La PENA DI MORTE

E’ molto facile dire “nessuno tocchi Abele”, il fratello buono. Più difficile dire “nessuno tocchi Caino”, affermazione che sottintende un salto culturale di non lieve conto, tanto più difficile in un tempo in cui il bisogno di sicurezza è espresso

coralmente.

L’argomentazione più comune da parte di chi è favorevole alla pena di morte è la deterrenza. Condannare a morte un trasgressore dissuaderebbe altri a commettere lo stesso reato. Se così fosse nei paesi che la mantengono - Stati Uniti, Cina, Paesi Arabi, ecc. - si dovrebbe registrare un costante calo di reati punibili con la morte. Non esiste studio che sia ancora riuscito a mettere in relazione la pena di morte con il tasso di criminalità. Le statistiche intanto ci dicono che nei paesi che la mantengono la percentuale è maggiore. “Teleanalisi” ha preso in esame cinque paesi abolizionisti e cinque paesi mantenitori: nei primi il tasso più alto di omicidi era 11,6 per 100.000 persone; nei mantenitori 41,6. In alcuni Stati nei quattro mesi successivi le esecuzioni saliva la media degli omicidi.

Nei giorni in cui c’era attesa sulla fine di Rocco Bernabei ho persino sentito affermazioni, anche nel nostro territorio, quali: è meno costoso uccidere i colpevoli che tenerli in carcere. L’ignoranza, intesa nel senso della non conoscenza, fa dire questo e altro. Alcuni studi svolti in Canada e negli Stati Uniti dimostrano che l’applicazione della pena di morte è più costosa del carcere a vita. Negli Stati Uniti il giudizio capitale e gli appelli di primo grado costerebbero due volte in più di quanto costi mantenere una persona in carcere a vita.

Uno studio condotto in Florida nel 1988 sosteneva che i contribuenti pagavano oltre 3,1 milioni di dollari per ogni esecuzione.

Al di là di altre considerazioni, la pena di morte non colpisce solo i colpevoli; anzi, forse più spesso di quanto s’immagini, persone innocenti. Non più altri il caso del condannato a morte in Virginia del quale, dopo 17 anni d’attesa, il DNA ha riconosciuto l’innocenza.

Numerosi anche i casi in cui incompetenza e corruzione hanno causato condanne a morte di innocenti. Uno studio dello Stanford Law Review ha documentato nel secolo appena concluso 350 casi di condannati a morte negli Stati Uniti, in seguito riconosciuti innocenti. Di questi 25 erano già stati giustiziati, mentre altri avevano già trascorso decenni in prigione. Per non parlare dei casi in cui la pena di morte è discriminatoria nei confronti di minoranze razziali, di persone povere e scarsamente istruite. In alcuni casi è stata ed è anche usata quale arma contro oppositori politici. Un esempio di come la pena di morte sia usata in maniera iniqua nei confronti delle minoranze, come sostiene Amnesty International, si ha negli Stati Uniti. Uno studio del 1987 sulle condanne a morte comminate nello stato del New Jersey ha dimostrato che l’accusa ha chiesto la pena di morte nel 50% dei casi in cui l’accusato era nero e la vittima bianca e solo nel 28% dei casi in cui sia l’accusato che la vittima erano neri. Spesso le sentenze di morte vengono pronunciate da giurie composte di soli bianchi. Un bianco che abbia ucciso un nero difficilmente viene condannato a morte.

Come sostiene Amnesty International ”i condannati a morte sono spesso accusati di reati estremamente crudeli. Ma la crudeltà del reato non alleggerisce la crudeltà della pena... “ che rappresenta una violazione dei più fondamentali diritti umani: il diritto alla vita ed il diritto a non essere soggetti a trattamenti o punizioni crudeli, inumani e degradanti. Diritti sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, altrimenti nota quale “Costituzione dell’Umanità”, che all’art. 5 dichiara appunto: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o trattamenti o punizioni crudeli, inumani e degradanti”.

La pena di morte mina il diritto alla sicurezza della propria persona in violazione dell’art. 3 della Dichiarazione citata, che afferma: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”.

Strumenti medievali di tortura, quali la ruota e il cavalletto, sono esposti nei musei dove suscitano orrore in chi li osserva. Forca, ghigliottina, camera a gas, sedia elettrica e altri strumenti del boia dovrebbero allo stesso modo essere relegati nei musei.

La pena di morte in generale è soltanto il tragico epilogo di una lunga serie di abusi e di gravi violazioni dei diritti umani e dei diritti politici. Non a caso la Cina è il paese con il più alto numero di esecuzioni: 3500 esecuzioni, seguita da Ucraina, Russia e Iran.

Il ricorso alla pena di morte nei confronti di minori di 18 anni all’epoca del reato è proibito dagli standard internazionali per i diritti umani. Tuttavia, come denuncia con forza Amnesty, alcuni paesi permettono ancora l’esecuzione di minori, in testa il Texas.

3500 uomini, donne e ragazzi attendono l’esecuzione negli USA. Più difficile conoscere i dati di altri paesi, nei quali si può salire sul patibolo per truffa e corruzione come in Cina, per avere bestemmiato come in Afghanistan, per traffico di droga in Arabia Saudita.

A me, come a tanti altri, la situazione americana fa più impressione perché penso alla grande democrazia di quel Paese, temprata anche dalle battaglie per i diritti civili, pronta a considerare la libertà e dignità della persona come bene da salvaguardare e, di contro, a rifiutarsi di considerare la pena capitale come un delitto contro l’umanità.

Ringraziando la collega Marisa Garattoni per averci offerto questa opportunità, concludo con le parole di Emma Bonino, alla quale occorre dare merito, insieme ad Amnesty International, all’Associazione “Nessuno Tocchi Caino”, alla Comunità “S. Egidio” e altri di avere ottenuto risultati sino a pochi anni fa inimmaginabili: «Qualcuno mi accuserà di essere retorica, ma io penso davvero che ogni persona uccisa in una camera a gas o su una sedia elettrica, da un plotone d’esecuzione o da un cappio di corda, non è soltanto un cittadino americano, cinese, mediorientale, africano o di uno qualsiasi dei 72 paesi che ancora praticano il supplizio capitale. Quel morto è uno di noi, il cui assassinio - ancorché “legale” - ci offende così come ci ha offeso l’assassinio in massa dei bosniaci, [dei kosovari, dei kurdi - aggiungo io - ], dei timoresi, dei ruandesi e così via. Nessuno Stato democratico, nemmeno gli Stati Uniti, può illudersi di “democratizzare” la pena di morte; o illudersi che ci sia una qualche differenza fra la morte inflitta con un’iniezione letale, in nome di istituzioni democratiche, e la morte inflitta per impiccagione da una dittatura come quella cinese. Siamo di fronte allo stesso, identico delitto. Lo ha sancito la Commissione per i Diritti Umani dell’ONU per quattro anni consecutivi, definendo la pena di morte una negazione dei diritti umani e approvando per questo una risoluzione per la moratoria delle esecuzioni».

Mi auguro che questo ordine del giorno venga votato all’unanimità, a significare che almeno su un tema di tale portata riusciamo a trovare un minimo comune denominatore. Come ebbe a dire Boutros Ghali alla Conferenza di Vienna sui diritti umani: “Si tratta sempre di conquistare un nuovo comune denominatore, che segni una nuova irriducibiloe dimensione dell’essere umano per la quale e nella quale possiamo dire tutti di fare parte della stessa comunità umana”.

Mirella Canini Venturini

[Cons. Com.le 5 ottobre 2000]