“INGIUSTIZIA NELLA GIUSTIZIA ITALIANA”

- Introduzione al dibattito del 27 luglio 2000 -

Vorrei subito rassicurare chi ha giudicato fortemente provocatorio il tema di questo incontro. Nessun proposito rivoluzionario. Chi l’ha organizzato ha inteso testimoniare una sorta di impegno civile a difesa, da un lato, dei più deboli, dall’altro, più in generale, di quei principi minimi di civiltà giuridica che si ritengono essere messi in discussione.

L’indisponibilità della sala ci ha impedito di svolgerlo in concomitanza con il “Giubileo delle carceri”. Il ritardo, tuttavia, ci permette di valutare maggiori elementi, vista la conclusione della riunione della Commissione Giustizia del 25 luglio che ha accantonato il provvedimento di amnistia e indulto a conclusione di un nauseante “scaricabarile”, al quale non sono estranee le prossime scadenze elettorali. Ma questa sera non parleremo solo di carcere.


Due anni fa, intervenendo a Santarcangelo al nostro convegno su “Giustizia e legalità”, il p.m. veneziano Carlo Nordio ebbe a dire che la giustizia penale si trovava a un bivio tra un’affermazione di legalità e un’affermazione di giustizia sostanziale: quella che si prefigge soprattutto lo scopo di assicurare ad ogni costo alla punizione dello Stato le persone colpevoli di determinati reati, o comunque ritenuti tali, ponendo in secondo piano o non prestando la dovuta attenzione alle regole che disciplinano il processo penale. Il processo penale e la stessa funzione dei magistrati - le parole sono sue - ha un senso «se noi queste regole le rispettiamo sino in fondo. Il nostro ruolo, il nostro compito, il nostro stesso stipendio, la nostra storia hanno una giustificazione soltanto se siamo lì per far rispettare e rispettare noi per primi quelle regole, anche a costo, qualche volta, di lasciare impunito un colpevole».

Potremmo ripartire da queste affermazioni.

Fortunatamente quelle regole vengono rispettate dai più, anche se amare esperienze stanno purtroppo ad indicare quanto impropriamente sia a volte usato il sostantivo “Giustizia”, allorché ci si riferisce alla concreta applicazione della legge, sostenuta negli ultimi anni da una sorta di invasamento, a volte a senso pressoché unico, che ha colpito un tipo di magistrati che si sono sentiti e si sentono gli unici investiti della sacra missione di purificare una società totalmente corrotta. Eccessi, sia nel sopravvalutare talvolta l’importanza degli indizi di colpevolezza, sia nel sottovalutare che cosa rappresenti per l’uomo la privazione della libertà personale.

Il Papa ci ha ricordato il 24 giugno che «il tempo è di Dio», che non sfugge a questa «signoria di Dio anche il tempo della detenzione. I pubblici poteri che, in adempimento di una disposizione di legge, privano della libertà personale un essere umano ponendo quasi tra parentesi un periodo più o meno lungo della sua esistenza, devono sapere di non essere signori del tempo del detenuto».

Pur non volendo togliere nulla a quanto di buono è stato fatto, i numerosi suicidi avvenuti in carcere soprattutto nella prima era di “Mani Pulite”, danno ragione al Santo Padre. Oltre che “signori del tempo” alcuni si sono creduti anche “signori della vita”.

Chi a livello nazionale ha fatto giustizia a senso più o meno unico è considerato una star nazional-popolare, anche se ultimamente un po’ offuscata, mentre chi ha tentato di fare luce sull’altro versante è stato considerato inventore di un teorema aberrante. Situazioni che non hanno certo contribuito ad accrescere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

Mi capita spesso di polemizzare sull’introduzione della medaglia al merito ai cosiddetti “pentiti”, se preferiamo “collaboratori” di giustizia. Nel precedente convegno ricordavo il “caso Tortora” che purtroppo ha insegnato poco a quanti - come nel “caso Sofri” e per alcuni versi “Mambro e Fioravanti” - restano avvinghiati più ad un inconfessabile bisogno di vendetta che di giustizia... Mi sembra giusto accomunarli perché la giustizia non può essere di parte, una giustizia, cioè, che ritenga credibili i “pentiti” quando infangano la destra e li consideri inattendibili quando accusano la sinistra o viceversa, così come non esistono - come direbbe Giuliano Ferrara - vittime di destra o di sinistra degli arrori giudiziari e delle follie d alcuni protagonisti del sistema penale.

Non si tratta di demonizzare la funzione svolta dalla Magistratura. Al contrario, ritengo doveroso da parte di tutti dare sostanza e stimolo alla tensione ideale che esige un cambiamento, un recupero pieno di garanzie, una consapevolezza rigorosa del primato del giusto processo rispetto alle illusioni repressive ed agli effetti inquinanti che potrebbero produrre alcune prassi giudiziarie. In questi anni abbiamo letto e sentito più volte di pratiche volte alla “distruzione pulita” di colpevoli refrattari, sino ad indurli al cosiddetto “pentimento”.

L’uso del termine “pentito” per designare un detenuto che redige, su promessa di premio legalizzata, una lista di nomi di persone da arrestare, secondo me rappresenta un’intollerabile scorrettezza semantica, per far risaltare la quale occorre ricordare il significato di “pentimento”.

Pentimento è chiamata interiore ad un tipo di vita nuovo e diverso, e la sua genuinità e solidità sono proporzionali all’assenza di coazione esterna che limiti la pienezza di libertà e di equilibrio di pensiero, sentimento, volontà, dalla quale solamente può procedere il rigetto veramente ragionato, sentito e voluto, di un’intera linea di condotta precedente.

In presenza di coazione esterna, proporzionalmente alla sua forza, aumenta la possibilità che non si tratti di pentimento, forse nemmeno di collaborazione, ma di cedimento o di simulazione.

Si ha pentimento quando, presa coscienza di aver sbagliato, non solo non ci si cura delle conseguenze pericolose per sé di quell’atto, ma si prova desiderio di espiazione, attraverso autopunizione.

Si ha pentimento finale quando si passa da una linea di condotta che calpestava un ordine di valori ad una che li rispetti, dimostrando ciò sia astenendosi da quegli atti, ora ritenuti condannabili, sia cercando di riparare a guasti prodotti con la loro commissione da parte propria.

Analizzando un classico esempio di pentimento, quello dell’Innominato manzoniano, vediamo che esso nasce da nessuna pressione esterna, se non da quella spirituale dell’essere, non a caso, più debole del suo mondo: Lucia. Desidera, ricerca e realizza, nello scioglimento della propria banda armata, il ludibrio della rinuncia al proprio valore supremo, il potere, ed alla sicurezza fisica da esso derivata. Non corre a raccontare al Vicerè di Milano ciò che hanno fatto i suoi bravi e qualcosa che ha fatto lui, ma comincia subito con un atto di vero ravvedimento operoso: quello di liberare Lucia, ripromettendosi di farne tanti altri coerenti al nuovo valore scoperto, cioè tutti e solo produttivi di bene per i loro destinatari.

La “giustizia” statale non entra affatto in questo processo interiore e nella sua espressione esterna, in nessun modo. Il lapidatore fariseo di cristiani, Saulo, dopo la conversione non denuncia il clero del Tempio ai Romani, ma si limita a predicare il Vangelo.

Nella gran parte dei casi di “pentimento” abbiamo letto o sentito di casi di violenze psicologiche quali l’isolamento e della simultanea proposizione di “premi” estremamente appetibili, per non parlare della spinta alla delazione verso compagni che, per motivazioni personali o politiche, avevano offeso o emarginato il futuro “pentito”.

In questi anni abbiamo assistito ad una gara fra i cosiddetti “pentiti” per fruire di ogni possibile vantaggio pesonale, consapevoli e compiaciuti dell’acquisizione di un nuovo, enorme potere, e nel cuore dello Stato.

Pur con i dovuti distinguo, per molti è solo cinismo parlare di “pentimento”. A volte, anzi, il pentimento simulato potrebbe contribuire ad agevolare l’eliminazione di concorrenti scomodi.

Lo Stato perdona atti di violenza diretta, non tanto in forza di una rinuncia alla violenza da parte del colpevole, ma in forza del suo cambio di campo, pervertendo il valore etico del perdono e le tavole del diritto, invece di accedere ad un grado superiore di moralità, sono abbassate a tavolo di trattativa presso il quale chi prima e dopo di pentirsi ha rovinato esistenze, più si trova arricchito di potere contrattuale di fronte alla controparte.

La nuova regola sembra essere “Molto ti sarà perdonato, perché molto hai tradito”.

A Leonardo Marino, il fritellaio pentito accusatore di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, si è potuto perdonare “settanta volte sette”. La sua parola accusatoria, ancorché povera di riscontri, una volta pronunciata, resta per l’eternità, per il fatto - come diceva Vincenzo Monti - «che sillaba di Dio non si cancella».

La veridicità delle accuse, alcune addirittura ridicole, mosse da 26 pentiti a Giulio Andreotti, sono state messe in discussione; quella di Marino, nuovo “verbo statale incarnato”, no. Sufficiente un soffio di Marino perché la fanghiglia di sospetti discordanti prenda corpo e consistenza: basta quella parola per trarre anche assolutamente dal nulla la medesima prova, come solo Dio, all’inizio, fece creando la materia.

Quando il nuovo “profeta” entra in contraddizione con se stesso, intervengono i teologi togati pronti a giustificarlo, superando la contraddizione nel momento della sintesi già data a priori: la condanna degli accusati.

L’onnipotenza del “verbo di Marino”, più pesante della spada di Brenno, è riconosciuta da tutte le Corti.

Il Prof. Vassalli sosteneva che «i controlli, oltre a quelli logici, non devono mai essere dimenticati nel processo penale», non discostandosi da Stefano Rodotà e dalla stessa Cassazione. Ma purtroppo i pentiti non sono tutti uguali, come non lo sono gli imputati.

La più raccapricciante perversione portata da certo “pentitismo” nell’apparato giudiziario - fatti, ripeto, gli opportuni distinguo -, è la scomparsa, su larga scala, della categoria dell’innocenza, e la sua sostituzione con quella dell’impunibilità dietro scambio.

In molti casi l’innocenza è diventata una palla al piede, un non-valore, un vuoto, una vergogna e un danno davanti allo Stato giudicante.

Giuda fu autore di un pentimento vero, testimoniato dal non voler godere del premio della Corte del Sinedrio, restituendo i 30 denari e riconoscendo la propria colpa: «Ho tradito il sangue innocente», giungendo all’autopunizione, al suicidio, che nessuno oserebbe chiedere o suggerire ai cosiddetti pentiti dei giorni nostri.

Marino, dopo aver teso a trasformare il magistrato in giustiziere degli ex-compagni, oggi, al riparo definitivo da ogni sorpresa giudiziaria, professa e ostenta elevati sentimenti religiosi.

Abbiamo tra noi Roberto Giannoni, vittima innocente di ingiuste leggerezze di valutazione delle affermazioni di una discussa e discutibile “pentita”. Ne è uscito assolto e riabilitato dopo dodici mesi di carcere a Sollicciano. Di qui il titolo del suo libro Hotel Sollicciano. 12 mesi in una suite dello Stato a mezza pensione. Ma a quale prezzo, ammesso che la gente comune prenda mai atto della riabilitazione? Ce ne parlerà lui stesso, come ne parlò da Maurizio Costanzo e ai Fatti Vostri.

Potrei citare il magistrato calabrese Giacomo Foti, successivamente assolto “per non aver commesso il fatto” e reintegrato dal CSM nelle sue funzioni originarie di Presidente di sezione del Tribunale di Reggio Calabria, a differenza di Giannoni che il posto di funzionario di banca lo perse per sempre.

Le assoluzioni elargite applicando l’art. 530 sono altra cosa, anche se viene spontaneo chiedersi: perché 26 pentiti non hanno costituito una prova, mentre la parola di un solo uomo, dal passato tutt’altro che limpido, è stata sufficiente ad infliggere 22 anni di galera a Sofri, Bompressi e Pietrostefani?

Più che legittimo che la gente si chieda, come io stessa mi chiedo, se è possibile che la giustizia sia certa, che le leggi non vengano intepretate ora in un modo ora in un altro a seconda che in una sede giudiziaria ci sia un magistrato o un altro, o che questi si riconosca in questo o quel partito, in questa o quell’area, quando non in questa o quella loggia, che un magistrato si senta un poco legislatore, un poco ministro, un poco poliziotto e anche un poco carceriere?

Si chiede con insistenza la “certezza della pena”, ma non sarebbe parimenti legittimo invocare la “certezza della giustizia”?

Forse ha ragione l’on. Preti quando - nel libro sulla Crisi della Giustizia in Italia appena licenziato dalle stampe - ribatte sul concetto di ordine e non di potere, come già aveva fatto ai tempi della Costituente? Questa, del libro di Preti, è la parte che condivido: «Il fatto che la magistratura sia logicamente autonoma in uno Stato democratico moderno non significa assolutamente che essa rappresenti un “potere”, da contrapporsi in certo modo al Parlamento», eletto dal popolo sovrano. Oltre tutto si tratta - come scrive l’anziano deputato che fu più volte ministro - di funzionari non eletti dal popolo, ma vincitori di un concorso...

Per finire, due parole sul carcere. Paolo Severi, autore di 231 giorni di carcere, lo farà tra poco molto meglio di me.

Mentre c’è sempre stata molta attenzione per il momento criminale, processuale o giudiziario, c’è stato - e tuttora c’è nonostante i fatti che hanno riempito le cronache dei giorni scorsi e che probabilmente continueranno a riempirle dopo il naufragio dell’ipotesi di amnistia - una sorta di rimozione sul momento punitivo, sulla esecuzione della pena e si va avanti immaginando che l’unica risposta istituzionale non possa essere che il carcere.

Non si può neppure ignorare come i problemi dell’Amministrazione Penitenziaria siano stati costantemente ghettizzati, sommando segregazione ad emarginazione. L’attenzione pubblica si risveglia solo quando accadono fatti da leggersi in negativo. Ricordo che Nicolò Amato, proprio a Rimini sosteneva con forza: «Se il carcere dovrà rimanere risposta istituzionale e se vogliamo che sia una “pena umana”, a misura d’uomo, capace di risocializzare, di non recidere completamente i rapporti del trasgressore con la società, capace di non spegnere completamente la speranza, occorre che ci convinciamo e convinciamo gli altri che la società tutta intera nel suo complesso senta e faccia propri i problemi, le esigenze e i bisogni degli uomini e delle donne privati della libertà personale e degli uomini ai quali è affidato il compito difficilissimo e anche rischioso di occuparsi di loro».

Amato aveva ragione, ma le polemiche decisioni di questi giorni sono andate in altra direzione: «I problemi del carcere si possono risolvere soprattutto fuori dal carcere, non dentro, e non si risolvono con le belle parole e le buone intenzioni, ma cominciando a cambiare le cose». Sempre si vogliano cambiare.

Il Papa ha avuto il merito di riproporre un problema che si tende a rimuovere. Alla “Giornata del Giubileo dei detenuti” ha fatto seguito un elenco interminabile di buoni propositi: secondo alcuni decisioni di “portata storica”, secondo altri “sogni da faraone”, secondo altri ancora, una grande, anticipata campagna elettorale, da sinistra e da destra, snobbando le parole del Papa che ha ricordato a tutti che il Giubileo significa anche adoperarsi per creare occasioni nuove di riscatto: «Astenersi da azioni promozionali nei confronti del detenuto significherebbe ridurre la misura detentiva a mera ritorsione sociale rendendola soltanto odiosa».

Alle parole del Santo Padre si oppongono le invocazioni televisive di certi deputati che da una parte chiedono, e dall’altra propongono e promettono, solo costruzioni di nuovi carceri. Altro che il ripensamento auspicato da Giovanni Paolo II, di apertura verso «una giustizia più vera, perché aperta alla forza liberatrice dell’amore»”: Forza Italia ha sì bocciato le proposte, ma è innegabile che i diessini hanno gongolato!

Mirella Venturini

Consigliere comunale della

Lista Verde Alternativa

Comune di Santarcangelo di R.