PIU’ IL SOGGETTO E’ DEBOLE

ED EMARGINATO,

MENO VIENE TUTELATO

“Districarsi nelle complicate disposizioni di legge e nella burocrazia, orientarsi tra le istituzioni private e pubbliche, assicurarsi che siano davvero competenti e che stiano svolgendo al meglio il loro lavoro non è certo facile per un comune cittadino. Chi dovrebbe difenderci contro gli abusi che vengono minuziosamente descritti nel volume recentemente scritto da Maria Grazia Breda e Francesco Santanera (Gli assistenti sociali visti dagli utenti. Che cosa fanno, come dovrebbero agire, Utet Libreria, Persona e Società: i diritti da conquistare, Torino, luglio 2002)?

Gli autori puntano il dito verso la figura istituzionale che deontologicamente è preposta a questo compito: l’assistente sociale.

Il codice deontologico degli assistenti sociali è chiaro: “L’assistente sociale deve salvaguardare gli interessi ed i diritti degli utenti o dei clienti, in particolare di coloro che sono legalmente incapaci e deve contrastare situazioni di violenza o di sfruttamento nei confronti di minori, di adulti in situazioni di impedimento fisico o psicologico, anche quando le persone appaiono consenzienti”. Deve contribuire “alla promozione, allo sviluppo e al sostegno di politiche sociali favorevoli alla emancipazione di comunità e gruppi marginali e di programmi che comportino il miglioramento della loro qualità della vita”, difendendo “la propria autonomia da pressioni e condizionamenti”.

In parole povere, in teoria, non dovrebbe lasciarsi condizionare da pressioni esterne, ma non sempre l’assistente sociale è posto in condizioni di fare da filtro tra il cittadino e il potere. Come scrivono gli Autori, “o si fa portavoce di chi è nella situazione di bisogno o di coloro da cui dipende (gli amministratori, i medici, ecc.)... da questa scelta dipende il suo  operato”. Ma... “purtroppo nella maggioranza dei casi sembra proprio che abbia accettato [salvo qualche rara, sporadica eccezione] più o meno passivamente il ruolo che gli viene dato dall’ente in cui lavora e da cui dipende”.

Gli assistenti sociali gestiscono realmente il rifiuto che “la società nel suo complesso e soprattutto nella sua componente politica ha nei confronti di chi ha messo ai margini e ha discriminato”?

Le nostre stesse esperienze dirette in linea di massima dicono il contrario.

Eloquenti, al proposito, alcune testimonianze riportate nel libro: “Non voglio neppure più sentire parlare delle assistenti sociali che sono solamente impiegate che servono al Comune per farti stare buono e ignorare i tuoi diritti”.

Nonostante le migliori intenzioni, l’assistente sociale finisce per adeguarsi ai sistemi vigenti, dimenticando, spesso, che la sua non è una professione qualunque: “chi sceglie questa professione sa a quali problemi andrà incontro”. Purtroppo è raro trovare un assistente sociale disposto ad uscire dalla logica della gerarchia professionale, in presenza di un Ordine professionale che non sempre svolge il ruolo di tutela suo proprio. Quando si dichiari disponibile, c’è subito chi è pronto a ricordargli da chi percepisce lo stipendio e a chi deve cieca obbedienza.

“I Comuni e le Asl - scrivono i nostri Autori -, spesso con la collaborazione di assistenti sociali, impongono pagamenti, non previsti da nessuna legge, ai congiunti nel cui ambito familiare c’è un parente malato cronico ricoverato in un istituto di assistenza: casa protetta o di riposo, residenza sanitaria assistenziale, ecc.. E’ un fatto gravissimo, doppiamente scandaloso. Da un lato, in base alle disposizioni in vigore, le persone colpite da patologie invalidanti e da non autosufficienza hanno il diritto di essere curate gratuitamente (salvo tìcket) e senza limiti di durata dal Servizio Sanitario Nazionale; d’altra parte, il loro trasferimento dalle strutture sanitarie di cura e riabilitazione a quelle del settore assistenziale è un indiscutibile abuso in quanto queste ultime non sono abilitate al trattamento di persone malate; inoltre, la loro organizzazione assai spesso non è in grado di rispondere alle esigenze degli utenti”.

Si noti che, - mettono in chiaro giustamente gli Autori - per mascherare la condizione di persone malate dei soggetti ricoverati in strutture dell’assistenza sociale, essi vengono definiti nelle delibere delle Regioni, delle Asl e dei Comuni come “individui non autosufficienti”. In tal modo, si omettono le cause delle sofferenze e cioè la presenza di patologie in atto (demenza, ictus, cancro, ecc.). “Si tratta di uno dei numerosi trucchi escogitati per allontanare i vecchi malati cronici dalla sanità e inserirli nelle case di riposo e in altri istuti similari”.

E’ appena il caso di sottolineare come nel nostro Paese nel 50% delle strutture ricettive per anziani viene violata la legge. Parola dei Nas. «Su tutto il territorio nazionale, il bilancio dei controlli compiuti dai Nas, in collaborazione con il Ministero della Salute [o della malattia?, n.d.r.], rappresenta l’indice di una situazione drammatica, aggravata dalla palese carenza nei servizi che hanno come utenti le fasce più deboli come i malati cronici ‘over 65’» (Una casa di riposo su due è fuorilegge. Controlli dei Nas: alcuni ospizi ricavati in garages fatiscenti, pubblicato sul quotidiano La Stampa, a firma di Giacomo Galeazzi, l’8 settembre 2001).

Gli Autori, come hanno fatto già in altre innumerevoli occasioni, evidenziano come agli assistenti sociali siano affidati, “non solo compiti importanti in merito alle dimissioni ospedaliere degli anziani cronici non autosufficienti e dei malati di Alzheimer, ma, come risulta dalle testimonianze riportate, essi provvedono anche a richiedere il versamento di contributi economici ai parenti di assistiti maggiorenni ricoverati presso istituti di assistenza: case di riposo, Rsa, ecc.”, mentre “per quanto riguarda i parenti degli assistiti maggiorenni occorre tenere conto che la legge vigente non consente agli enti pubblici di imporre loro contributi economici”. L’art. 438, comma 1, del Codice Civile precisa in modo incontrovertibile che «gli alimenti possono essere richiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è più in grado di provvedere al proprio mantenimento».

Il legislatore, a parere degli Autori e anche nostro, ha ritenuto molto correttamente che la questione degli alimenti debba essere affrontata tenendo conto dell’autonomia dei rapporti parentali. Esclusivamente nei casi di disaccordo (cfr. art. 441 Cod. Civ.) l’autorità giudiziaria interviene su richiesta delle parti in causa per decidere se e in quale misura gli alimenti devono essere corrisposti.

Nonostante le sollecitazioni rivolte all’Ordine degli Assistenti sociali “(violazione sistematica delle leggi vigenti con gravi ripercussioni finanziarie nei confronti di decine di migliaia di soggetti colpiti da gravi handicap o da devastanti patologie, false informazioni fornite in materia di contribuzioni economiche, illecita sottrazione ai cittadini di ingenti somme di denaro, ecc.), non è giunta alcuna risposta, se si eccettua quella fredda e burocratica pervenuta al CSA di Torino il 10 febbraio 1998 dalla presidente nazionale dell’Ordine degli Assistenti sociali: “Si riscontra la vostra nota in oggetto per esprimere la perplessità e il vivo rincrescimento suscitato dal suo contenuto soprattutto nelle parti in cui con estrema superficialità e con frasi e termini assolutamente inaccettabili vengono attribuite agli assistenti sociali responsabilità inesistenti e comunque ad essi eventualmente non addebitabili...”.

Per l’Ordine le notizie fornite dagli assistenti sociali”rientrano nei doveri di informativa degli utenti sui regolamenti degli enti erogatori di servizi in base alla specifica normativa regolamentare di ciascuno di essi”.

Se è sufficiente che le informazioni «siano tratte da disposizioni approvate dagli enti di appartenenza, anche se in contrasto con le norme varate dal Parlamento e promulgate dal Presidente della Repubblica» è a chiedersi, come fanno Santanera e Breda, «a cosa servono il codice deontologico e i relativi principi che riguardano “i diritti degli utenti e dei clienti” e “la responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della società”».

Evidentemente non si tratta di accusare singoli operatori, bensì di una questione generale, di natura etico-politica non affrontabile sul piano operativo dei singoli addetti.

Gli esempi in negativo portati dai due Autori si sprecano. Ai loro ne potremmo aggiungere altri noi, tutt’altro che esaltanti, sul ruolo che si prestano a ricoprire alcuni assistenti sociali. Fortunatamente non tutti.

L’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo recita: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza; non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».

E’ a questo articolo che si sono spesso ispirati i moniti della Corte di Strasburgo, soprattutto ai Tribunali per i minorenni, per una maggiore vigilanza sull’operato dei servizi sociali.

Dopo tante critiche, pur giustificate, ci sentiamo di spezzare una lancia in favore degli assistenti sociali, soprattutto in ordine all’inadeguatezza numerica, come hanno fatto anche gli Autori del volume in discorso. E’ pensabile, ad esempio, che in un ospedale delle dimensioni di quello riminese debba operare una sola assistente sociale?

Parimenti condivisibile la stigmatizzazione della strumentalizzazione del concetto di “sussidiarietà”, che «nella sua accezione più diffusa e per alcuni aspetti, più generica e fonte di equivoci [...] è oggi inteso come regola di ripartizione delle attribuzioni fra i vari livelli di potere» (consigliabile la lettura di L. Irmaghi, La sussidiarietà e il progetto culturale della Chiesa italiana, in AA.VV., Sussidiarietà. Pensiero della Chiesa e riforma dello Stato, ed. Monti, Saronno, 2000).

Numerose, purtroppo, sono state e sono le interpretazioni strumentali del concetto di ‘sussidiarietà’, finalizzate a scaricare sulla famiglia competenze che da decenni erano attribuite al settore pubblico. Altre se ne stanno scaricando con la finanziaria in dirittura di arrivo.

Se è discutibile l’operato di certi assistenti sociali, altrettanto discutibile il ruolo svolto da un certo tipo di volontariato, più paraninfo del potere che effettivo soccorritore, che chi scrive non esita a definire “volontariato di regime”, indipendentemente dal colore politico del “regime”. Ma anche di questo avremo occasione di parlare in un prossimo Consiglio comunale.

Mirella Canini Venturini

 

M. GRAZIA BREDA-FRANCESCO SANTANERA, Gli assistenti sociali visti dagli utenti. Che cosa fanno. Come dovrebbero agire, UTET Libreria, Torino, 2002, pp. 136, E. 13,50.