IL VECCHIO LEONE NON RUGGIRA’ PIU’

Giorgio Gaber - la “voce della polemica” - era nato a Milano il 25 gennaio 1939. Aveva saputo imporsi, ancora giovanissimo, per la capacità di trasportare lo spettatore in un’atmosfera che sapeva di sociale, amore, politica, sofferenza e speranza, coniugate sapientemente ad un’ironia intelligente capace di stimolare la riflessione. Per Dario Fo il suo era “nichilismo costruttivo”

Come lui stesso diceva, aveva posto precise condizioni al proprio rapporto con il pubblico: “Ho scelto di salire sul palcoscenico quando mi sembra che ne valga la pena, quando mi pare di avere delle cose da dire e quando credo che questo rapporto favorisca una comunicazione con un senso, che non è mai gratuita, non è narcisistica, non è egocentrica e personalistica, ma tende a coinvolgere, anche nella struttura, le persone in quanto protagoniste delle cose che racconto... Si va a raccontare i fatti di quelli che ci vengono a vedere: è questa sorta di identificazione in quello che si sta dicendo a favorire la partecipazione del pubblico”.

Il suo rapporto con il pubblico, infatti, è sempre stato estremamente dialogico e umano:

“Il mio papà è molto importante.

Il mio papà, no.

Il mio papà è forte sano e intelligente.

Il mio papà è debole, malaticcio e un po’ scemo.

Il mio papà ha tre lauree e parla perfettamente cinque lingue.

Il mio papà ha fatto la terza elementare e parla in dialetto.

Ma poco perché tartaglia.

Io sono figlio unico e vivo in una grande casa con 18 locali spaziosi.

Io vivo in una casa piccola; praticamente un locale.

Però c’ho 18 fratelli.

Il mio papà guadagna 31 miliardi al mese che diviso 31, che sono i giorni che ci sono in un mese, fa un miliardo al giorno.

Mio papà guadagna 10.000 lire al mese che diviso 31, che sono i giorni che ci sono in un mese, fa 10.000 al giorno...

Il primo giorno, poi dopo basta.

Noi siamo ricchi ma democratici. Quando giochiamo a tombola segnamo i numeri con i fagioli.

Noi invece, segnamo i fagioli con i numeri. Per non perderli.

Il mio papà è così ricco che ogni anno cambia la macchina, la villa e il motoscafo.

Il mio papà è così povero che non cambia nemmeno idea.

Il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto:

Guarda! Tutto quello che vedi un giorno sarà tuo.

Anche il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: guarda! Basta”.

Non era difficile identificarsi con ciò che diceva. Mi ha fatto ricordare più volte i dialoghi con le compagne di scuola, pretenziose figlie degli arricchiti del dopoguerra, quando mi snobbavano perché ero la figlia di un portalettere e la nipote dell’accalappiacani, senza per questo provare alcun imbarazzo poiché riuscivo a capolvolgere la situazione: ero l’unica a poter vantare lo zio accalappiacani - a Rimini ce n’era solo uno! - ed ero la prima della classe nonostante dovessi recarmi tutti i giorni a studiare in biblioteca poiché i libri costavano tanto anche ai tempi della mia giovinezza: “Mi sono guadagnata la borsa di studio anche quest’anno mentre voi siete rimaste insignificanti com’eravate l’anno scorso”. Alcune lo sono tuttora.

Non è difficile capire perché Giorgio Gaber mi piacesse tanto.

“Sento il vuoto di una classe che non ha nulla da dire”, tant’è che sente il bisogno di intitolare un canto alla “razza in estinzione”: “Ho mia moglie [Ombretta Colli, n.d.r.] che è di Forza Italia, ma fisicamente non ce la faccio a essere di destra, ma come mi fanno incazzare quelli di sinistra...”.

Ma c’è ancora la sinistra?

“Io ero uno di quelli che sono stati, si sono sentiti comunisti, ‘perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché era solo una forza, un sogno, un volo, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita’”.

Già, qualcuno, una volta, era comunista: “perché era nato in Emi-lia, perché il nonno, lo zio, il papà... la mamma no; perché si sentiva solo; perché aveva avuto un’educazione troppo cattolica; perché glielo avevano detto o perché non gli avevano detto tutto; perché prima (prima, prima...) era fascista; perché Andreotti non era una brava persona; perché forse era solo una forza, un volo, un sogno...”.

Niente rimpianti, diceva. “Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici”.

E ora? “Anche ora ci si sente in due: da una parte l’uomo inserito, che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano, senza più nean-che l’intenzione del volo. Perché ormai il sogno si è rattrappito.

Due miserie in un corpo solo”. 

Appena nel 2001 (Sette, n. 15) affermava: “In assenza di ideali e forse anche di idee tutti si preoccupano di esasperare le differenze per affermare e giustificare una propria peculiare identità che al contrario ci appare sempre più confusa e indistinta. Tutto diventa, quindi, un intricato gioco di potere dal quale è assolutamente escluso qualsiasi reale interesse per l’individuo, la sua consapevolezza, la sua visione del mondo. E forse anche per questo ci sentiamo sempre più smarriti e incerti sul futuro e abbiamo la sensazione di non essere parte di una reale aggregazione, di una vera comunità”.

Gaber, come tanti altri, si sentiva “di sinistra”, “non della sinistra”.

Ora il vecchio leone se n’è andato, non ruggirà più, non se la prenderà più “col conformismo, con i giubilei, coi nuovi intellettuali, col vuoto tragicomico trasmesso dai media”.

Addio Signor G.

Mirella Venturini