“Ingiustizia nella giustizia italiana” - 2

“SIAMO TUTTI IN ATTESA DI GIUDIZIO...”

Francesca Scopelliti giunge direttamente da Roma, dove poche ore prima si è chiuso il brutto capitolo dell’amnistia, condotto - cosiderando a chi era diretto - in maniera politicamente canagliesca.

. «Rattristata per non aver concluso un compito che invece andava concluso», ha considerato l’incontro con noi, a Satarcangelo, una sorta di riscatto: «per quanto non abbiamo potuto fare in Parlamento, che mi auguro possa essere fatto a settembre, magari con toni più pacati, con un bagno di umiltà che devono fare tutte le parti politiche, con senso di responsabilità e maggiore consapevolezza».

La senatrice è particolarmente toccata dal tema in discussione “Ingiustizia nella giustizia italiana”. «Attorno a questo tavolo c’è l’esempio di Roberto Giannoni che, fortunatamente, perseguitato dalla “giustizia ingiusta” risiede in un paese, Venturina, che lo ama». D’altronde, è noto, il 25% della popolazione carceraria risulta innocente in primo grado o addirittura all’atto del rinvio a giudizio. Purtroppo non ne sono piene le cronache perché da noi fa solo notizia chi è accusato o arrestato, non chi è scagionato. «I dati confermano che da noi l’errore giudiziario è una costante. Due anni fa ho partecipato ad un megaconvegno ad Erice. Mi colpì, soprattutto, l’intervento di Giancarlo Caselli, all’epoca Procuratore di Palermo, che in un intervento tecnicamente molto accorto, arrivò a concludere, senza battere ciglio, che l’errore giudiziario in Italia esiste, probabilmente in misura superiore ad altri Paesi europei, ma che non si può fare nulla per sconfiggerlo essendo fisiologico, è nelle cose della giurisprudenza». Più che l’affermazione, sconvolgente che la stessa non provocasse alcuna reazione, in nessuno.

La Scopelliti, che si è trovata a doversi occupare di “giustizia” per le note vicende della vita, intervenendo dopo Caselli disse che «forse gli errori della nostra giustizia non erano dettati dai codici e dalle leggi, ma soltanto da chi applicava quei codici e quelle leggi», conferma puntualmente fatta registrare dall’assoluzione di Giulio Andreotti: «Ho paragonato la sentenza di Andreotti con quella di primo grado del “caso Tortora”. Tutto questo è imperniato su un articolo del nostro codice. L’art. 192 del c.p.p. prevede che la dichiarazione di più pentiti non costituisca una prova. Prima che quella dichiarazione abbia valore è necessario il riscontro probatorio».

Nel caso di Tortora, nel 1984, «i giudici napoletani decisero che 17 pentiti, 17 delinquenti farabutti menzogneri, 17 menzogne costituivano una verità e condannarono Tortora a 10 anni, alla sospensione dei diritti civili e quant’altro». Nel processo di Palermo, l’interpretazione dello stesso articolo, in presenza della stessa situazione, si è stabilito che 26 pentiti che accusavano Andreotti, non costituivano una verità perché mancava la prova».

Se lo stesso articolo del nostro codice ha un’interpretazione diametralmente opposta, «l’errore giudiziario non è dettato dal codice, ma dall’uomo, dal giudice che lo interpreta e lo applica ponendo in essere “giustizia” o “ingiustizia”».

Di qui la necessità di intraprendere un «percorso culturale di professionalità dei giudici, prima ancora di professionalità del pubblico ministero che non può mettere in galera solo perché ha sentore che qualcosa non va. Il carcere deve essere utilizzato come ultima ratio, come fatto eccezionale, mentre oggi è considerato una sorta di panacea per tutti i mali».

Il “cancro dell’errore” è già insito nella fase istruttoria, con la complicità dei mezzi d’informazione pronti a demonizzare e a distruggere. La storia di Roberto Giannoni è questa.

A questo punto la senatrice azzurra non poteva non fare riferimento alla battaglia condotta da Forza Italia in ordine all’inserimento nella nostra Costituzione del concetto di “giusto processo”. «Se al principio costituzionale non applichiamo comportamenti consoni, non obblighiamo quei magistrati ad applicare le norme che fanno del “giusto processo” anche una “giusta sentenza”, non cambia nulla».

La prova più recente si è avuta nel “processo Sofri” di Venezia: «Quanti come me hanno seguito attraverso Radio Radicale quel processo di revisione, avranno constatato l’inappuntabilità di comportamento dei giudici: hanno accettato le richieste della difesa, hanno permesso ad Adriano Sofri di fare un lungo intervento a difesa... Io poi ero particolarmente soddisfatta perché, se il processo di revisione si era trasferito a Venezia e prima ancora a Brescia, era merito di una legge mia, che porta la mia firma, anche se è più nota quale “legge Sofri”. Si tratta di quella legge che ha permesso l’assoluzione di quell’imprenditore che si è fatto sette anni e mezzo di carcere. Giudicato innocente perché nel processo di revisione fatto in un collegio diverso da quello che lo aveva condannato, si è scoperta la sua innocenza».

Tornando al “processo Sofri”, era stato possibile sottolineare e far emergere tutte le contraddizioni del “pentito” Marino. «I giudici di Venezia hanno applicato alla lettera il principio costituzionale del “giusto processo”, hanno ascoltato tutte le richieste della difesa, però poi hanno sentenziato secondo i loro convincimenti, secondo un convincimento troppo datato, senza contraddire la magistratura milanese e bresciana che avevano respinto la richiesta di revisione».

Il discorso della Scopelliti torna alla necessità di cambiamento della cultura giuridica, abbattendo quella cultura «così meschina, così gretta che fa della cultura del carcere l’ambito di sfogo. In Italia si vive di carcere. Viviamo di magistrati e di carcere... Siamo tutti un po’ meno liberi, in attesa di giudizio. In attesa di giudizio perché un padre oggi dà uno schiaffo ad un figlio, domani perché un marito dà un pizzicotto alla moglie, dopodomani chissà per quale motivo...».

Repubblica penale e cultura del carcere: «Prima delle ferie andrò a trovare Silvia Baraldini, a Pisa da Adriano Sofri, come pure a Civitavecchia il cui carcere ospita ancora un residuato del vecchio processo Tortora, in galera dal 1983...».

Già, Silvia Baraldini... Sino al 24 agosto 1999, giorno del ritorno nel nostro Paese dopo anni di battaglie e pressioni sul governo americano, tutti ne parlavano in termini solidali. Poi, da quel giorno, il movimento di solidarietà nei suoi confronti si è praticamente dissolto, nonostante l’aggravamento dello stato di salute. L’avvocato Grazia Volo da mesi conduce una battaglia con il Ministero della Giustizia e con il DAP perché, in considerazione della delicatezza del probabile nuovo intervento chirurgico, Silvia Baraldini venga operata da un oncologo di sua fiducia. A settembre la decisione definitiva.

Girando negli istituti di pena, Francesca Scopelliti si rende conto «che il carcere dovrebbe contenere casi giudiziari che nascono dagli errori umani. Nelle carceri, viceversa, ci sono più casi umani che non casi giudiziari e più errori giudiziari che non errori umani, errori di valutazione. Quando il Tribunale di Sorveglianza, recepisce il messaggio della politica che si appella alla sicurezza da far ricadere sul carcere, perché l’opinione pubblica che ci vota vuole ci sia un restringimento nelle garanzie individuali, non fa altro che chiudere i cordoni del rispetto di quelle che sono le leggi penitenziarie, nel momento in cui non concede a Ovidio Bompressi o ad Andraous di essere qui con noi, o al giovane padre di famiglia di incontrarsi col figlio perché è in 41 bis, o al detenuto di essere ammesso al lavoro esterno...».

Il progetto di legge presentato dalla Scopelliti di amnistia e indulto, predisposto da Pavarini e Maisto, è stato respinto poche ore prima del dibattito di Santarcangelo, «per errori che vanno equamente distribuiti a destra e a sinistra». Con una differenza: «i problemi del carcere, come qualsiasi altro problema della società, sono problemi a carico di chi governa. Siccome una norma costituzionale impone la maggioranza qualificata del Parlamento (due terzi, quindi maggioranza più parte dell’opposizione), il governo aveva correttamente rinviato la decisione al confronto parlamentare. Questo confronto la sinistra non l’ha neppure avviato, perché il maggior partito di maggioranza - DS - sventolava la bandiera dell’indulto, mentre effettivamente non lo voleva, perché qualsiasi atto clemenziale oggi fa perdere consensi elettorali. Avremo raggiunto la stabilità con un governo che dura cinque anni, però è altrettanto vero che abbiamo già avviato da cinque mesi la campagna elettorale. Dovendo pagare lo scotto di un anno di campagna elettorale, non si fa nulla che serva per timore di incorrere in una perdita di consenso elettorale».

Nel nostro Paese si vanno formando correnti di giudizio diverse sul carattere democratico dello Stato. S’ingrossa ogni giorno il numero dei cittadini che si chiedono, dopo quanto si apprende ogni giorno, se esso garantisca ancora le libertà fondamentali dell’uomo.

La stessa sentenza dei Tribunali, a giudicare da vicende giudiziarie quale quella occorsa ad Adriano Sofri (per citarne uno solo), non garantisce più nessuno.

Ogni tanto si alza qualche voce (a volte solo un sussurro destinato a rientrare, non foss’altro per amore di... carriera) in favore della separazione delle carriere, molto meno di riforma dell’istituto della custodia cautelare.

Moti di rivolta di non colpevoli privi di forza, lacrime di vedove e figli, veleni, ricatti e pentiti, hanno finito per ridurre lo Stato di diritto un cumulo di macerie, dal quale non può nascere che divisione sociale, com’è apparso chiaramente anche in occasione del “Giubileo dei detenuti”, che ha finito per dividere gli stessi cosiddetti cattolici/cristiani.

Gli esempi e la documentazione non mancano, ma fanno scalpore solo quando ad esserne investiti sono personaggi più o meno noti, più o meno pubblici.

A rappresentarli tutti al nostro dibattito abbiamo scelto Roberto Giannoni, come direbbe il suo avvocato quasi “un signor nessuno”, del quale avevamo seguito le vicende al “Maurizio Costanzo Show” e ai “Fatti vostri” e sulla stampa del tempo. La sua personalità, mite e buona, la sua umanità hanno avuto tuttavia un maggior risalto nella nostra modesta cornice clementina, dove ha suscitato una corale corrente di simpatia umana apprendere dalla sua viva, simpatica voce toscana quanto ne sia uscito provato, forse per sempre, insieme alla sua famiglia distrutta dalle dolorose circostanze.

ROBERTO GIANNONI, VITTIMA DEL

“PERIODO D’ORO” DELLE MAXIRETATE

La vicenda di Giannoni ha avuto un avvio decisamente kafkiano: «Alle 4.15 del 10 giugno ‘92 suonano alla porta ben 12 poliziotti... Mi dicono che devono perquisire la casa... l’avvocato mi dice che quelli sono lì per arrestarmi. Rimango senza fiato... associazioni mafiose... usura... estorsioni... armi... stupefacenti. Io neanche capivo cosa significavano quelle parole... In manette abbandono la mia casa lasciando i miei genitori atterriti in mezzo al corridoio. Questa immagine non si cancellerà più dalla mia memoria e da quel momento nella mia famiglia non ci sarà più tranquillità».

Ha così avuto inizio la fine di una vita fatta solo di lavoro onesto. Sottoposto al regime del 41 bis, il carcere duro riservato ai mafiosi, Giannoni, stimato funzionario di banca nella quale operava da oltre 24 anni, due giorni dopo l’arresto verrà licenziato dalla Cassa dei Risparmi di Livorno, essendo state avanzate, da alcuni “collaboratori di giustizia”, accuse e dichiarazioni infamanti, tali che il padre morirà il giorno successivo al decreto di rinvio a giudizio. Perderà anche la fidanzata.

La sua implicazione «era dovuta al fatto che una signora di Piombino, nota a tutti per la sua stravaganza e moralità» lo accredita e lo dipinge «quale elemento di spicco di un’associazione a delinquere di stampo mafioso [i giornali dell’epoca la definirono banda dei “pirati della costa”, n.d.r.] presieduta da un noto personaggio della zona ed altri individui che io neppure avevo mai visto».

All’interno della combriccola, secondo l’accusa, Giannoni avrebbe favorito la consumazione di reati di usura ed anche estorsioni. Addirittura, secondo le dichiarazioni di quella “signora”, nella cassaforte della banca presso cui lavorava avrebbe custodito ingenti quantitativi di cocaina. «Mi accusava anche di aver concorso a traffico internazionale di armi provenienti dalla Palestina, nonché di avermi indotto ad una breve, brevissima, occasionale relazione».

Alla “signora” non doveva difettare la fantasia se è vero che nelle sue dichiarazioni «asseriva di conoscere fatti e circostanze inerenti addirittura la persona di Craxi». Altro pesante accusatore un bancario di Lucca, arrestato per aver favorito la consumazione di due rapine in istituti di credito della Lucchesia ove operava. Fortunatamente in seguito si pentirà di averlo accusato ingiustamente, facendo crollare il fragile castello accusatorio: «Riferendo al Tribunale che tali accuse gli erano state sollecitate dal p.m., altrimenti non avrebbe ottenuto la libertà, confessò l’inconfessabile. Disse, infatti, che con me aveva avuto solo un corretto rapporto da bancario a bancario... Non di meno confermò tutte le accuse nei confronti di quegli imputati con i quali aveva concorso nella consumazione delle rapine».

Alla fine il processo, iniziato il 27 marzo ‘95, protrattosi per 144 udienze, si concluderà la mattina del 15 dicembre ‘98 con l’assoluzione di Giannoni con formula piena: «Il p.m., dopo una requisitoria durata oltre due giorni, spiega che il dibattimento non ha dimostrato nessuna associazione a delinquere di stampo mafioso né associazione a delinquere normale, richiedendo molte condanne e pochissime assoluzioni, tra le quali la mia». Il padre era già morto, la madre morirà due mesi dopo.

E dire che il Tribunale della Libertà lo aveva definito “elemento pericolosissimo” in quanto negava gli addebiti contestatigli!!

Dalle parole di Giannoni non traspare rancore, solo tristezza: «... Questo Stato ti controlla, ti indaga, ti arresta anche se sei innocente e dopo essere stato assolto non una parola, non una lettera... Ti “strappano” dalla famiglia, dal lavoro, dalla vita e nessuna istituzione, dopo, si preoccupa del tuo stato di salute, di ridarti un lavoro, di reinserirti nella vita sociale... Quando usciamo troviamo un mondo del quale non facciamo più parte... Trovarmi di fronte a voi, così numerosi, mi fa piacere; mi fa piacere soprattutto che tra voi ci siano molti giovani a smentire la diceria del disinteresse dei giovani».

Giannoni conclude - come già nel suo libro Hotel Sollicciano. 12 mesi in una suite dello Stato a mezza pensione - con un auspicio: «...che possa aiutare chi avrà la fortuna di ignorare nella sua vita la realtà del carcere a capire la fame di solidarietà, di comprensione, di riscatto e di amicizia di persone come me. Con questo mio libro e con questa mia voce che porto tra voi, voglio anche essere la voce di tutte le persone che sono state vittime di ingiustizia ma che non hanno avuto la mia fortuna. Anzitutto, come ha detto la senatrice Scopelliti, di godere dell’amicizia e della stima di un intero paese. Non porto rancore verso chi mi ha procurato dolore, però il perdono è un’altra cosa. Nel mio libro chiedo ai magistrati di recarsi sulla tomba dei miei genitori e chiedere loro scusa. Lo devono ai miei genitori che sono morti...».

Sentimenti - lo rassicuriamo - che nel numeroso ed attento uditorio del “Lavatoio” ha saputo egregiamente suscitare. Ed era anche questo uno degli scopi del dibattito.

Per onor di cronaca, tre destini completamente diversi: la vita di Giannoni completamente distrutta; il commissario che eseguì l’indagine e raccolse le prime testimonianze dei “pentiti” è stato promosso questore prima della fine del processo, mentre il magistrato che aveva condotto l’indagine dando credito ai due “pentiti”, è entrato a far parte del CSM, anche lui prima della fine del processo...

PAOLO SEVERI: «La differenza tra me e Giannoni

è che lui ha vissuto il carcere da innocente, io da colpevole»

Paolo Severi nel 1996 ha trascorso 231 giorni di carcere. Di qui il titolo del suo libro: 231 giorni. Un diario dal carcere. Un percorso di liberazione, con la presentazione di Dario Fo e gli interventi di Sergio Cusani, Adriana Zarri e Saverio Tutino. Quest’ultimo è il fondatore e direttore della Fondazione Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano che, ancora inedito, l’ha segnalato.

«La differenza tra me e Giannoni è che lui ha vissuto il carcere da innocente, io da colpevole. Fui espulso dalla Comunità di San Patrignano e rimandato in carcere. Qui ho tenuto il ‘diario’ che ha costituito poi il libro. L’ho descritto con l’ottica di una persona completamente cambiata, non con l’atteggiamento del piagnisteo del detenuto che non è cosciente di quel che ha fatto. Io non sono né pentito né dissociato: sono soltanto cambiato. Nel mio libro riferisco cose che non dovrebbero accadere, a partire dallo spaccio di sostanze stupefacenti all’interno delle strutture penitenziarie».

Impensabile che qualcuno possa morire per overdose in luoghi dove dovrebbe attuarsi il massimo controllo, ma purtroppo accade.

La storia di Severi, raccontata anche a Santarcangelo, fotografa sì l’inferno carcerario dal quale è “uscito” dopo 231 giorni, ma soprattutto la strada irta di ostacoli, tutta in salita, verso una dolorosa liberazione conquistata con le proprie forze: «Non sapevo chi ero, che cosa volessi. Sapevo che il mercato illegale dell’eroina mi avrebbe stroncato se non avessi trovato un muro contro cui andare a sbattere».

Il “muro” era rappresentato appunto da San Patrignano, dove Paolo è rimasto tre anni e dove, «con le proprie forze», ha recuperato la certezza che il passato non gli appartiene più: «Oggi mi volto indietro spesso, ripenso al mio passato e mi scopro a sorriderci sopra. Mi dico: non sono io l’autore di quelle malefatte... Quello che faccio, quello che sono ora (il lavoro, lo studio, il volontariato, la musica, scrivere...) è talmente distante dalla mia realtà di allora da non riconoscermi più».

Non nega ciò che ha fatto e lo sottolinea coraggiosamente e con dignità al “Lavatoio” di Santarcangelo: «Dico solo che il carcere non serve a nulla. Mi fa sorridere chi afferma - come fa AN - di non volere l’indulto perché loro sono per il controllo sociale, perché i cittadini devono essere tutelati. Questo carcere non tutela nessuno. Evidente che sarebbero occorse strutture che - in caso di concessione di amnistia o indulto - facessero da valvola di sfogo, perché è purtroppo vero che gran parte di chi esce, se non ha alternative, strutture d’appoggio e protettive, molto facilmente torna a delinquere».

Concetto difficile da far capire a chi, anziché adoperarsi per liberarci della necessità del carcere, vorrebbe riempire il Paese di nuove strutture carcerarie, che anche questo pezzo di mondo ci appartiene, come parimenti ci appartengono bisogni che esigono risposte, impegni che non consentono dilazioni, necessità connesse a volte con i “delitti del bisogno”, morale o economico, causati dall’emarginazione, dalla miseria, dalla solitudine, dall’angoscia, dalla frustrazione di chi non trova un lavoro, un’identità, un posto nella società.

Una società più giusta, più solidale, «più presente in concreto nell’area del disagio, eviterebbe molti reati, ridurrebbe il numero dei soggetti a rischio, rifiutati da tutti, emarginati, destinati al delitto quale unica, disperata soluzione».

Il problema dei tossicodipendenti nel carcere è gravissimo e Paolo, che l’ha vissuto sulla propria pelle, sa che è di difficile soluzione. «Si dice che i tossicodipendenti non devono stare in carcere essendo persone ammalate, ma che i ragazzi rifiutano la comunità... La soluzione è rappresentata dalla legalizzazione: non dovendo più rubare per procurarsela, il ragazzo non andrà più in galera...».

Alle parole di Paolo Severi, che riprendono quanto accade in molti istituti, senza alcun preciso riferimento a quello riminese, inevitabile la domanda: chi porta la droga in carcere? Domanda che ha urtato la suscettibilità dell’agente di polizia penitenziaria Italo Piscitelli (consigliere comunale azzurro a Santarcangelo), autodefinitosi “semi-detenuto” in quanto «assistente capo di polizia penitenziaria», quindi in “carcerazione lavorativa”: «Le nuove disposizioni non permettono più di perquisire le persone come Dio comanda. Parenti e amici di tossicodipendenti ricorrono a qualsiasi mezzo per far entrare la droga in carcere. Non è quindi da addebitare al personale, ma bensì a quanti, al colloquio, la nascondono in quasiasi modo. Quando si faceva una perquisizione capillare [leggi corporale, n.d.r.] questo non succedeva: ora la nascondono nei capelli, sotto la lingua, scusate il termine, nell’ano, e poi la passano al colloquio. [Difficile capire come sia possibile il passaggio da questa parte “nascosta” del corpo umano, sotto gli occhi delle guardie..., n.d.r.]. Questo perché noi non abbiamo più la possibilità di perquisire le persone come Cristo comanda. Io rischio molto questa sera. Abbiamo una circolare del DAP Caselli che ci ha imbavagliato in quanto qualunque dichiarazione alla stampa o quant’altro deve essere prima filtrata dal Ministero della Giustizia. Spero, senatrice Scopelliti, che lei mi tuteli perché se perdo il posto di lavoro non mi resta che l’alternativa di fare il delinquente...».

La paura espressa il 27 luglio a Santarcangelo sembra, tuttavia, sia passata in fretta, se è vero, com’è vero, che il 17 agosto successivo abbiamo potuto leggere su Il Resto del Carlino, su cinque colonne: «Italo Piscitelli, assistente capo della polizia penitenziaria, racconta. Ecco come entra la droga in carcere», la reiterazione della difesa corporativa fatta al “Lavatoio”dove, tra l’altro, nessuno ha azzardato il benché minimo sospetto sul personale penitenziario. A meno che all’assistente capo Piscitelli la difesa corporativa non serva ad accelerare la nomina a segretario regionale del Sinappe... O più semplicemente non si sia trattato di una furbizia del cronista che doveva accuratamente evitare anche solo di nominare il dibattito al quale è intervenuta la Scopelliti, il nostro, ignorando anche cose più interessanti espresse da Piscitelli in quella serata: «Non sarebbe opportuno che lo Stato intervenisse prima verso chi necessita di aiuto concreto onde evitare la devianza? E perché non considerare la possibilità di “condanne alternative”, quali l’avvio a lavori socialmente utili, quando si tratti di condanne di lieve entità, evitando così a molti giovani di frequentare l’università del carcere, l’università del crimine?».

Piscitelli ha anche parlato di “regionalizzazione degli istituti penitenziari”, argomento che da solo meriterebbe l’organizzazione di un convegno ad hoc, oltre alla molteplicità dei ruoli (decisamente conflittuali tra loro) assegnati all’agente di polizia penitenziaria: agente, educatore, assistente sociale... «Come si può osservare e trattare una persona rinchiusa in carcere con i mezzi che non ci sono, in celle dove il sovraffollamento obbliga ad utilizzare le brande a castello e una turca per gabinetto... Io invito chiunque a venire a toccare con mano la realtà del carcere» della quale fanno anche parte le stanze degli agenti «tappezzate di donne nude, bottiglie dell’acqua tagliate e usate quali portacenere... Non è l’agente che educa il detenuto, è bensì il detenuto che devia l’agente...». Argomenti questi ben distanti dai pensieri del sorridente cronista del foglio locale che probabilmente non ha ascoltato la replica di Francesca Scopelliti: «Le fa molto onore quanto ha detto, soprattutto la difesa della sua categoria perché probabilmente lei vive la sua professione in questo modo. Detto questo e senza generalizzazioni che sono sempre sbagliate, le devo dire che in carcere si muore: si muore di droga, si muore di malattia, si muore di suicidio, in carcere si muore di suicidi travestiti perché a Parma, per es., è morto un detenuto paraplegico immobilizzato su una sedia a rotelle, il quale si è impiccato con un lenzuolo appeso alla grata della finestra a tre metri dal pavimento e ancora non mi hanno spiegato come ha potuto fare il paraplegico ad appendersi alla sbarra della finestra. Che succedano delle “cose strane” in carcere è inequivocabile, ma che non si debba generalizzare tutto e tutti, è altrettanto scontato. I fatti di Sassari sono fatti che in uno Stato di diritto non dovrebbero succedere, ma sono successi. Detto questo non è che con i fatti del San Sebastiano si dice che tutti gli agenti penitenziari sono mascalzoni violenti, ma è altrettanto sbagliato negare che tali fatti succedono. I fatti di Sassari succedono, le responsabilità sono soggettive e bisogna trovare i responsabili che li hanno commessi, non criminalizzare tutti. Quanto al controllo, ci deve essere il rispetto della dignità personale. Alla stragrande maggioranza di voi agenti va il nostro grazie; una minoranza purtroppo il proprio dovere non lo fa e a quelli va il nostro rimprovero».

Altro interrogativo interessante posto dalla Scopelliti concerne la breve durata di incarico ai Direttori del Dap: «Dopo Nicolò Amato, dal ‘92, il Dap non ha più avuto un Direttore che sia durato più di dodici mesi. Dal ‘92 ad oggi si sono susseguiti otto direttori penitenziari, tra l’altro figure non scelte per una competenza specifica ma perché era necessario sistemare ora Coiro, ora Margara che tra l’altro è stato uno dei migliori, ora Di Maggio, ora Caselli. Se noi ad un’azienda che spende tanti e tanti miliardi non diamo una direzione, una responsabilità competente e duratura nel tempo, non avremo mai la soluzione dei problemi penitenziari».

PIER PAOLO PICCININI:

«In questa serata si sono sentite ‘voci di verità’»

All’Avvocato Pier Paolo Piccinini concludere il dibattito: «Non posso che esprimere apprezzamento per l’organizzazione di questa serata in cui si sono sentite “voci di verità”, che mancano all’interno dell’organizzazione della giustizia italiana: cose vere su ciò che accade, come e perché succede. Questa sera è stata sollevata una serie di problemi ai quali non è possibile rispondere: si può cercare di trovare una via d’uscita che io non vorrei discutere da solo, bensì proporre alla sala. Se quanto dirò non verrà giudicato “voce di verità”, vorrei essere subito contraddetto».

Già il tema stesso - Ingiustizia nella giustizia italiana - per Piccinini è una “voce di verità”, essendo la giustizia italiana fallimentare all’80 per cento. «Non lo è soltanto per il fatto che può colpire l’innocente, o può far pagare prezzi spropositati a chi viene colpito per esempio da carcerazione preventiva (cautelare) che distrugge prima ancora che intervenga una sentenza penale di condanna... Di “casi Giannoni” noi avvocati, purtroppo, ne vediamo tantissimi. Sopratutto negli ultimi dieci anni, a cominciare dall’era di “Mani pulite”, allorché il potere dei p.m. è cresciuto a dismisura (“giustizia penale rampante”)...Parimenti “rampante” anche la malavita a cominciare dalla compattazione di quella italiana con l’albanese. Il controllo del territorio, però, non è andato di pari passo. Il bubbone della corruzione, a sua volta, non solo non è stato debellato, ma è diventato più grave, più costoso e, forse, anche meno perseguito».

Anche se Piccinini non lo dice, oggi potrebbe aver ragione chi sostiene l’aggiunta dell’indennità di rischio.

«Da un punto di vista sociale l’amministrazione della giustizia ha fatto pagare dei costi pesantissimi travolgendo e distruggendo persone molte volte innocenti, senza tuttavia risolvere i problemi fondamentali che doveva risolvere: controllo del territorio, lotta alla criminalità, lotta alla corruzione, sia politica che di collusione fra poteri imprenditoriali e poteri politici. La signora Venturini sa quanto è accaduto a Rimini negli ultimi 25 anni. Per esempio c’è stato un fallimento totale della politica della casa. Nel costo del costruttore vanno ripartiti: prezzo di acquisto, tangenti pagate, problemi di gestione del territorio, piani regolatori che molto spesso, come dice la Venturini, diventano “piani regalatori”... Questi problemi non sono stati risolti ma, semmai, sono stati aggravati».

Ascoltando Piccinini ci sovviene il ricordo della sentenza della fine degli anni ‘70 dell’allora pretore Miriello, inviso ai pubblici amministratori dell’epoca (alcuni tuttora sulla cresta dell’onda) perché sull’occupazione degli stabili di Via Acquario non aveva lesinato severe critiche ai protagonisti della politica urbanistica riminese. Politica urbanistica che per decenni ha tenuto banco in tutti i commenti sussurrati a bassa voce da chi non si è mai intruppato, senza che chi aveva il potere di farlo si fosse mai adoperato per chiarire se c’erano o meno collusioni tra pubblici amministratori (politici) e determinati imprenditori che nella città dei Malatesta hanno sempre fatto il buono e cattivo tempo, lasciando intatti sospetti, tramandati da una generazione all’altra, che hanno deteriorato gli stessi rapporti umani, oltre che politici. Per questo il termine “riminizzare” ha assunto un significato quasi sconcio. Caselli dice che solo i poveracci vanno in galera. Nel riminese si dice che volano solo gli stracci, qualcuno direbbe “palazzola”, termine noto ai pescatori. Neppure la Madonna pellegrina dell’Ulivo, il fu p.m. Di Pietro, quando ne ebbe l’opportunità, volle addentrarsi nei meandri degli intrallazzi riminesi. Poiché la speranza è l’ultima a morire ci si aspetta che, qualora gli organi competenti decidessero di far luce sul fallimento Bellucci, si squarciasse definitivamente anche la coltre di sospetti che ammorba Rimini da alcuni decenni.

Tornando a Piccinini che, guarda caso, è anche il legale di Bellucci...

Sorvolando sulla giustizia civile, pure fallimentare, Piccinini si sofferma sul processo penale che dovrebbe servire unicamente ad accertare la verità: «I problemi di carattere sociale, della corruzione, della criminalità sono problemi di ordine pubblico che non hanno niente a che vedere con la gestione del processo penale. Purtroppo abbiamo assistito ad un’enorme confusione perché, le Procure, facendosi carico anche di carenze delle forze politiche, hanno assunto uno strapotere che alla fine non sono riuscite a gestire...».

La sen. Scopelliti aveva accennato alla discrezionalità: «ancor più grave che il principio della discrezionalità venga applicato anche in fase di indagine». Anche questo contribuisce a mettere in dubbio la certezza dell’azione penale.

Tutti concordano sulla diagnosi: la giustizia italiana è malata. Strapotere dei p.m., forza dei “pentiti”, poche facoltà al difensore nella fase delle indagini preliminari, hanno portato alla degenerazione sotto gli occhi di tutti. Quale terapia prescrivere? Un primo tentativo è stato fatto con l’introduzione del “giusto processo”, che però comporta anche l’allungamento dei tempi. Per Piccinini occorre snellire il sistema dando chiarezza ai ruoli di ogni soggetto, facendo sì che ognuno svolga eslusivamente la sua funzione all’interno di questo meccanismo processuale, riducendo possibilmente i tempi sia di quello penale che di quello civile. «Il meccanismo non può essere innovato da leggine che intervengono sulle leggi precedenti. Occorre un impianto nuovo che porti alla rapidità e semplificazione del processo».

Vero che il problema sostanziale consiste nella divisione delle carriere, ma è anche vero - ha replicato la Scopelliti - «che noi abbiamo perso la grande occasione rappresentata dai referendum. Quelli sulla giustizia non avrebbero risolto i problemi nel senso auspicato questa sera, però avrebbero potuto dare un segnale ben preciso di malessere, di denuncia collettiva. E’ evidente la confusione che c’è in molte Procure tra lo Stato etico e lo Stato di diritto». «Questo è anche l’errore in cui, oltre alle Procure, cade anche l’opinione pubblica quando crede che il carcere provveda a ristabilire lo Stato etico, anche a costo di calpestare lo Stato di diritto».

“ROBERTO CAMPISI, cittadino italiano”

Roberto Campisi, avvocato forlivese, ama definirsi “cittadino italiano”: «Il paesano per eccellenza è Giancarlo Caselli, uomo che ha un senso dell’opportunità straordinaria... Questo signore non è giornalista ma detta articoli anche al CorSera...». Signorilmente brillante com’è nel suo stile, lui che non ha partecipato “all’orgoglio gay” non lesina complimenti a Francesca Scopelliti, come non ha lesinato complimenti ai relatori: a Paolo Severi, «che è stato se stesso in tutto, con un’asciuttezza che ci purifica da tutta la retorica oscena che ci ammorba da anni in questo miserabile regime in cui siamo condannati a vivere. Lui sulla sua pelle ha vissuto un’esperienza, non ha cercato pietismo, consolazione, solidarietà. Si è misurato con se stesso, con la sua coscienza. Poi quella bella voce toscana di un livornese che invece parla di un dramma, esperienza dolorosissima di trauma infinito, l’esperienza drammatica dell’innocenza che meriterebbe un commento dostoievskiano... Lei ha conquistato quella libertà spirituale che è l’unica libertà vera. Lei ha rievocato inconsapevolmente le pagine più belle dell’ordinamento giuridico...».

LA NOSTRA NON-CONCLUSIONE

La situazione è talmente grave da farci affermare, a conclusione del dibattito di Santarcangelo, con le parole del sempre cauto organo del Vaticano, l’Osservatore Romano: «Quando saranno risolti i problemi più gravi ed urgenti che inceppano o addirittura bloccano il meccanismo della giustizia in Italia, solo allora si potrà dire che il Paese avrà compiuto un vero e decisivo passo in avanti sulla strada del progresso e della civiltà. O, più esattamente, si potrà dire che la società italiana sarà ridiventata degna della sua grande tradizione umanistica e giuridica, fondata sull’esperienza millenaria del diritto romano e sui valori non meno considerati dell’etica cristiana. Fino a quel momento, con la giustizia malata che per riconoscimento unanime ci ritroviamo in campo giuridico e giudiziario, si correrà il rischio di continuare a registrare ogni giorno i ritardi e le disfunzioni, gli errori e i fallimenti, i paradossi e le aberrazioni, che tutti conosciamo. Gli esempi non mancano e la documentazione neppure».

Mirella Canini Venturini