Con free climbing si intende l'arrampicata sportiva o libera, come dir si voglia, si intende l'arrampicata su falesie, cioè su pareti del fondo valle che non presentano particolari problemi legati all'accesso, alla quota, alle condizioni metereologiche.
Al Cai Vimercate questa attività oggi e da parecchi anni è molto seguita. Ad opera di un numeroso gruppo di persone e sopratutto di Alessandro Ronchi sono state scoperte e riscoperte numerose località per l'arrampicata, si sono aperte vie nuove e sono state messe in sicurezza quelle vecchie.
A Vimercate è attiva una palestra artificiale per l'arrampicata e in occasione della festa di S.Antonio e di altre feste, nei paesi vicini, viene montata una parete mobile per consentire ai ragazzini di provare in condizioni di sicurezza le emozioni dell'arrampicata.

 

Informazioni

Itinerari

Palestra a Vimercate

Rifugi

Le "nostre" falesie

Parchi

Difficoltà

Meteo

Come abbiamo iniziato
Alessandro

F.A.S.I.

Falesie Italiane
Pareti


La palestra
Fabio "tenta" di combattere la forza di gravità Apertura
Martedì dall 19 alle 21
Giovedì dalle 19 alle 21

Le strutture di arrampicata sono all' interno della palestra del Centro Giovanile di via Valcamonica a Vimercate.
Luca mette a dura prova i legamenti

La palestra del CAI di Vimercate, e' nata nel'94 dal lavoro dell'infaticabile Alessandro Ronchi ed amici.
In particolare, e' stato decisivo l'aiuto del "fabbro", Marco Brambilla, grazie al quale si sono potute realizzare le prime due strutture (oltre a quelle venute in seguito): una verticale alta 7 metri ed una strapiombante, ricavata dalla "pannellatura" di un quadro svedese, già esistente all'interno della palestra.
Successivamente e' stata attrezzata una trave di sostegno del soffitto, creando un percorso orizzontale, very strong!
Vista la sua spettacolarità', questa via ha stimolato le menti di molti frequentatori della palestra ed ancora oggi c'e' chi, scalandola, tenta di vincere la dura lotta contro la forza di gravita' .
Poi e' comparso il mitico "travo" e subito i dorsali hanno iniziato a gonfiarsi, come canotti!
L'anno seguente, il gruppo dei "soliti noti", ha costruito una struttura molto simile a quelle in voga in quel periodo, negli altri centri sportivi.
Questa nuova realizzazione si componeva di: un primo tratto verticale (2 metri), uno leggermente strapiombante (3 metri) ed un tetto (4 metri).

Fabio sul tetto Dopo dieci movimenti, c'è bisogno di un pò di magnesite

Nel'96, sono stati realizzati due pannelli ad inclinazione variabile (3 metri x 3 metri), introducendo cosi', un nuovo modo di allenarsi.
Infatti in poco tempo, ci rendemmo conto che: rendendo obbligatorie le prese per le mani, si miglioravano notevolmente sia le prestazioni fisiche, che quelle tecniche ed in particolare si sviluppava ulteriormente, la "consapevolezza del movimento".
Si acquisiva ,cioè', la capacita' di "sentire" il proprio corpo durante i movimenti, scegliendo la giusta posizione, per mantenere sempre l'equilibrio.
In poco tempo comparvero i bollini numerati, anche sulle altre strutture meno estreme, regalando momenti di gloria anche ai meno forti.
Nel mese di febbraio del 2000, è stata realizzata una nuova struttura, con uno sviluppo di circa 12 metri, utilizzabile anche per delle gare amatoriali.
A questo punto abbiamo una palestra, veramente DOC!, che può offrire tracciati per tutti i gusti e per tutti i livelli, ad un costo bassissimo (vedi tabella.....).
Gli elementi che hanno sempre caratterizzato i frequentatori della nostra palestra sono: la voglia di socializzare e di scambiarsi le diverse esperienze montane, aprendo nuovi orizzonti verso, sempre diversi modi di vivere la montagna.
Infatti da noi, potrete incontrare sia l'alpinista di altri tempi, che il falesista incallito.
Tutto ciò' si esprime, anche durante le frequenti "pizzate" che, il responsabile Marco, organizza periodicamente.
Spero che queste poche righe Vi invoglieranno a venirci a trovare, anche perché l'acido lattico ed il primo ingresso, sono OFFERTI dalla ditta!
 

...se la prendo, la tengo.... I due pannelli inclinati, sono sempre i più gettonati

ACCESSO

APERTURA:
Martedì e Giovedì dalle 19.00 alle 21.30 circa, da OTTOBRE ad APRILE
TARIFFE:
Ingresso Singolo Euro 3,00,
Abbonamento Mensile Euro 18,00
10 ingressi uomini Euro 25,00 , donne Euro 15,00

PER RAGIONI ASSICURATIVE, E' INDISPENSABILE L'ISCRIZIONE AL C.A.I., e' possibile iscriversi anche presso la palestra.
Ultriori info presso la sede CAI

Le "nostre" falesie

 

Falesie

Le "nostre falesie"

 

Difficoltà

Nella tabella sono riportate le tre scale di misura usate per assegnare i gradi di difficoltà delle vie di roccia: quella internazionale, quella francese e quella americana.
Le difficoltà sono in ordine crescente e si intendono per risalite senza ausilio di staffe, rinvii, moschettoni o altri mezzi artificiali.

UIAA

F

USA

IV+

4

5.5

V

4+

5.6

V+

5a

5.7

VI-

5b

5.8

VI

5c

5.9

VI+ / VII-

6a

5.10a

VII

6a+

5.10b

VII / VII+

6b

5.10c

VII+

6b+

5.10d

VIII-

6c

5.11a

VIII

6c+

5.11b

VIII+

7a

5.11c

IX-

7a+

5.11d

IX- / IX

7b

5.12a

IX

7b+

5.12b

IX / IX+

7c

5.12c

IX+

7c+

5.12d

IX+ / X-

8a

5.13a

X-

8a+

5.13b

X

8b

5.13c

X+

8b+

5.13d

X+/XI

8c

5.14a

Vestivamo con il Pigiamino
di Giorgio Sabbioni

E' passato un po' di tempo da allora e i ricordi delle nostre stagioni di arrampicata sfumano nelle nebbie della memoria, così è arduo riportare alla mente le ragioni che ci spinsero all'arrampicata di fondovalle. Di sicuro c'è da dire che andare in Grignetta costava molto più tempo, fatica e rischio di oggi, come quella volta nel 1984 quando cercammo di ripetere la via Marimonti al Cinquantenario e ci trovammo a gattonare per sfasciumi da chissà quanto mai più percorsi.
Un po' sorpresi di esserci arrivati, toccammo la vetta dopo aver trovato anche un chiodo che doveva appartenere alla storia dell'alpinismo. Intendiamoci, non si trattò di un impresa o che altro di avventuroso, semplicemente sbagliammo via come i più classici dei dilettanti e mai superammo i limiti del rischio ragionevole.
La necessità di migliorare l'allenamento e nello stesso tempo di non sacrificare la famiglia ci costringeva a frequentare ambienti di accesso più veloce: il Sasso d'Erba, le placchette del S. Martino, Introbio e Scarenna. Si sentiva favoleggiare di qualche "Patrik" d'oltralpe e delle scarpette con la suola in "aerlite"; noi ci arrangiavamo con quello che avevamo, io mi trovavo bene con un paio di Adidas "tampico" da jogging dalla suola di gomma spugnosa.
Poi arrivarono la mie prime dolomite "Edlinger" di seconda mano, la scoperta delle falesie del Finalese e l'esplosione del "free climbing".
Pensandoci bene correva l'anno 1985 ma si era alla preistoria: "l'8a" era innominabile come già era stato per il "settimo" ai tempi del "sesto grado"; i più bravi di noi si muovevano a fatica sul "6a", i più scarsi (come me) facevano "resting" guardando con rispetto il "5+" del Pizzo Boga.
Nel frattempo cresceva la "moda" e continuava l'evoluzione: arrivavano l'otto, i moschettoni a dito (quelli ricurvi per facilitare l'inserimento della corda), le scarpette con la suola in mescola spagnola, ma, soprattutto: arrivava il "pigiamino" (pantacollant in lycra n.d.r.).
Il primo "pigiamino" lo indossò Luigino quel giorno di ottobre del 1986 che andammo a fare il giro del fungo; era rosso, di cotonino leggero con stampate delle mongolfierine bianche. Una scelta mica da ridere, ci voleva del coraggio a 32 anni suonati, sposato e con un figlio, a indossare un capo del genere. Lo canzonammo un po' ma, poche domeniche dopo, vestivamo tutti con il "pigiamino".
Si consumava lo strappo con la tradizione dei "calzettoni rossi", quel modo, cioè, di andare per montagne con i calzoni alla zuava e i calzettoni rossi, appunto, a ripetere vie "tirando" un chiodo via l'altro. Peccando di presunzione, guardavamo a quel modo di arrampicare con un po' di puzza sotto il naso e ci sforzavamo di ripetere le vie nel modo più pulito possibile, cioè utilizzando i chiodi solo come punti di assicurazione, senza mai appendersi a loro come se fossero maniglie (da cui il termine "tirare").
Il climber "medio" vestiva più o meno così: pigiamino contrastante ma con richiami al colore di imbrago e rinvii (assolutamente tutti uguali e coordinati con l'insieme) con moschettoni tutti uguali di colore contrastante. Altra nota di distinzione era il magnesio o "pof": il climber in difficoltà era uso infilare le mani sudate nel sacchetto del magnesio, bianca polverina miracolosa che non dava paradisi artificiali ma asciugava le dita ed era meglio di una camomilla per i nervi scossi.
Più che rozzi montanari sembravamo ormai dei raffinati "dandy"; che poi non si riuscisse ad arrampicare al livello del "look" che indossavamo era una questione irrilevante.
Arrivò così il 1987, l'arrampicata di fondovalle: di facile fruizione, sicura, divertente e atletica faceva sempre più tendenza; le guglie della Grignetta un tempo affollate all'inverosimile andavano deserte; per contro, aumentava il popolo dei "cimber" (termine anglo-brianzolo derivato da climber), e incominciarono le prime gare: quelle serie e quelle tra amici.
Il metodo di allenamento, era meno che empirico: trazionare con le braccia, alimentazione ottimizzata al minimo peso corporeo. Il piatto forte era composto da insalata scondita, vivevamo al limite della denutrizione ma, talvolta, si cedeva ai piaceri della buona tavola e ci si concedeva anche uno yogurt!
Per tenersi in esercizio ci si arrampicava su qualsiasi cosa: dal conglomerato di Porto d'Adda ai piloni del ponte della ferrovia di Gerno (polizia permettendo), tutto, purché fosse "spittato".
In effetti, la chiave di tutto il gioco era lo "spit", il tassello a espansione: grazie a lui i "cimber" potevano tentare passaggi più arditi (chissà poi dove era l'ardimento) senza il rischio di arrivare in terra dopo un "volo".
Lo spirito non era proprio quello dei nostri idoli: Manolo, Mariacher, Edlinger ecc., arrampicatori dell'estremo con il pelo sullo stomaco, capaci anche di solitarie integrali (arrampicata senza corda né punti di assicurazione); i nostri ventri glabri sopportavano, al massimo, cinquanta centimetri di distanza tra lo "spit" ed i piedi, assicurati a una corda di 12 mm; però, animati da voglia di emulazione, ci chiamavamo Free Climber.
Fu nell'ottobre 1987, al termine di una garetta "tra quelli del giro", che con una ricognizione in zona scoprimmo il settore sinistro della falesia di Civate.
Folgorati, ci buttammo nel nuovo gioco: attrezzare le vie per poi salirle per primi. Trasformati in disgaggiatori cominciammo a bonificare le pareti e a perforare la roccia, a martellate per fare il buco degli "spit". Sembra facile a dirsi, ma lavorare seduti in un imbrago a 30 m di altezza richiede un impegno psichico non da ridere.
La prima via completata (il diedro) la chiamammo "donne in attesa" con un chiaro riferimento alle mogli che pazientemente ci aspettavano a casa (va detto che la maggior parte di noi erano sposati con prole). Poi si aggiunsero tutte le altre con nomi presi per lo più da spettacoli televisivi o dalla pubblicità. Bisogna riconoscere che il più prolifico in questa scelta era Rino; suoi capolavori: spit quizzer, punire il corpo e tante altre invenzioni assurde e salaci.
In coppia con Alessandro era il più motivato del gruppo. Mentre noi, ormai stufi, davamo le ultime rifiniture a Civate, loro cominciarono a dedicarsi alla falesia di Pradello, divertendosi con nuovi epiteti: Svaselina, Piombo e strapiombo, Titiro il tapiro ecc.
Nel frattempo, il movimento d'opinione cominciava ad avere un certo peso. Così la sezione del CAI ci venne incontro acquistando un trapano Hilti a batteria; Sciola e Longoni Sport ci fornirono del materiale e nel dicembre 1988, ottenuto il nullaosta del parco, cominciammo a lavorare alle falesie di Galbiate.
Eravamo ormai dei maturi tracciatori, il lavoro fu imponente: una delle azioni più difficili fu aprirsi un varco tra i rovi che, ormai, infestavano tutto.
Si lavorava come professionisti (e senza retorica): alcuni di noi si calavano dall'alto per bonificare la parete dai massi instabili e le erbacce, poi arrivavano i tracciatori (Alessandro e Rino), trapano nella mano, a piantare i tasselli a espansione. Le emozioni non mancavano specie quando i massi instabili da spostare superavano il metro cubo.
Lavorammo in 9 prendendo dei giorni di ferie; terminato il settore principale, nel periodo di Capodanno aprimmo il "muro giallo" e un sentiero tra rovi alti 3 metri che ci costò 5 ore di lotta, per questo si meritò l'appellativo di pista dell'orrore.
Il risultato di questo lavoro non si limitò a una nuova falesia ma recuperò di fatto un settore del Monte Barro che era diventato inaccessibile.
Poi, in un crescendo rossiniano, al motto di "se Maometto non va alla montagna..." nel gennaio 1989 attrezzammo una struttura artificiale al ponte di S. Rocco e successivamente persino il campanile di Ruginello.
Che cosa ci spingesse a fare tutto questo, non lo so spiegare. Sicuramente, per alcuni di noi, c'era una buona dose di spirito di servizio.
Ma ormai era troppo, ci eravamo scavati una nicchia nella storia dell'arrampicata nel Lecchese ed eravamo stanchi.
Tutti stanchi tranne uno:, Alessandro.
Coadiuvato da nuovi e vecchi amici, facendo riparare per tre volte il trapano, tracciò nuovi itinerari a Galbiate, Civate, Pradello e Paderno, restaurò quelli di Porto e del Ponte di Gerno e, più recentemente Civate e Galbiate, fino ad arrivare alla falesia del Vaccarese ed agli Scudi di Valgrande che per dimensione e impegno sorpassano tutte le altre, ma questa è storia recente e la parola fine non è ancora stata pronunciata.

 

La vita appesa a un chiodo

di Alessandro Ronchi

Ho iniziato con l'alpinismo. Da ragazzo trascorrevo le vacanze estive in campeggio, in montagna e seguivo i miei genitori in lunghe camminate e ascensioni anche in alta quota.
Ma col passare degli anni nasceva dentro di me una voglia irresistibile di mettere le mani e salire su quelle pareti che, col naso all'insù, ero costretto a guardare sempre dal basso, camminando lungo i sentieri. Volevo arrampicare.
Poi, frequentando il CAI, ci fu l'incontro con Rino, Giorgio, Marco e altri ragazzi. Così un giorno mi ritrovai con loro ai piedi di una falesia sulle sponde dell'Adda e iniziai ad arrampicare.
Era il 1986. In breve tempo imparai tutto quello che c'era da imparare, me la cavavo piuttosto bene. Quasi per gioco partecipai ad una garetta fra amici, sulla vecchia palestra di Civate, e con mia grande sorpresa vinsi la gara. Questo mi diede un'ulteriore spinta a proseguire e a cercare costantemente di migliorare la tecnica e l'allenamento.
Poi, sempre con gli amici del CAI, la "scoperta" delle pareti "vergini" a sinistra della falesia di Civate e l'idea di provare ad aprire nuove vie: tutto cominciò lì.
Da allora ho trascorso lunghi inverni a chiodare; completata una falesia, proseguivo con una nuova, riservandomi per la primavera e l'estate il piacere dell'arrampicata.
In tutti questi anni ho maturato una buona esperienza nell'attrezzare vie, cresciuta tiro dopo tiro e con l'osservazione attenta di altri posti, sia in Italia che in Francia.
Individuato il possibile itinerario di una nuova via, salgo con la corda dall'alto in modo da impostare bene le posizioni per "moschettonare". Dopodiché procedo alla foratura, cercando di posizionare i primi spit non troppo alti per evitare cadute pericolose. Infine rimane il lavoro finale di pulizia, molto importante.
Dall'esperienza francese ho adottato, sulle ultime falesie attrezzate, l'uso degli anelli resinati che, oltre a non richiedere la sostituzione dopo 5 o 6 anni come i comuni tasselli ad espansione, sono più resistenti. Il lavoro risulta più lungo, ma l'arrampicata più divertente e sicura. Purtroppo gli anelli sono anche più costosi. Per contenere le spese, da circa tre anni, con un gruppo di amici, provvediamo a costruirli "in casa" comprando le barre d'acciaio e procedendo poi al taglio, filettatura e piegatura. La resina arriva direttamente dalla ditta produttrice (SIKA) a prezzi di assoluto favore.
Qual è il premio per tanto lavoro? Una grande soddisfazione interiore, difficile da tradurre in parole. È la soddisfazione che si sente quando si è coscienti di aver fatto un buon lavoro, utile non solo per se stessi, ma fruibile da altri; è la soddisfazione che provo quando la domenica, recandomi in una delle falesie da me attrezzate, osservo tanta gente arrampicare divertendosi; non ultima la soddisfazione di ricevere complimenti per la bellezza e l'ottima chiodatura delle vie.
Ma non manca neppure chi critica il mio lavoro. Le critiche certamente servono, anzi stimolano a fare sempre meglio. Ma non posso fare a meno di considerare che se non ci fossero persone disposte a dedicare tanto tempo e fatica ad attrezzare falesie, i luoghi di arrampicata sarebbero sempre gli stessi e, senza manutenzione, cadrebbero presto in disuso.
Il supporto avuto dal CAI di Vimercate è stato determinante per la realizzazione di tutto questo lavoro. Se fino ad oggi sono arrivato a creare 6 nuove falesie e ad attrezzare più di 250 vie, gran merito va riconosciuto al CAI che ha investito denaro per l'acquisto dei materiali.
Il ritorno sta nell'immagine positiva che ora circonda il CAI di Vimercate nell'ambiente dell'arrampicata sportiva: un CAI che ha saputo valorizzare questa bellissima attività e che reso possibile la creazione di luoghi di divertimento e di incontro per tanti, tanti giovani.

 

Arrampicata Sportiva
L'arrampicata sportiva odiernamente intesa nasce ufficialmente a Bardonecchia nel 1985 con la prima edizione di SPORTROCCIA, gara di arrampicata. Tuttavia la gestazione di questo sport è durata circa un secolo, da quando cioè è iniziato un approccio "scientifico" a quelli che erano i grandi problemi dell'alpinismo di allora.
Nel 1865, infatti, con la conquista del Cervino, l'uomo era ormai riuscito a salire tutte le più importanti vette delle Alpi. Negli anni che seguirono gli sforzi degli alpinisti si diressero quindi verso imprese che, oltre alla conquista della cima, acquistavano valore per come essa veniva raggiunta: da quale versante o parete, se in inverno o in estate, in quanto tempo, se in cordata o in solitaria.
Determinate salite dovevano quindi essere affrontate con un bagaglio tecnico ed una preparazione fisica adeguate: ecco nascere cosi' le prime "palestre di roccia" (piccole pareti rocciose di fondovalle), dove potersi esercitare durante la cattiva stagione per affrontare poi le "vere" salite. In questi luoghi veniva dato particolare rilievo all'aspetto della sicurezza, al contrario di quanto accadeva nelle imprese alpinistiche, dove veniva lasciato ampio spazio all'ardore e all'avventura.
Con il passare degli anni vennero risolti quelli che erano considerati i più grandi problemi di arrampicata su roccia: tra il 1920 e il 1938, in un crescendo formidabile, vennero salite la maggior parte delle più repulsive pareti dell'arco alpino.
I progressi erano anche dovuti al miglioramento continuo dei materiali e delle tecniche di salita, sempre più artificiale in alta montagna, cosi' come nelle palestre, non vi era infatti alcuna "etica" della salita: l'obbiettivo era salire, in posti sempre più difficili e ostici, senza badare se con l'aiuto di chiodi e scalette oppure issandosi lungo le corde o facendo uso di trapani per infiggere chiodi a pressione.
In quegli anni prese piede la concezione del VI grado quale soglia dell'umanamente possibile (senza cioè l'uso di mezzi artificiali); questo nelle Alpi rappresenterà per un certo periodo un limite o se non altro, un motivo di confusione.
Anche oltreoceano iniziò in quel periodo l'attività alpinistica. Gli americani partirono ultimi ma arrivarono primi. Negli USA l'arrampicata venne intesa quasi subito come gioco ed esercizio atletico. Cominciarono negli anni trenta le prime salite su roccia, le quali culminarono nell'arrampicata libera degli anni sessanta e che divenne l'alternativa al decadente alpinismo europeo. Infatti dopo la ripetizione dei grandi itinerari del VI grado, l'evoluzione dell'arrampicata nell'arco alpino era stata in buona parte arrestata dall'introduzione massiccia del chiodo a pressione, utilizzato per superare indiscriminatamente ciò che era reputato impossibile nell'arrampicata libera.
Fu grazie al diffondersi di questa nuova concezione di arrampicata, in parte importata dall'America, in parte dovuta ad una evoluzione atletica e spirituale di scalatori di gran parte dell'Europa, che si giunse all'arrampicata libera odiernamente intesa.
Durante questa lenta evoluzione, l'arrampicata ha via via perso la componente rischio (che la caratterizzava ai primordi), privilegiando invece l'aspetto del puro divertimento e della prestazione sportiva, volta a raggiungere difficoltà sempre più alte, dove il limite dell'umanamente possibile non è più definito a priori.