben schierati e compatti, gambe in spalla e via. Te lo vedi, il signor
Bren, che ha rotto le lenti degli occhiali qualche centinaio di mesi fa,
e continua a metterseli sul naso, per una questione di estetica, ovviamente,
e la signor Miscc, o come diavolo si chiama, che ha riparato il suo bastone
con il nastro adesivo, e voleva riparacisi anche le ossa, con il nastro
adesivo, e Deborah che ha un solo paio di calzoni, e non ne vuole neppure
degli altri, e se li stringe con lo spago sui fianchi, ma quelli sono scuciti
sul culo, e meno male che le si vedono solo le mutande, perché il
culo, beh, quello non sarebbe proprio bello da vedere. Te li vedi, che
marciano, impettiti e orgogliosi, pancia in dentro e petto in fuori, per
ore in quel pantano di strada, tutti quanti in fila, ordinati e composti,
con le loro scarpe sgangherate che affondano nella mota. Dove mai se ne
andrà quell’animoso plotone di mendicanti? In città, naturalmente.
In città, come si deve, per partecipare entusiasti e soddisfatti
alla grande kermesse del suffragio universale! Ah, Ester, un bella scena
davvero.”
“Mamma, vuoi della frutta? Ho portato delle mele. La prossima volta
che vengo te lo porto, del formaggio.”
Il viso della vecchia si era congelato in un’espressione di scherno.
Reclinò il capo e lo appoggiò sulla mano e si era fatta era
muta e sorda come una radio spenta, mentre la città si allontanava,
sempre più remota, oltre una muraglia di infinita bruma. Si appisolò
subito, dondolando piano sulla sedia, mentre Ester rigovernava la cucina,
mordicchiando una mela.
Dormì male quella notte e quando la sveglia trillò, alle
cinque meno un quarto, si rigirò nervosa nel sonno senza alzarsi.
Il rivelatore dello stabilimento registrò 8:05 e, dentro al magazzino,
Roberta non c’era.
Era il quarto ritardo dell’anno ed era obbligatorio giustificarlo.
Prima di uscire, si presentò al supervisore, un uomo con i baffi
grigi e molti capelli in testa. Ester sospettava che fossero posticci.
Cercò di spiegargli con calma di aver avuto mal di testa e di aver
dormito male. Il supervisore sapeva che lei ogni mattina veniva a piedi
dalla periferia e non fu molto gentile. Ma Ester capì che per il
momento non avrebbe ancora preso provvedimenti contro di lei. Gli disse
che quella sera sarebbe rimasta in città da un’amica e lui sembrò
molto soddisfatto, come se finalmente si fosse decisa a mettere giudizio.
Ester non sapeva dove avrebbe dormito quella notte. Prese il treno
e scese vicino a casa di Roberta. Non conosceva l’indirizzo preciso e,
al crocevia, entrò in un piccolo chiosco dove vendevano bibite e
dolci e domandò se qualcuno conosceva Roberta.
“Una ragazza giovane, disse il gestore, certo, una ragazza giovane
giovane, un po’ scura di pelle, ma non troppo. Strani occhi, un po’ a mandorla.
Non viene spesso, ma è così giovane che non passa inosservata.”
“Sa mica dove abita?”
“No, temo di no. Ma vede quel signore là...” disse indicando
un tipo asciutto, con la pelle scura e la barba malfatta, vestito di una
lucida tuta blu, che se ne stava seduto all’unico tavolino, davanti a un
bicchierino mezzo vuoto.
“Ehi Franz, senti un po’, te la ricordi quella ragazzina, quella scuretta,
con i capelli lisci con gli occhi a mandorla? Quella che abita dalle tue
parti…”
Franz si voltò verso Ester e la fissò con uno sguardo
distratto, canzonatorio.
“Roberta?”
“Sì, proprio Roberta,” disse Ester.
Franz la conosceva bene, era anche stato spesso a casa sua, per aiutarla
ad asciugare l’appartamento quando, frequentemente, si allagava. Indicò
ad Ester la strada - non si poteva sbagliare, era quella casa laggiù.
Roberta abitava, insieme ad un gatto, in un monolocale a pianterreno.
Ascoltava musica e disegnava animali, soprattutto gatti, neri e tigrati,
oppure uccelli, con il becco giallo e uno sguardo imbronciato, e un’aquila,
un’aquila reale, appollaiata su un picco roccioso. Dove poteva aver mai
visto un’aquila reale, lei che aveva sempre abitato le opache strade della
città e accendeva di rado il televisore, e soprattutto per sentire
le voci, piuttosto che guardare le immagini? Roberta non lo sapeva, nei
sogni probabilmente, sul sommo di una montagna coperta di abeti. Aveva
provato a disegnare case, strade e persone, ma il disegno era uscito tutto
grigio, e Roberta non lo trovava molto divertente.
Quando era tornata a casa la sera prima, dopo quella specie di interrogatorio,
la sua cuffia era rimasta appoggiata sul tavolino, le matite sparse per
terra e il gatto nero aveva dovuto strisciarsi e miagolare oltre misura
per farsi riempire la ciotola.
“Domani mattina devi essere qui alle sette, alle sette, un’ora prima
del solito, capito? Non mangiare niente, digiuna dalla sera prima, neanche
un goccio d’acqua, capito? Ora vai a casa e fatti una bella dormita, capito?”
“Se arrivo dopo le sette, registrano il ritardo?”
“Uff, ritardo o non ritardo, devi essere qui alle sette, in questa
stanza, capito?”
C’era proprio bisogno di dire tante volte ‘capito?’
Era passata dal supermercato.—Se domattina non posso mangiare niente,
dovrò nutrirmi bene stasera.—Aveva comprato una bistecca e delle
patatine surgelate.—Se mi licenziano non potrò certo più
permettermi di mangiare bistecche. Non so neppure che cosa danno da mangiare,
in periferia.—Roberta si era distesa sul divano e guardava il soffitto.
La bistecca era rimasta nel frigorifero. Aveva bevuto un’aranciata e si
era addormentata, senza neppure accendere la televisione. La sera dopo
era ancora più stanca, anche se aveva passato la giornata quasi
tutta nella sala d’attesa. Le avevano fatto due prelievi di sangue e l’aveva
visitata un ginecologo.
“Un brutto aborto, ti hanno fatto, proprio un brutto aborto.”
Stava per riaddormentarsi sul divano, quando era suonato il campanello.
“Chi è?”
“Sono Ester. Sai, la tua compagna di lavoro.”
Roberta aprì la porta. Ester stava nel vano della porta, infagottata
nella sua tuta (ma il cappuccio era calato sulle spalle e i capelli sciolti
e arricciati dall’umidità), si appoggiava con la mano allo stipite
e aveva un’aria, Roberta si stropicciò gli occhi, quasi spaventata.
“Dormivi? Mi dispiace tanto di averti svegliata. Ero così preoccupata
per te.”
“Eri preoccupata per me? Ma vedi, sto bene. Ah certo tu, pensavi che
mi avessero licenziata. No, non mi hanno mica ancora licenziata.”
Roberta si ricordò della bistecca nel frigorifero: è
sempre una consolazione che il frigorifero non sia perfettamente vuoto,
quando si hanno ospiti.
“Ti fermi a dormire da me?”
Ester si stava chiedendo che cosa facesse lì, perché
era andata a trovarla, che cosa si aspettava di poter fare per lei. Tenerle
compagnia, forse, sconfiggere, per una sera il bieco fantasma della solitudine
antica che trasforma le parole in mute ripetizioni dei pensieri e i gesti
in ridicole finzioni. Ma Roberta preparò il tè, cucinò
la bistecca e scaldò le patatine e Ester cominciò a sentirsi
molto rilassata. Quando era arrivata, era tutta posseduta da un tetro affanno
di dover sapere, capire, aiutare, spiegare. Pronunciare parole importanti.
Lei, che leggeva sempre e conosceva tante parole. Lei, che aveva vissuto
più di Roberta. Ora le andava maledettamente bene quel silenzio,
che era comodo e piacevole, come un divano morbido.
“Dimmi un po’ della periferia,” diceva Roberta. “Tu sai com’è,
non è vero? Non può essere così terribile. Potrò
sempre sentire musica. Disegnare.”
Ester non riusciva a immaginarselo. Qualcuno che abitava in periferia
e sentiva musica, o disegnava. La gente, in periferia, se ne stava seduta
vicino alla finestra a guardare la vernice scrostata del muro di fronte.
“Chissà perché sono venuti a cercare proprio me,” disse
Roberta, “avranno estratto a sorte.”
“Allora sei stata fortunata,” scherzò Ester, senza convinzione;
ma provò un leggero disagio, perché quella frase banale
vibrò come una nota stonata in una delicata armonia.
“Mi sembra che si siano molto preoccupati del fatto che l’anno scorso
ho fatto quella cosa, l’aborto,” ed ecco, l’aveva detto.
“Hai fatto un aborto?” disse Ester sbalordita. “Vuoi dire che te lo
sei procurato, non è stato spontaneo?”
“Vedi, mi guardi male anche tu. Che vuol dire, non è mica vietato
dalla legge.”
“No, che c’entra, l’aborto è solo una cosa strana.”
Un altro luogo comune.
“Strana? Strana anche per te, che leggi tutti quei libri? Io l’ho fatto
perché pensavo che, una volta gravida, sarei stata come malata,
inabile, che mi avrebbero mandata in periferia.”
Aveva la bocca piena di patatine e si sentiva avvampare. Il boccone
le andò per traverso e cominciò a tossire, ma, per cercare
di darsi un contegno, continuava a parlare.
“Chissà perché tutti quanti abbiano così paura
della periferia. Ma laggiù non c’è proprio niente di terribile,
vero?”
Ester le versò dell’acqua. Roberta beveva, e cercava di sorridere.
“Sono proprio contenta che tu sia venuta. Se non ti va di tornare in
periferia tutte le sere, puoi fermarti da me, quando vuoi.”
“Qualche volta vado da un uomo, ma è sposato e ...”
“Ha dei figli?”
“Ma no, non essere sciocca, te l’hanno messo in testa quelli, questa
cosa dei figli?”
“Come sarebbe? Che cosa c’entrano quelli, con i figli?”
Già, che c’entravano quelli con i figli di Roberta?
“Non so. Non so mica perché l’ho detto. Che importa. L’importante
è che non ti abbiano licenziata, che non ti licenzieranno.”
“Sai, a me non mi dicono niente, a parte allarga le gambe e stai rilassata,
e mi dicono sempre se ho capito. Capito?” disse Roberta, imitando il tono
stridulo e quasi intimidatorio dei suoi intervistatori. “Dicono tante cose
quando parlano fra di loro,” continuò, “sembrano sempre molto stanchi,
scocciati. Qualcuno ha perfino l’S.E. Credo che sia la prima volta in vita
mia che incontro degli S.E. Ma Ester, se tu hai mente qualcosa devi dirmelo,
no? Secondo te, che cosa vogliono da me?”
Ma Ester non rispondeva, perché tutto quello che aveva da dire
le parve una cosa piccina e senza importanza, e il silenzio era bello,
e docile, e fresco, come un piumino di seta. E Roberta fu grata che Ester
non avesse risposto, perché aveva molto sonno e un sottile timore
dei discorsi seri, e complicati, di Ester. Sparecchiarono la tavola, sciacquarono
i piatti e andarono a letto.
Roberta aveva chiuso gli occhi e aveva visto quella vecchia strana,
con la pelle scura e i capelli azzurri, che le aveva afferrato con la mano
rugosa uno dei seni. Le lunghe unghie laccate si stringevano sulla sua
pelle. Non le aveva fatto veramente male, ma le aveva lasciato un piccolo
segno bianco, come una sottile falce di luna. “Hai delle belle mammelle,”
le aveva detto. Roberta non dormiva. D’un tratto si rizzò a sedere
e spalancò gli occhi.
“Forse hai ragione,” gridò, “forse vogliono i miei figli.”