IL PERCORSO DI LIBERAZIONE

DI PAOLO SEVERI

Il titolo del volume di Paolo Severi (Casa Ed. Frontiera, Milano, 2000) è 231 GIORNI. Un diario dal carcere. Un percorso di liberazione, presentazione di Dario Fo, interventi di Ser­gio Cusani, Adriana Zarri, Saverio Tutino. A me piace fissare l'attenzione soprattutto sul "percorso di liberazione" di Paolo Severi, perché nel "percorso", lucidamente fotografato dall'autore, ritroviamo si l'inferno carcerario dal quale è "uscito" dopo 231 giorni, ma so­prattutto la strada irta di ostacoli, tutta in salita, verso una dolorosa liberazione conquista­ta con le proprie forze:« Non sapevo chi ero, che cosa volessi. Sapevo che il mercato illega­le dell'eroina mi avrebbe stroncato se non avessi trovato un muro contro cui andare a sbattere».

Il muro «si chiama San Patrignano, dove l'autore resta tre anni e dove, con le proprie forze, recupera la certezza che il passato non gli appartiene più: consegue la maturità, si iscrive a Scienze Politiche. Ma un amore per una donna sposata lo mette in condizione di essere ricondotto in carcere: un'ultima dura prova, che segna, però, un percorso di liberazione»:

«Questo che segue è il diario dei miei mesi di detenzione (nel 1996) dopo la permanenza a San Patrignano. Una paradossale liberazione. Oggi mi volto indietro spesso, ripenso al mio passato e mi scopro a sorriderci sopra. Mi dico: non sono io l'autore di quelle male fatte. Qualcuno sostiene che è schizofrenia. Io credo che sia solo questione di non appartenen­za. Quello che faccio, quello che sono ora (il lavoro, lo studio, il volontariato, la musica, scrivere) è talmente distante dalla mia realtà di allora da non riconoscermi più».

Severi non nega ciò che ha fatto: «Dico solo che il carcere non serve a nulla».

Tutt'altro che superata la concezione del carcere quale "istituzione chiusa". Anche quando sia architettonicamente collocato al centro di una città, resta un "buco nero", lontano e sconosciuto. Difficile far capire a chi anziché adoperarsi per liberarci della necessità del carcere vorrebbe riempire il Paese di strutture carcerarie, che anche questo pezzo di mon­do ci appartiene, come parimenti ci appartengono bisogni che esigono risposte, impegni che non consentono dilazioni: necessità connesse a volte con i "delitti del bisogno", mora­le o economico, causati dall'emarginazione, dalla miseria, dalla solitudine, dall'angoscia, dalla frustrazione di chi non trova un lavoro, una identità, un posto nella società.

Nei discorsi della gente, come nelle aule istituzionali, si sente costantemente inneggiare al "castigo". Non mi sento più generosa di altri, solo che ritengo che la società abbia il diritto morale, la legittimazione di reprimere soltanto se, e nella misura in cui, prima dei delitti si sia seriamente impegnata per rimuoverne le cause ed evitarne, quindi, la commissione, offrendo ai potenziali trasgressori la possibilità di una scelta diversa da quella criminale. Possiamo in coscienza sostenere di averlo fatto? La mia modesta esperienza istituzionale mi suggerisce una risposta assolutamente negativa, come non è positivo il giudizio sulla decantata funzione di "recupero" del carcere, luogo in cui non si ricuciono i rapporti spez­zati tra individui e società, in cui non è facile recuperare gradualmente la speranza e il senso della responsabilità e che, oltre tutto, checché ne dicano i vari Gasparri di turno, non ottempera neppure alle invocate esigenze di difesa sociale, poiché, alimentando il carcere, si alimenta la criminalità e si determina una spirale infinita di violenza e di emarginazione. Come scriveva Giancarlo Zappa (Caritas Brescia) «Una società più giusta, più solidale, più presente in concreto nell'area del disagio eviterebbe molti reati, ridurrebbe il numero dei soggetti a rischio, rifiutati da tutti, emarginati, destinati al delitto quale unica, disperata soluzione».

«C'è una differenza abissale - scrive Severi - fra il mafloso, fra il tra ificante internazionale di droga e il ragazzino arrestato con dieci grammi di hashish. Eppure condividono la stessa cella. Così, se il ragazzino vuoi passare armi e bagagli nella 'malavita seria; se vuoi fare cardera, lo si aiuta, lo si introduce, lo si arruola». In carcere avvengono atrocità e violenze di ogni tipo, soprattutto tra i detenuti extracomunitari: «Nessuno riuscirà a fermare la spi­

rale di violenza che si diparte dal carcere, da tutte le carced... se mostrassi debolezza attraverso la compassione o la manifestazione della mia sensibilità ne subirei anch 'io le conseguenze. Mai lasciarsi andare è la regola. Ritroverò, da qualche parte, fuori di qui uno spazio per la pietà, uno spazio per la dignità»

Mi è capitato di leggere la comunicazione - che ho conservato - "La coscienza cristiana di fronte alla realtà del carcere", tenuta da Monsignor Giorgio Caniato nel corso di un conve­gno romano "Colpa e pena - La teologia di fronte alla questione criminale": «Teoricamente il carcere in se stesso è una struttura di detenzione imposta, quindi una struttura repressiva, violenta: toglie o limita moltissimo proprio come suo elemento essenziale, la libertà fisica ed a volte psichica dell'uomo. E uno strumento contro la libertà dell'uomo, attuato in modo repressivo quindi di sua natura violento. É quindi uno strumento in se stesso antiumano». La valutazione di Monsignor Caniato non voleva avere altro scopo «che di far prendere coscienza di che cosa sia il carcere in se stesso, per non pretendere da esso quello che non può dare. Se poi si conoscesse cos e il carcere in concreto, tutto quanto ho detto in linea teorica si realizza pienamente. Anzi, la realtà è peggiore perché è attuata da uomini imperfetti, che possono abbrutire di più uno strumento già cattivo in se stesso».

La lettura del libro di Paolo Severi mi ha riportato a rileggere gli atti dì quel convegno, ma anche a riflettere su una problematica che mi appassiona da parecchi lustri, pur sapendo che riflessioni ad "alta voce" di questo tipo rendono solo impopolari. Elettoralmente, ad esempio, possono solo far perdere voti, cosi come sostenere i diritti degli immigrati o degli emarginati in genere. Penalizzazione che ho sempre messo disinvoltamente in conto, sen­za pentirmene. D'altronde, anche quando si sia eletti in un qualche comune senza avere alcuna possibilità concreta di fare alcunché di buono per gli altri, poiché se non sei alline­ato con un qualche potere forte non conti niente, dice ben poco. Col tempo ci si abitua anche ad essere considerati un noioso e petulante foruncolo sul deretano del potere. A volte ci si diverte anche. Personalmente, nonostante le inevitabili delusioni, ho rafforzato la convinzione che umanizzare la pena significhi anche «renderla produttiva di risultati positivi» per il detenuto e per la società. Per questo la nostra Costituzione afferma che la pena, oltre che rispettare la dignità umana del condannato, deve anche "tendere" alla risocializzazione, nel senso che ove il condannato lo chieda, dobbiamo offrirgli possibilità, aiuti utili a riammetterlo nella comunità senza che sia indotto a commettere altri reati. In tempi in cui si tende a smantellare tutto (valori, ideologie e quant'altro), parlare di Costitu­zione attira solo risolini annoiati. Collegarla alle problematiche carcerarie, poi, ti fa scam­biare per pazza...

Chi si preoccupa di chiedere al detenuto che esce dal carcere dove andrà a vivere, con chi andrà ad abitare, quali possibilità concrete di lavoro avrà? La risposta, nella maggioranza dei casi, è negativa. Non occorre molta immaginazione per prevedere come finirà chi non troverà un lavoro, affetti solidi e un'accoglienza seria ed impegnata, a meno che non soste­nuto da una forte personalità alla Severi.

In occasione del Giubileo la Caritas Italiana «ha posto all'attenzione della sua riflessione -accanto alle tematiche della remissione del debito estero, della disoccupazione giovanile nel Meridione d'Italia, della lotta alla tratta di donne e minori a scopo di abuso sessuale -anche la problematica legata all'umanizzazione della reclusione per assicurare dignità alla pena da scontare».

L'interesse "cristiano", tuttavia, sembra tutt'altro che generalizzato. D'altronde la sinistra, il volontariato laico, proprio non esistono. E intanto in carcere, come scrive Paolo Severi, si incontrano «reclusi/internati che ciondolano senza meta, fantasmi di uomini che aspet­tano una chiamata, che amplificano e distorcono ogni piccolo evento... Non c'è nulla di umano in queste facce che girano intorno inebetite per le condizioni paurose in cui vivo­no... La ferrea legge del bastone per i nuovi arrivati... Educarli subito è la parola d'ordine. I metodi sono spicci devono capire ed entrare al più presto nel ruolo di animali e non di uomini. State buoni. Se non state buoni son dolori».

L'umanizzazione del carcere, sulla quale ha insistito inutilmente per anni Nicolò Amato, un'utopia: «Se il carcere fosse "umano" - scrive Severi - paradossalmente non risponde­rebbe alle esigenze di una società che non vuole recuperare nessuno».

Da alcuni anni sono state attribuite alla Polizia Penitenziaria (gli ' agenti di custodia ' oggi si chiamano ' agenti di polizia penitenziaria ') competenze educative. Difficile coniugare finali­tà di polizia con finalità educative, sino a dare - come scriveva Gian Luigi Ugolini (Assisten­te Sociale Coordinatore presso il Centro di Servizio Sociale per Adulti di Firenze) «un con­tenuto alla condanna che vada oltre la punizione e/o la riparazione, e crei i presupposti per un recupero del reo alla società, in maniera tale da non costituire più un problema di mera difesa sociale».

La parola d'ordine, in carcere, come ricorda l'autore, «è subire, ma sinceramente provo un po' di pena per chi si nasconde dietro una divisa e approfitta del suo ruolo per sfogarsi. Sono come mi volete voi. Sono bravo e remissivo. Sono buono e caro e dico sempre di sì». Paolo Severi ricorda le "geniali elucubrazioni" della burocrazia carceraria. Sembrano pic­cole cose (per chi sta fuori), ma per chi è ristretto in un istituto di pena, non lo sono affatto:

«Ho scritto una domandina usando la penna verde. C'erano cose importantissime sopra. C'erano scritte cose che credevo (credevo!) significassero la vita per me... E venuta la divisa e mi ha detto che le domandine non si scrivono con la penna verde, che la dovevo rifare. Nel frattempo le cose importantissime, le cose vitali, sarebbero dovute diventare meno importanti. Per forza... In un mondo basato sulla velocità e sulla fretta, sulla veloce comunicazione dei sentimenti e delle volontà, riportare così indietro l'orologio della storia, infliggere questa doppia pena burocratica a dei reclusi è la tortura più raffinata che ci possa essere. Quali geniali elucubrazioni di burocrate sono potute giungere a elaborare un sistema così complesso e assurdo?... La domandina è un mito. La domandina è un feticcio. La domandina e un’ombra, un simulacro...».

Lo stile di Severi - come scrive nella "presentazione" Dario Fo - è secco, brutale e tagliente, ma efficace: «Il carcere insegna a ridare importanza al tempo. Tempo quintuplicato. Un urlo è la vita. Una lettera è la vita. Una chiamata è la vita...». Efficace, come il dialogo sull'antiproibizionismo: «Lo stesso tossicomane se non ci fosse l'illegalità perderebbe al­meno l'ottanta per cento dello sballo... il gusto del proibito, eccetera... Poi arresteranno te e usciranno gli altri che riprenderanno in mano la situazione. Si chiama turn-over. Perfettamente sincronizzato. L'importante è che ci sia sempre una banda di spacciatori che riforni­sce una zona. Una banda fuori che rifornisce la zona, una banda dentro per l'opinione pubblica. Si danno il cambio e lo show continua... Ho fatto l'abitudine a vedere morire gente giovane, autodistruggersi lentamente prima di darsi il colpo finale. Sulla nostra man­canza di coraggio il potere della mafia e il potere politico hanno costruito un impero. Per questo bisogna legalizzare... L’eroina e una bomba atomica, è come l'acqua di un fiume in piena, finché le cose vanno così ce ne sarà sempre bisogno e loro ci camperanno all'infini­to. Sanno di avere in mano una merce che si venderà sempre e che avrà sempre più clienti. Solo legalizzando si chiude questo circolo vizioso».

L'autore è rimasto in carcere "231 giorni", più che sufficienti a «vedere gli uomini ridursi come animali... Non c'è posto per il debole in carcere. L'anello debole perisce, viene fagocitato o asservito. Oltre alla violenza istituzionale, al manganello in divisa, c'è una violenza più atroce, che è quella che i disperati esercitano su se stessi e contro i compagni di sventura. La prevaricazione della piazza riportata dentro e non capiscono di essere vitti­me».

Ogni sezione è un ghetto. Ogni cella un ghetto: ghetto per albanesi, ghetto per maghrebini, «poi i muri dentro il cervello di ciascuno, ghetti dentro e ciascuno di noi: più disprezzi gli altri, più disprezzi te stesso», mentre lo Stato «con una mano concede la possibilità del recupero», di iniziare la lotta, «con l'altra implacabile mano colpisce chi ha iniziato la lotta, chi l' ha portata a termine. La mano violenta della burocrazia che sembra non accorgersi (o non vuole?) che « le carceri italiane sono piene di eroina!».

Pochi giorni fa Caselli affermava che in carcere finiscono i poveracci, secondo Severi «In carcere non stanno i più pericolosi ma solo i più fessi e, tra l'altro, i più ignoranti...». «Igno­ranza genera ignoranza... Il carcere è perdita dell'autostima. I gradini della scala della di­gnità vengono scesi lentamente, inesorabilmente. Anzi è proprio la lentezza della discesa che non consente di capire che si sta affondando».

Paolo, per non affondare, si aggrappa disperatamente ai libri: «Amati libri salvatemi voi. Ci

vuole un centro di purezza a cui aggrapparsi, un riferimento fisso e inattaccabile, inossida­bile in cui i valori siano incontrovertibili... le teorie possono essere controverse e discusse ma sempre all'interno di valori cardine inalienabili. A questi mi aggrappo, disperatamente mi aggrappo... Superarsi sempre invece di abbattersi. Essere propositivi, ottimisti, impu­gnare il proprio destino e stare sempre molto attenti a non farsi sfuggire di mano la situa­zione... qui se si mette un piede in fallo si rischia di cadere in un burrone da cui è impossi­bile risalire. E poi ci si sfracella, di certo ci si sfracella. Io mi ci sono già massacrato lì dentro, non voglio caderci più. Inorridisco al pensiero di ritrovarmi come prima, come qual­che anno fa e di ridurmi ancora così proprio qui, in carcere... Sono, ancora, vivo. Me lo devo ripetere per crederci».

Ho letto che quest'anno si celebra anche il "Giubileo per il mondo del carcere", con corredo di documenti seri, ma anche di slogans puerili. Mi sarebbe piaciuto leggere una doman­da (e conseguente risposta) come l'ha posta Paolo Severi: «Dove è morto Dio?». E stato detto che è morto «nei campi di sterminio e nei gulag, all'ombra dei grattacieli e delle lamiere delle grandi metropoli, nell'anonimato delle folle, nell'esaltazione di questa civiltà della tecnica tutta protesa ad autoaffermarsi. É vero. Toponomastica della morte di Dio. Ma c'è un altro posto dove è morto Dio e questo non lo hanno mai detto, sarà perché per molti paradossalmente il carcere è un luogo di riscoperta della fede, sarà perché il carcere è da questo punto di vista terra di conquista.

Ma Dio è morto anche qui dentro.

Dio è morto soprattutto qui dentro.

Dio è morto insieme alla speranza.

Dio è morto nel monotono e allucinante ripetersi delle giornate senza senso, nel vuoto delle gabbie che chiamano celle, nell'irreggimentazione della vita quotidiana, nei nomi ur­lati, nelle mani addosso, nella violenza, nella spersonalizzazione, nella impossibilità del recupero, nell'impossibilità di una uscita.

Dio è morto in tutta la roba che gira qui dentro.

Dio è morto nell'annullamento dell'uomo.

Dio è morto nella perdita di dignità

Dio è morto per i ragazzi riportati in carcere dopo anni di comunità.

Dio è morto, anche, negli occhi di Billy».

Dio, aggiungerei, è morto, oltre che nella nostra 'disattenzione', anche in certi agenti di custodia che, «levata la divisa, mettono su l'orecchino e prendono un aspetto umano...», vorrebbero essere ragazzi come gli altri, qualcuno tenta anche lodevolmente di darsi alla politica sentendosi particolarmente versato in ordine alla soluzione dei problemi di "ordine pubblico"... ma purtroppo, nonostante gli sforzi, risentirà sempre della fabrica di emarginazione in cui opera e si porterà dietro gli effetti della "subcultura carceraria". Potrà evolvere, ma non potrà fare "salti".

Il vero "salto", alla fine di un percorso costellato di dolori, lo fanno i Severi, gli Andraous, i Giannoni (Hotel Sollicciano - 12 mesi in una suite dello Stato a mezza pensione) e tanti altri anonimi, per i quali «raccontare l'esperienza vissuta significa anche cominciare a superar­la», anche se rimarrà sempre in loro il segno della sofferenza. Ma su questo e su altro rifletteremo in un imminente convegno.

Mirella Venturini

Tratto da “Pagine Contro” N° 8 anno 2000