LA “QUESTIONE ROMAGNOLA”

80 ANNI FA

 

Il 27 marzo 1923, con apposito decreto del Ministro dell’Interno, vennero trasferiti alle competenze della Provincia di Forlì gli undici Comuni dell’allora Circondario di Rocca San Casciano, rimasti per circa cinque secoli sotto la giurisdizione fiorentina.

Si trattò degli attuali Comuni di Bagno di Romagna, Verghereto, Santa Sofia, Galeata, Premilcuore, Castrocaro Terme-Terra del Sole, Dovadola, Rocca San Casciano, Portico e San Benedetto in Alpe, Modigliana e Tredozio. Buona parte di quella che viene ancora denominata “Romagna Toscana”.

Rimasero ancora sotto le competenze toscane i Comuni romagnoli di Marradi, Palazzuolo sul Senio, Fiorenzuola, in corrispondenza del faentino e dell’imolese, nonché Badia Tedalda e parte di Sestino, a monte del riminese. E questo, appunto, perché il decreto fece riferimento esclusivamente al Circondario rocchigiano, e non all’intero territorio romagnolo-toscano.

L’operazione, voluta e sottoscritta da Benito Mussolini nella sua veste anche di Ministro dell’Interno, è certamente stata ‘oggettiva’. Realizzata da tempo l’unità nazionale, non era comprensibile che, nel nostro, come in altri casi, non si considerassero la omogeneità e la contiguità dei territori, tirandone le conseguenze istituzionali.

La Provincia di Firenze, ad esempio, giungeva a sei chilometri dalla Piaza Saffi di Forlì, e per tutti i sopra ricordati territori comunali, raggiungere il capoluogo toscano significava risalire le varie vallate e superare lo spartiacque appenninico.

Sulla base del citato decreto, e nei giorni immediatamente successivi, l’on. Giovanni Braschi, che fu il primo deputato romagnolo del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, e che diverrà di nuovo parlamentare e uomo di governo per la DC dopo la seconda guerra mondiale, propose ufficialmente al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro dell’Interno di “consacrare le ragioni storiche, topografiche, etniche che contraddistinguono la Romagna, riconoscendo alla stessa il carattere regionale, anche agli effetti della riforma dei servizi e dell’Amministrazione dello Stato”.

Rispose il Sottosegretario per l’Interno on. Giacomo Acerbo, affermando che “il sistema regionale è inaccettabile in quanto cozza coi principi unitari ai quali si informa il governo nazionale e che, in ogni caso, era giusto che la Romagna restasse legata all’Emilia, data la profonda affinità e la quasi identità spirituale”.

In buona sostanza, l’on. Braschi anticipò, ottant’anni fa, le attuali motivazioni della battaglia autonomistica romagnola, oltretutto in uno Stato non autonomistico e decentrato, con obiettivi federalistici, come l’attuale, cosa per la quale gli esprimiamo merito e gratitudine, come certamente non fanno certi suoi ‘epigoni’.

Le ragioni opposte, quelle richiamate dall’on. Acerbo, vengono, invece, portate in campo, in termini assai simili, dagli avversari dell’autonomia. E si tratta di circostanza che merita certamente qualche approfondita riflessione.

Stefano Servadei

Fondatore del M.A.R.