Alpinismo Extra Europeo

Cina 95

Relazione di Giacomo Scaccabarozzi

 

La curiosità di scoprire il Muztagh Ata nacque nel 1993, in Karakorum, quando lo scorsi, assieme a Riccardo Verderio, dalla vetta del Dut Sar, lontanissimo ma superbo. Fu proprio questa curiosità, unita alla voglia di mettere gli sci sulle candide dorsali del Muztagh Ata, montagna dal nome strano e curioso, una specie di immensa balena bianca arenatasi nell'arido cuore dell'Asia, a spingermi a organizzare questa spedizione scegliendo come accesso il poco conosciuto Kirghizistan al posto dei più frequentati itinerari che passano dal Pakistan e da Pechino. A quanti sarà capitato di osservare i profili del Padre dei Monti di Ghiaccio, come lo chiamano i Kirghisi, senza trovarvi alcun motivo di interesse e senza entusiasmarsi neppure all'idea di un viaggio di avvicinamento! Profili dolci e arrotondati, quasi come quelli di una collina; nulla di tecnico, nulla di ripido, di estremo, di misterioso. Proprio come è oramai il percorso abituale che porta ai suoi piedi.

Eppure questi profili hanno da sempre, inspiegabilmente, calamitato l'attenzione di buona parte del mondo alpinistico, vuoi per la loro eleganza, vuoi per il gioco di misteriosi contrasti. O forse perché queste dorsali sono ritenute di facile scalata e soprattutto adatte a una traversata con gli sci.

Presunzioni, queste ultime, che fanno passare in secondo piano le difficoltà che una montagna di oltre 7500 metri comunque comporta.

 

Immobile, con la sua faccia al vento, ampia e arrotondata come una superba sfinge, il Muztagh Ata sembra emergere docile e glaciale dalle sabbie dei deserti del Pamir senza riuscire però a prendere slancio e dando l'illusione di offrirsi a poco prezzo. Una dolce lusinga che ha stregato anche noi con un richiamo magnetico e irresistibile verso un'avventura nuova, di cui nessuno ignora o sottovaluta i rischi. Per questo, dopo gli aridi e sconfinati profili del Kazakistan, scelti proprio per dare un po' di pepe al viaggio di avvicinamento, abbiamo indugiato alcuni giorni sulle montagne del vicino Kirghizistan, quasi ad allungare ancor di più la nostra attesa.

 

"Siamo in nove a lasciare l'Italia con al seguito oltre 700 chilogrammi di materiali; è il nostro record. Chissà cosa arriverà e a cosa servirà! È il 18 di luglio e, dopo Istanbul, proseguiamo per il Kazakistan. Più che le hostess, a tenerci svegli sono le troppe cartoline da autografare.

All'alba, Alma Ata, la capitale del Kazakistan, non ha molto da offrirci, così come Bichkek, città del Kirghizistan, che raggiungiamo dopo quattro ore di bus; fortuna che la nostra guida kirghisa ci accompagna subito al rifugio Kaskhasur, a 1800 di quota, dove all'orizzonte si intravedono dolci e verdi montagne.

Il 20 luglio arriviamo al Parco Nazionale di Ala-Archa, nella catena dei Monti Kirghisi. Dai 2100 metri del fondovalle saliamo ai 3350 metri della morena di Ak-Sai. Appena il tempo di arrivare e già sentiamo l'intensa emozione di un mondo nuovo e sconosciuto. Capiamo subito che le ascensioni che faremo in questo luogo saranno fantastiche. Ambiente e quota sono molto simili a quelli delle nostre Alpi, ma con la prerogativa di essere i soli a godere degli orizzonti infiniti di questo stupendo angolo di Asia. Saliamo in circa tre ore con grossi zaini lungo i fianchi scoscesi di valli glaciali in compagnia di amici impareggiabili; vorremmo volare, ma i nostri fardelli ci fanno morire.

La prima ascensione la facciamo al Pik Bozik, l'unica montagna marcia di tutta la zona. Ce ne accorgiamo solo dopo avere risalito la ripida morena di Ak-Sai, avere traversato a 3750 metri l'omonimo ghiacciaio e attaccato il versante est del Bozik: una impervia sequela di sfasciumi, con sassi che volano da tutte le parti. Raggiungiamo i grandi e tranquilli orizzonti della candida vetta, a 4295 metri di quota, volando a nostra volta. Ora siamo liberi di ammirare guglie e piramidi di rosso granito a perdita d'occhio, vertiginosi couloir di ghiaccio, lunghi serpenti glaciali e verdi fondovalli. Una vera sorpresa in questo mondo tenuto nascosto per troppo tempo, ed è tutto stupendo e inebriante, a parte la discesa.

Una dolce notte fa da preludio alla noiosa morena di Ak-Sai. Per raggiungere il Pik Korona, la più bella montagna della valle, occorre risalirla un'altra volta, dopo di che, sul versante orientale del ghiacciaio, imbocchiamo quello più ripido del Korona. Lo risaliamo per intero con gli sci; mille metri di dislivello fino alla forcella situata tra i due torrioni granitici alti un centinaio di metri che costituiscono le vette del Pik Korona, alte 4850 metri. Con un paio di tiri divertenti raggiungiamo il versante occidentale, poi rientriamo alle tende con una sciata non-stop da spezzare i polmoni. È il 22 luglio, domani dovremo tornare a Bichkek, quella triste città intravista quattro giorni prima. Siamo contenti di tutto fuorché di quest'ultimo fatto.

 

La città kirghisa è ancora peggio di quanto pensavamo; tra l'altro dobbiamo fermarci un giorno e, per la prima volta, piove. Ne approfittiamo per prepararci al lungo viaggio (1200 chilometri circa) e per conoscere quello strano mondo sopravvissuto tra le ceneri del regime andato in fumo qualche anno prima.

Un contrasto forte e stridente col fantastico ambiente alpino che abbiamo appena lasciato alle spalle: un universo distante dal nostro, ma al contempo tanto vicino, dove il regime sovietico ha tentato un'impossibile integrazione razziale e un'altrettanto improponibile industrializzazione. La gente sembra tanto triste che decidiamo di partire subito per la nostra montagna.

Il 25 luglio lasciamo Bichkek diretti a sud, verso il passo di Torugart. Dopo 12 ore di viaggio in un ambiente dolcissimo raggiungiamo Tash Rabat, antichissimo caravanserraglio situato a 3000 metri di quota, sull'antica Via della Seta. Il tempo sembra fermo da millenni e segue ritmi sconosciuti a noi occidentali; il verde domina ovunque, con vasti altopiani, pascoli a perdita d'occhio e pochissimi villaggi; più frequenti sono gli accampamenti di tende jurte in cui vivono popolazioni nomadi, la cui attività principale consiste nell'allevamento dei cavalli, talmente veloci che superano il nostro autocarro.

Dopo una notte trascorsa al riparo di una caverna, al mattino riprendiamo il viaggio e costeggiamo per circa 350 chilometri la catena dei monti Fergana, separata dalla strada sterrata da un triplo reticolato di filo spinato. Arriviamo alla dogana kirghisa; è un vecchio e monumentale edificio in marmo situato sulle rive del grande lago di Karshazej, a 3200 metri di quota. Tutt'intorno baracche e vagoni ferroviari, arrivati fin qui chissà come. Dopo due ore riusciamo a sdoganare il bagaglio con l'impressione di avere avuto una grande fortuna. Da qui dovremo ripassare fra venti giorni: speriamo che vada altrettanto bene.

 

Superati i numerosi reticolati di filo spinato attraverso la "terra di nessuno", ci inerpichiamo in una lunga serie di tornanti fino a raggiungere il confine cinese: il Torugarpass, a 3750 metri di quota. Un grande arco in granito rosso annuncia l'ingresso in Cina. Questo passo è stato riscoperto in seguito al crollo del regime sovietico dopo lunghi anni di oblio, ma era già conosciuto e battuto fin dai tempi di Marco Polo, trovandosi sulla linea più diretta tra l'Occidente e Pechino, cioè l'antica Via della Seta, oggi chiamata la via del cotone, visto il traffico di questo materiale verso la Cina. È facile prevedere che in futuro possa aggiornarsi in via del turismo. Siamo tra i primi occidentali a entrare in Cina per questa frontiera sperduta e battuta dal vento. L'emozione pervade tutta la comitiva. Veniamo presi in consegna dall'esercito cinese e dall'ufficiale di collegamento, il quale, senza darci nessuna possibilità di divagazione, ci accompagna a Kashgar, la città più vicina al Muztagh Ata, situata in una vastissima pianura a 1500 metri di quota; anche oggi ci siamo sobbarcati 12 ore di viaggio.

 

La vicinanza col grande deserto del Takla Maklan è ormai palpabile; questa antica oasi è quasi ricoperta di polvere e, anche se vi rimane poco di quanto incontrato dal grande viaggiatore veneziano 700 anni prima, ha pur sempre un fascino particolare e un po' perverso: Kashgar è infatti una città di moschee e bazar, dove incroci razziali e religiosi sono unici al mondo. Tutt'oggi è sede di uno dei più caotici e folcloristici mercati d'Oriente; una vera babilonia dove traffici e commerci leciti e meno leciti si consumano freneticamente.

Il 27 luglio saliamo col bus in sole quattro ore al Piccolo lago di Karakul, a circa 3700 metri di quota. Attraversiamo una regione molto arida e polverosa, ma nelle acque azzurre di questo fantastico laghetto troviamo specchiati i solenni profili della nostra montagna: una vera attrattiva per chi come noi è arrivato fin quassù inseguendo un lungo sogno. Qui si perdono a lungo i nostri sguardi ammaliati e quelli dei viaggiatori provenienti dall'India, dal Tibet, dal Pakistan, tutti attraverso la Karakorum Highway; viaggiatori stanchi, impolverati e con la barba lunga, reduci da un viaggio tanto affascinante quanto stressante. La nostra sensazione è quella di conoscere ormai tutto del Muztagh Ata, delle sue dorsali ingobbite, inondate dal sole e frustate dal vento. Tuttavia ci rendiamo presto conto di come sia strana questa montagna, strana e unica nel suo genere in quanto le sue reali dimensioni sfuggono anche al più attento degli osservatori. I grandi spazi aperti e le sue forme arrotondate fanno dimenticare facilmente i quasi 4000 metri di dislivello che offre al versante più fotografato: verrebbe voglia di farli tutti d'un fiato, ma scegliamo più saggiamente di starcene sdraiati al sole in questa splendida radura.

Il 28 luglio è il grande giorno; dopo avere riposato la notte in una jurta, è finalmente arrivato il momento di avvicinarci al "santuario". Grazie ai mai troppo ammirati cammelli baghirati, non senza emozione, saliamo in tre ore al campo base seguiti da tutte le nostre comodità; siamo a circa 4300 metri di quota e, dopo undici giorni di girovagare, contrariamente a quanto pensavamo, ci sentiamo caricati al punto giusto e per niente stanchi, contenti di trovare finalmente quel luogo che cercavamo per posare le nostre tende per un po' di giorni. Il punto in cui ci troviamo è la platea ideale per ammirare tramonti grandiosi, capaci di evocare in noi dolci ricordi di altri spettacoli goduti dal Sajama, dall'Illimani, dall'Alpamayo, dall'Huascaran, dal Khan Tengri.

Passiamo il resto del pomeriggio a montare il campo, a sistemare la tenda mensa e a preparare i carichi da portare al campo uno. Oltre a noi, al nostro ufficiale di collegamento e a tre cuochi, vi sono altre quattro spedizioni, composte rispettivamente da un folto gruppo di tedeschi, da sette svizzeri, da quattro francesi e da cinque belgi. Nessuno correrà dunque il rischio di soffrire di solitudine.

Fin dal primo giorno iniziamo il lavoro di rifornimento dei campi alti. Saliamo a 5400 metri, dove montiamo tre tende e ridiscendiamo al campo base; il 1° di agosto piazziamo altre due tende a 6330 metri di quota. Ognuno fa la propria parte. L'acclimatamento fatto a casa e in Kirghizistan si rivela molto utile e produce i suoi effetti: rispetto alle altre spedizioni viaggiamo spediti. L'armonia regnante nel gruppo, unita alla bellezza dell'ambiente, ci fa dimenticare la fatica della marcia. Già al settimo giorno ci sentiamo pronti per la vetta.

È vero: la montagna richiede molti sforzi e lunghe ore ad andare su e giù per le morene, a pestare neve, a montare e smontare tende, ma sa anche dare emozioni indimenticabili, come sciare lungo dorsali incontaminati, scoprire angoli segreti e oziare pigramente al sole con la piacevole compagnia di marmotte e di amici kirghisi che salgono dal villaggio, ogni giorno, a farci compagnia e a venderci di tutto, a esclusione dello sterco di jack, troppo prezioso per loro.

Il 4 di agosto, assieme a Pietro Isacchi, a Riccardo Milani e a Claudio Ghezzi lascio il campo base diretto al campo uno. La mattina, sci ai piedi, saliamo al due, dove rimaniamo bloccati da una notte di tormenta e dal cattivo tempo il giorno seguente. Siamo costretti a una sosta forzata. Claudio Ghezzi rinuncia momentaneamente, sostituito al campo due da Dino Cazzaniga. Qui scopro la possibilità di salire in vetta in velocità, saltando cioè il terzo campo a circa 6900 metri. Seguendo infatti le bandierine piantate dai tedeschi, nonostante il vento e la nebbia, raggiungo quota 6900 metri in meno di tre ore, e questo mi fa ben sperare per il giorno successivo.

Il 7 agosto però, dopo un'altra brutta notte, alle 7.15 riprendo la salita, seguito solo da Dino Cazzaniga. La tormenta e la nebbia sconsigliano gli altri due amici di mettersi in marcia. Anzi, essi abbandonano il campo due e scendono al campo base in attesa di tempi migliori. Il vento che spinge alle spalle ci porta a quota 6900 in sole due ore. Non c'è male, ma pur proseguendo non sappiamo cosa ci aspetta. Fortuna che, poco dopo, appare il sole, improvviso e accecante. Riprendiamo più rinfrancati, in quattro ore raggiungiamo le roccette dell'antecima, a 7490 metri di quota. C'è appena il tempo di scorgere lo scoglio roccioso della vetta del Muztagh Ata, distante ancora un centinaio di metri, che la nebbia avvolge di nuovo tutto quanto. Con la speranza che il tempo ci conceda qualche sprazzo di blu, in meno di 15 minuti finalmente tocchiamo la vetta, a 7546 metri di quota: sono le 13.30 e si fatica a rimanere ritti per il vento. Dopo mezz'ora togliamo le pelli di foca ed iniziamo, un po' sconsolati, la discesa.

Bastano però pochi metri per vedere materializzarsi finalmente quanto a lungo sognato: il sole ritrovato, pochi centimetri di neve fresca e pendii fantastici che ci fanno dimenticare in fretta la delusione di una cima che ci aveva negato la gioia di vasti orizzonti. Raggiungiamo il campo base dopo tre ore, alle 5 di sera, pienamente soddisfatti per il risultato raggiunto e, soprattutto, per l'incredibile sciata.

 

L'8 agosto salgono al primo campo Claudio Ghezzi e Tiziana Santi; li seguono a un giorno di distanza Riccardo Milani e Pietro Isacchi. Il 10 agosto i primi due, partiti dal secondo campo senza sci, sono costretti dal freddo e dalla neve profonda a fermarsi a circa 7200 metri. L'11 agosto, alle ore 11, Riccardo Milani e Pietro Isacchi raggiungono finalmente la vetta, ripetendo nei tempi e nei modi la salita della nostra cordata, ma gratificati, e premiati per la loro pazienza, da un tempo decisamente migliore, pur in presenza di un vento fortissimo. Alle 18.30 dello stesso giorno fanno ritorno al campo base, anch'essi piacevolmente al centro delle attenzioni dei ragazzi cinesi e delle altre spedizioni.

Recuperate le tende dai campi alti, il 13 agosto smontiamo il campo base e, con soli sei cammelli contro i quindici utilizzati per la salita, scendiamo a fondovalle. Qui un furgone e un camion ci riaccompagnano al Piccolo Lago di Karakul e, nello stesso pomeriggio, a Kashgar. La tristezza si alterna all'allegria .... ma, prevale un sentimento di riconoscenza per i miei otto compagni e, perché no, per l'amico cinese che non è riuscito a rovinarci la vacanza. Riacquistato un aspetto civile dopo un'accurata toeletta, passiamo la giornata a visitare la città; mercati, moschee, caldo, sporcizia: una fatica più logorante di quella richiestaci dal Muztagh Ata.

Il giorno dopo a mezzogiorno, puntuali all'appuntamento, il nostro ufficiale ci consegna nelle mani dei kirghisi, al Torugarpass: è il 15 agosto. Pacche, canti, balli e cocomeri per festeggiare l'avvenimento. Poi, passati indenni dalla dogana, raggiungiamo il piccolo villaggio di Narin che è ormai sera. Troviamo ospitalità in alcune jurte, dove, complice una temperatura freschissima, cediamo di schianto alla fatica accumulata, sprofondando in un sonno ristoratore.

Accettiamo malvolentieri la disgressione del lago di Issik-Kul; vorremmo tornare a casa il più presto possibile, ma gli amici kirghisi insistono a farci conoscere questa loro ridente località termale. Il vento e lo stato d'abbandono del posto non ci permettono di godere alcunché, a parte una sauna collettiva.

Il giorno successivo siamo finalmente di ritorno a Bichkek: manca solo la fanfara. Siamo i primi ad aver salito il Muztagh Ata entrando in Cina dal Kirghizistan. Ci offrono tante cipolle e altri cocomeri. Arrivati ad Alma Ata, ci fermiamo per trascorrervi la notte.

Il 18 agosto è il giorno dei saluti e dei baci; dopo un'ultima bevuta obbligata di vodka, arriva il momento di sbarcare a Istanbul, vero ponte tra Oriente e Occidente. È una sosta benefica, in quanto ci aiuta a ritornare nel clima di casa in modo più graduale.

 

Sfidando i temporali di agosto, il 19 rientriamo alle nostre case. Qualcuno pensa già al prossimo viaggio, altri ostentano tranquillità come se fossero appena ritornati da una gita in campagna. Sicuramente ci sentiamo tutti ancora più amici di quando siamo partiti. È una sensazione forte. Il Muztagh Ata è servito anche a questo, soprattutto a quelli che non ce l'hanno fatta a coronare i propri sogni".

 

 

Componenti della "China Ski Expedition '95":

 

Pietro Isacchi (1958), di Cisano Bergamasco,

Riccardo Milani (1968), di Olginate,

Tiziana Santi (1963), di Beverate,

Dino Cazzaniga (1966), di Missaglia,

Claudio Ghezzi (1952), di Missaglia,

Maurizio Ghezzi (1966), di Perego,

Sergio Pastori (1962), di Cernusco sul Naviglio,

Vittorio Airoldi (1953), di Oggiono, e

Giacomo Scaccabarozzi (1951), di Missaglia.

 

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