IN RELAZIONE AL CASO A. GEOFFROY

      Gent.mo Direttore

A qualche giorno di distanza vorrei spendere qualche parola per ‘l’assassino’ da prima pagina perché forse nei suoi gesti c’è qualcosa di tutti noi o forse manca qualcosa da parte di  tutti noi.

La psichiatria è un modo complesso che non capisco se non in modo parziale. Anche se sono un medico non posso sicuramente sentenziare o esprimere pareri precisi.

E’ possibile che ci sia stato un errore di diagnosi e sicuramente di gestione. Probabilmente c’è stato un errore di terapia ed alcuni dei farmaci, presi in modo non corretto potrebbero avere accentuato sintomi e offuscato la capacità di giudizio, oltre che aver determinato un aumento di aggressività. Forse il trattamento doveva essere fatto in un posto lontano dalla sede in cui aveva lavorato. C’è stato sicuramente un grave errore di valutazione e la morte - inutile - di un medico, forse avrebbe potuto essere evitata.

Che la persona fosse una vittima di una serie di ingiustizie o anche solo di disinteresse da parte dell’autorità, è quasi sicuro. Che mancasse una comprensione analitica, ben determinata del problema e della persona è anche sicuro.

Quando la società perde una persona con queste caratteristiche e trasforma un individuo dotato di intelligenza, cultura, educazione e di grandi potenzialità umane e professionali per la comunità in un potenziale assassino c’è da chiedersi a chi vadano attribuite le responsabilità.

Tutti sono colpevoli, o meglio, siamo colpevoli, di non aver afferrato un disagio rilevante prima che questo diventasse pericoloso e distruttivo. Quante vittime ci sono in questa situazione? Quante vittime ci devono essere perchè l’attenzione di un sistema si accenda per un momento e focalizzi in modo parziale e temporaneo il problema? La malattia o il disagio, vissuti come un problema personale, non sono più accettabili come concetto. Le malattie coinvolgono tutti quelli che sono intorno ad un ‘malato’, perchè tutti ne paghiamo moralmente, affettivamente o finanziariamente le conseguenze, comunità, familiari, amici, colleghi. L’abbandono di un malato ai suoi problemi ed ad un suo mondo infernale e distorto, fatto di nemici e non-amici, dovrebbe essere, ed in effetti è, come si è visto, un errore mortale. Il disinteresse trasformato in terapia fatta di pillole e non di consolazione o comprensione possono accentuare l’isolamento, parte del disagio e quindi acuire la malattia.

In medicina si fanno tanti errori, in continuazione e chi più ne fa, spesso, più si impegna. L’errore maggiore, forse, è quello di delegare la soluzione esclusivamente ad una terapia - fatta di pillole - non associata all’incoraggiamento ed alla verifica che questa venga seguita nel modo migliore. Se chi segue un soggetto con un disagio - vorrei evitare la parola malattia - non vede dove e come vive il suo paziente e non si rende conto del suo ambiente, probabilmente non riesce a carpire tutte le sfaccettature di una mente incompresa ed in difficoltà. Una casa è come l’anima di una persona. Vederla è come entrare in un mondo distorto, il disordine forse è simmetrico a quello che esiste nel soggetto in valutazione. Il suo ambiente segreto ne rivela il disagio.

Senza aver la pretesa di dare un giudizio, io accuso questo sistema e le sue distorsioni legate agli uomini e anche a tanti ‘non-uomini’ (quelli che rifiutano la responsabilità diretta e che delegano e giustificano tutto con le procedure) che lo compongono. Quanti terapisti sono andati a casa di Arturo o hanno cercato di penetrare il suo mondo? Quanti ora alzano la mano e dicono forse abbiamo sbagliato? Quanti lo hanno veramente ascoltato?

E quanti burocrati, nascosti dietro le loro scrivanie sanno che avrebbero dovuto o potuto fare qualcosa in più?

Focalizzare tutte le responsabilità su un solo colpevole, in questo caso, è un modo banale e riduttivo di archiviare il problema. E la morte di un medico non è un  reale infortunio sul lavoro, simile a quello capitato in passato ad Arturo e mai riconosciuto?

In un mondo in cui anche gli ‘assassini’ (ammesso che lo siano), diventano oggetto di consumo, dovremmo fare in modo che l’episodio stimoli non solo l’attenzione ma anche la riflessione e la critica di un sistema più malato e schizofrenico delle persone che dovrebbe curare.



Gianni Belcaro, Medico

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