QUANDO LE CAMPANE DELLA GIUSTIZIA SUONANO A MORTO...

“Quando le campane della giustizia

suonano a morto,

non chiederti per chi suonano:

esse suonano sempre anche per te”.

Nel nostro Paese si sono ormai formate correnti di giudizio diverse sul carattere democratico dello Stato. S’ingrossa ogni giorno il numero dei cittadini che si chiedono, dopo quanto s’apprende ogni giorno, se esso garantisca ancora le libertà fondamentali dell’uomo. Fa piacere se ne sia accorto anche Veltroni, ma la preoccupazione non può riferirsi solo alla pessima, ridicola figura, politica e umana, fatta dal sindaco romano Rutelli in ordine all’«orgoglio dei gay», in aggiunta alla gaffe del Presidente Amato...

La stessa sentenza dei Tribunali, a giudicare da vicende giudiziarie quale quella occorsa ad Adriano Sofri (per citarne uno solo), non garantisce più nessuno.

Ancora nei giorni scorsi s’è fatto un gran parlare di separazione delle funzioni e delle carriere, molto meno di riforma dell’istituto della custodia cautelare.

Moti di rivolta di non colpevoli, lacrime di vedove e figli, veleni, ricatti e pentiti, hanno finito per ridurre lo Stato di diritto ad un cumulo di macerie, dal quale non può nascere che divisione sociale. Al punto da far affermare al sempre cauto Osservatore Romano (organo del Vaticano): «Quando saranno risolti i problemi più gravi ed urgenti che inceppano o addirittura bloccano il meccanismo della giustizia in Italia, solo allora si potrà dire che il Paese avrà compiuto un vero e decisivo passo in avanti sulla strada del progresso e della civiltà. O, più esattamente, si potrà dire che la società italiana sarà ridiventata degna della sua grande tradizione umanistica e giuridica, fondata sull’esperienza millenaria del diritto romano e sui valori non meno considerati dell’etica cristiana. Fino a quel momento, con la giustizia malata che per riconoscimento unanime ci ritroviamo in campo giuridico e giudiziario, si correrà il rischio di continuare a registrare ogni giorno i ritardi e le disfunzioni, gli errori e i fallimenti, i paradossi e le aberrazioni, che tutti conosciamo. Gli esempi non mancano e la documentazione neppure».

Gli esempi e la documentazione non mancano, ma fanno scalpore solo quando ad esserne investiti sono personaggi più o meno noti, più o meno pubblici. Quando si tratta di un qualche “Signor Nessuno” - come scrive l’avvocato Marconi - cade una sorta di “silenzio stampa”. Un po’ com’è accaduto a Roberto Giannoni, “ospite” per 12 mesi in una “suite” dello Stato a mezza pensione, l’Hotel Sollicciano, come lui definisce con sottile ironìa il carcere fiorentino, nel quale è stato ristretto ingiustamente un anno intero.

Chi tra noi è più attento alle problematiche della giustizia/ingiustizia ne è venuto a conoscenza dal “Maurizio Costanzo Show” e dai “Fatti Vostri”, ovviamente a conclusione della brutta vicenda perché, oltre tutto, nel nostro Paese la stampa ha il malvezzo di “sbattere il mostro in prima pagina” al momento dell’arresto, per poi ignorare il successivo percorso, quando questo si concluda con l’assoluzione. Per i mass-media solo l’arresto fa notizia (perché “fa cassetta”). Poco importa quanto ne sia uscito provato, forse per sempre, il protagonista suo malgrado, insieme alla sua famiglia, spesso distrutta dalle dolorose circostanze.

Scriverne, come ha fatto Roberto Giannoni, può essere liberatorio, anche se, come sostiene il suo avvocato, Giovanni Marconi, nella prefazione a Hotel Sollicciano. 12 mesi in una Suite dello Stato a Mezza Pensione (Edizioni Falossi, Venturina, maggio 2000), «La perdita dei genitori, morti per l’angoscia patita dalla carcerazione di Lui, unico figlio, non daranno mai a questa storia il sapore del lieto fine».

La vicenda ha avuto un avvio decisamente kafkiano; l’immediato seguito non sarà migliore: «Alle 4,15 del 10 giugno ‘92 suonano alla porta ben 12 poliziotti... Mi dicono che debbono perquisire la casa... l’avvocato mi dice che quelli sono lì per arrestarmi. Rimango senza fiato... associazioni mafiose... usura... estorsioni... armi... stupefacenti. Io neanche capisco cosa significhino quelle parole, nel frattempo inizia la perquisizione... Sgomento sia in me che nei miei genitori, preparo quelle poche cose, su loro suggerimento ed in manette abbandono la mia casa lasciando i miei genitori atterriti in mezzo al corridoio. Questa immagine non si cancellerà più dalla mia memoria e da quel momento nella mia famiglia non ci sarà più tranquillità».

Così comincia la fine «di una vita fatta solo di lavoro onesto e serio... Dentro di me scoppio dalla disperazione».

Sottoposto al regime del 41 bis, il carcere duro riservato ai mafiosi, Giannoni, stimato funzionario di banca, due giorni dopo l’arresto verrà licenziato dalla Cassa dei Risparmi di Livorno, essendo state avanzate, sul suo conto, da alcuni “collaboratori di giustizia”, accuse e dichiarazioni infamanti, tali che il padre morirà il giorno successivo al decreto di rinvio a giudizio.

In sintesi: «La mia implicazione è dovuta al fatto che una signora di Piombino, nota a tutti per la sua stravaganza e moralità, mi accredita e mi dipinge come elemento di spicco facente parte di una associazione a delinquere di stampo mafioso (i giornali all’epoca la definirono “I pirati della costa”) presieduta da un noto personaggio della zona ed altri individui che io neppure avevo mai visto».

All’interno di questa combriccola secondo l’accusa Giannoni «avrebbe favorito la consumazione di reati di usura ed anche di estorsioni. Addirittura, secondo le dichiarazioni di questa “signora” nella cassaforte della mia banca avrei custodito ingenti quantitativi di cocaina. Mi accusa di aver concorso a traffico internazionale di armi provenienti dalla Palestina, nonché di avermi indotto ad una breve, brevissima, occasionale relazione». Giannoni l’aveva conosciuta per averle erogato, a nome del marito, un piccolo prestito, successivamente onorato, e avere aperto a suo nome un conto corrente. Niente più che normali operazioni bancarie...

Alla “signora” non doveva difettare la fantasia se è vero che nelle sue dichiarazioni «asseriva di conoscere fatti e circostanze inerenti addirittura la persona di Craxi... Riferirà di colloqui telefonici visti e sentiti a Sassetta. Poi risulterà che per i telefoni cellulari in quel di Sassetta non vi era ricezione».

L’altro pesante accusatore era un bancario di Lucca: «Costui era stato arrestato ben prima di me allorquando gli inquirenti tramite intercettazioni telefoniche avevano appurato che costui aveva favorito la consumazione di due rapine in Istituti di Credito della Lucchesia ov’egli operava».

Fortunatamente in seguito il collega “pentito” si pentirà di averlo accusato ingiustamente: «Riferendo al Tribunale che tali accuse gli erano state sollecitate dal P.M. altrimenti non avrebbe ottenuto la libertà. Confessò l’inconfessabile. Disse, infatti, che con me aveva avuto un corretto rapporto da bancario a bancario. Che il prestito che gli avevo erogato era servito per far operare un transessuale del quale si era invaghito. Non di meno, confermò tutte le accuse nei confronti di quegli imputati con i quali aveva concorso nella consumazione delle rapine».

Il “Processo di mafia a Livorno”, come riportarono tutti i giornali, iniziato il 27 marzo ‘95, si protrarrà per 144 udienze. Giannoni verrà interrogato nel luglio ‘98 per 5-6 ore al giorno per tre giorni. Ottobre ‘98 «il P.M. dopo una requisitoria, durata oltre due giorni, spiega che il dibattimento non ha dimostrato nessuna associazione a delinquere di stampo mafioso né associazione a delinquere normale; richiede molte condanne ma pochissime assoluzioni, tra le quali la mia».

La mattina del 15 dicembre ‘98 il Tribunale lo assolve con formula piena: «Solo da ultimo viene letto il dispositivo che mi riguarda con tutti i cinquanta capi d’imputazione: assolto dal primo, assolto dal secondo... assolto da tutto... Il mio pensiero corre alla memoria di mio padre ed a mia madre che in quel momento è ricoverata in Ospedale colpita da un tumore; morirà il 16 febbraio esattamente due mesi dopo la sentenza, vissuta appena in tempo per vedere la fine di questa incredibile storia».

A chi, uscito dal carcere, gli chiedeva come aveva fatto a superare quell’anno di carcere, replicava: «Con la forza dell’innocenza!».

L’euforia della scarcerazione è di breve durata. Restano i ricordi: «vedere le manette ai miei polsi e rendermi conto di essere impotente di fronte a quello che mi sta succedendo. Essere chiuso per la prima volta in cella resterà inciso nella mia mente in modo indelebile. Una ferita che si è rimarginata, della quale è rimasta la cicatrice... Quando al mattino esci di casa devi evitare di passare per le strade di centro, per le vie più affollate, cercando di incontrare meno persone possibile. Ti senti un oggetto misterioso, motivo di curiosità; ti sembra che tutti ti guardino, camminando a testa china eviti anche gli sguardi di chi non ti conosce, è un auto-escludersi dalla vita quotidiana, un rigetto istintivo verso un mondo dal quale ti senti abbandonato ed una società nella quale non hai più fiducia... Questo Stato ti controlla, ti indaga, ti arresta anche se sei innocente e dopo essere stato assolto non una parola, non una lettera, nemmeno arrivederci e grazie. Ti “strappano” dalla famiglia, dal lavoro, dalla vita e nessuna istituzione dopo si preoccupa del tuo stato di salute, di ridarti un lavoro, di reinserirti nella vita sociale...».

Era arrivato ad occupare il posto di titolare di una filiale della Cassa dei Risparmi di Livorno, coronando il sogno della sua vita. Ventinove anni, tre mesi e dieci giorni di lavoro, riconosciuto “quantitativamente superiore alla media”. A distanza di cento giorni dall’ultima “lode” ricevuta dal suo direttore generale, l’arresto e, conseguentemente, il licenziamento. Ha dovuto vendere la casa acquistata con i risparmi suoi e dei genitori; ha perso il padre un mese prima del processo, morto di crepacuore; ha perso la madre due mesi dopo la fine del processo, sfinita dalla pena e da un tumore di origine sconosciuta. Ha subìto terribili umiliazioni. Nonostante le cicatrici, non porta odio né rancore. Tuttavia: «É giusto - scrive - ascoltare i collaboratori di giustizia... Ma prima di prendere una decisione che può rovinare per sempre la vita di una famiglia, quando in ballo c’è la libertà di un uomo è opportuno agire con più responsabilità facendo tutti i riscontri necessari, andare alla ricerca di una vera certezza. Anche gli indagati hanno diritto di essere ascoltati e creduti. Viviamo in una realtà dove il dubbio è diventato l’anticamera della colpevolezza».

Roberto Giannoni conclude la narrazione della sua storia con un auspicio: «... che possa aiutare chi avrà la fortuna di ignorare nella sua vita la realtà del carcere a capire la fame di solidarietà, di comprensione, di riscatto e di amicizia di persone come me». Sentimenti che già aveva suscitato intervenendo alle trasmissioni televisive richiamate, rinsaldati dalla lettura del libro. Ma l’attenta lettura vuole anche essere - a nostro avviso - un ammonimento per gli ancora troppi disattenti. Come direbbe il caro amico Agostino Viviani, che di giustizia se n’intende:

“Quando le campane della giustizia

suonano a morto,

non chiederti per chi suonano:

esse suonano sempre anche per te”.

Mirella Venturini

[Paginecontro, n. 10/2000]