QUANDO LE CAMPANE DELLA GIUSTIZIA...

Riempire un enorme salone a fine luglio non è impresa facile, tanto più difficile quando ostinatamente non ci si vuole riconoscere in alcun partito, a meno che non si riconosca la dignità di partito a quello che unisce quanti si sono sentiti perseguitati dall’ingiustizia.

Fa quasi senso veder giungere - tra tanti - il noto avvocato forlivese Campisi con in mano un libro di Agostino Viviani, Il nuovo codice di procedura penale. Una riforma tradita, quasi a sottolineare la continuità delle nostre ormai storiche battaglie che hanno avuto, ed hanno, ad oggetto quel particolare “potere giudiziario”, come direbbe Agostino, «così indipendente ma così attratto dal fascino discreto del “palazzo”»; quel “potere” «che è in realtà più semplicemente un “ordine”, e la sua struttura separata dal potere legislativo e dal potere esecutivo, era stato così concepito dai nostri Costituenti anche per prevedere un argine ad un eventuale straripamento del Parlamento e del governo soprattutto fuori dei limiti - che dovevano essere inderogabili e che non lo sono stati - delle libertà fondamentali del cittadino, quelle che attengono alla sua natura di uomo e che non possono essere sacrificate o compromesse da esigenze ed imposizioni, anche politiche, senza degradarlo a suddito o a prigioniero» (Agostino Viviani, Ingiustizia e illegalità di Stato in Italia). Viviani, vecchio galantuomo, intelligente maestro, molti anni fa presidente della Commissione Giustizia del Senato, presentatore della prima proposta di legge sul risarcimento del danno procurato dall’ingiustizia della giustizia, deluso ma pur sempre indomito combattente... Uno sguardo alla copertina del libro che Roberto Compisi tiene quasi con devozione, sposta la mia attenzione ai ricordi, tant’è che Francesca Scopelliti mi incita gentilmente a dare la parola a Roberto Giannoni, definito da Renato Quilici “Crocifisso nel duemila”, innocente, costretto per un anno al carcere duro sotto le rigide regole del 41 bis, «la perdita del posto di lavoro, l’indifferenza e il sospetto degli amici, la diffidenza della società civile anche dopo l’assoluzione», poiché alla fine - come lui stesso ricorda al Lavatoio, accattivandosi le simpatie della platea - i giudici l’hanno riconosciuto innocente. «Un tunnel buio, interminabile, colmo di insostenibili umiliazioni, fino a quando il sole dell’assoluzione non ha fugato le tenebre del sospetto e dell’infamia, restituendogli ufficialmente la “patente” di uomo innocente».

La sala polivalente del Lavatoio non ha la maestosità scenografica dei Fatti Vostri o del Costanzo Show, anche se la “diretta” di Radio Radicale ha pure lodevolmente moltiplicato le nostre voci. Qui, tuttavia, Roberto Giannoni non può non aver sentito, a livello di pelle, la corrente di simpatia umana che attraversava la platea alle sue parole. Parole che mi riportavano agli scritti del prof. Franco Luberti, quando, membro del CSM, affermava: «Occorre dirlo fuori da ogni diplomazia: oggi in Italia la carcerazione prima della celebrazione del processo, lungi dall’essere una misura processuale eccezionale finisce per essere considerata una cattiva abitudine cui si ricorre per necessità e che non rimorde al giudice... anche se si degrada sino a divenire irrogazione preventiva di pena o mezzo squisito di tortura per ottenere prove da confessione non altrimenti acquisibili, anche se la libertà personale di un indiziato non è in conflitto con le esigenze istruttorie e non vi è pericolo di fuga... Il senso di frustrazione del giudice che conduce al provvedimento di cattura quale unica sanzione per un delitto nel momento in cui la strada del giudizio sappiamo quanto è lunga ed irta di ostacoli che dissolvono ogni ipotesi di danno e di pena per chi danno e pena ha arrecato...».

Francesca Scopelliti con la semplicità e la dolcezza, coniugate con la fermezza, ha subito conquistato l’uditorio, consapevole che lei ha conosciuto sulla propria pelle l’ingiustizia della giustizia. Chi non la ricorda a fianco di Enzo Tortora nella lunga e tormentata battaglia per il diritto a vedere riconosciuta la sua innocenza ed estraneità ai fatti che gli venivano attribuiti? Una battaglia che Tortora stesso volle trasformare in una lotta più ampia, che andasse oltre il suo caso personale e che avesse come obiettivo l’affermazione di quella che chiamò “giustizia giusta”.

Francesca ha raccolto l’esplicita volontà di Enzo ed è stata la promotrice e fondatrice di un’Associazione - che porta il nome di Enzo Tortora - che ha come fine istituzionale quello di battersi contro i casi di denegata giustizia e per l’affermazione di una vera giustizia. In questi anni non vi è stata campagna, iniziativa a favore dei diritti umani e civili che non l’abbia vista presente, spesso in veste di protagonista: contro le mine antiuomo, per l’abolizione della pena di morte nel mondo, per l’istituzione del Tribunale penale internazionale: Sono solo le più note ed autorevoli, che l’hanno portata a incontrarsi, e spesso a scontrarsi, con i rappresentanti dei governi di molti Paesi.

Questi i motivi che mi hanno indotto ad invitarla a Santarcangelo. Non tanto perché senatrice di Forza Italia, forse un po’ anomala, stante la sua ansia di garantismo, ma perché queste sono le sue “referenze”, soprattutto umane. Ma non basta. E questo lo scrivo in risposta al gruppetto - per la verità molto modesto - che ha ritenuto giusto andarsene perché in sala erano presenti sette, dico sette, aderenti del partito azzurro, graditissimi ospiti alla pari di altri. Parte del dibattito doveva essere dedicata a quella che personalmente considero un’altra ingiustizia: la vicenda che ha visto condannare a 22 anni di carcere i tre leader di Lotta Continua - Sofri, Bompressi e Pietrostefani -. Comunicatami l’impossibilità a partecipare di Bompressi, ho ancor più apprezzato la disponibilità della sen. Scopelliti: la sua presenza a fianco di Adriano Sofri - del quale è anche molto amica, come lei stessa ha ribadito a Santarcangelo - è nota a tutti e sono state davvero numerose le sue iniziative parlamentari in questo senso. Ha raccolto centinaia di firme di deputati e senatori, ha presentato interrogazioni parlamentari, disegni di legge, li ha fatti approvare, nonostante le obiezioni e le resistenze che da tutte le parti (proprio tutte: sinistra, destra e anche centro) sono state avanzate.

Francesca Scopelliti, infine, ha una grande consuetudine con il carcere: ne ha - suo malgrado - conosciuto gli aspetti più terribili e dolorosi, ma - anche se sarebbe stato comprensibile il contrario -, non li ha voluti dimenticare. In questi anni ha visitato decine e decine di carceri, occupandosi di numerosissimi casi personali (“i detenuti sono tutti casi personali”). Ha presentato la più meditata e valida proposta di amnistia e indulto fra quelle depositate in Parlamento. Si è infine battuta - sino alla mattina del convegno e oltre - affinché i veti reciproci, le rigidità e le diffidenze non vincessero contro il buon senso e non si chiudesse definitivamente la possibilità di provvedimenti di clemenza.

Sulla cronaca vera e propria del dibattito, per mancanza di spazio entrerò in una successiva “puntata”.

Volevo solo sforzarmi di far comprendere - a chi non capisce o finge di non capire - i motivi che mi hanno spinto a volere ad ogni costo a Santarcangelo un dibattito, definito da molti di “alto profilo”, volutamente privo di qualunque adesione politica. Motivi che ha ben sintetizzato il Sindaco di Santarcangelo, forzatamente assente, nella comunicazione che ho letto al Lavatoio: «Legalità, giustizia e umanità sono temi di grande attualità, che contraddistinguono una società civile e la fanno definire tale. Riflettere su questo non può che giovare ai singoli e alla collettività».

E se così è stato non posso che sentirmi soddisfatta dello sforzo personale messo a disposizione della mia comunità.

Mirella Venturini