I principi della contrattazione nel settore del pubblico impiego

Avv. Mauro Gaballo

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Benché l'introduzione della contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, con la programmatica rivoluzione copernicana nel settore, risalga ormai al secolo scorso è in ogni caso d'uopo una pausa di riflessione sugli esiti di una riforma difficile da concretizzare e ancor più ardua da sviluppare.

L’impressione è che sinora si sia compiuto solo un primo ciclo di esperienze applicative in un ramo tradizionalmente poco avvezzo alle trasformazioni. Del resto, anche il Diritto Amministrativo e la gestione dei pubblici servizi sono profondamente cambiati, risentendo di un eccesso di regolamentazione spesso altalenante e contraddittoria, per cui un mare di contratti in un oceano di norme rende difficile la navigazione a chi, per inclinazione o per elezione, intenda percorrere le rotte del pubblico impiego equipaggiato con i prototipi contrattuali a guisa di bussola.

Un acuto professore universitario definiva sagacemente il diritto come <<ciò che i giuristi sperimentano sui tavoli delle aule giudiziarie>>; analogamente azzarderei una definizione generica dei contratti collettivi di categoria come <<ciò che le parti sociali sperimentano sui tavoli delle trattative negoziali>>. Non va peraltro dimenticato che la P.A., in quanto datore di lavoro, scende dal podio costituito dalla sua naturale e storica supremazia per diventare parte contrattuale avente, in sede negoziale e per le materie riservate, una posizione paritetica rispetto a quella dei rappresentanti dei lavoratori. Detta equiparazione, indice di ampia democrazia e di profonda civiltà giuridica oltre ad essere pienamente recettizia dei principi primi del dettato costituzionale, impone a tutte le parti deputate alle trattative, per i pubblici dipendenti e per l’amministrazione, una responsabilità nell’organizzare la struttura amministrativa finalizzata a garantire l’efficienza dei servizi pubblici destinati all’utenza, circostanza che non deve e non può comunque comportare la frustrazione dei diritti fondamentali legati alla tutela dei lavoratori, garanzie insopprimibili per il nostro ordinamento.

La considerazione per cui la dignità morale e professionale del lavoratore è un bene irrinunziabile porta, quindi, a riflettere sulla delicatezza del ruolo delle parti, sindacali e pubblica, nell’espletamento del non agevole compito di salvaguardare sia le esigenze amministrative che la valorizzazione del patrimonio costituito dalla professionalità delle risorse umane. L’esigenza di evitare che i limiti imposti dagli equilibri di bilancio determinino un’ingiusta mortificazione dei <<colletti bianchi>>, ormai sempre più giugulatori da indossarsi, induce l’Amministrazione e i Sindacati su posizioni di partenza parzialmente antitetiche, per cui corretta appare la scelta del legislatore di adottare lo strumento del contratto quale parametro di individuazione del punto di incontro della volontà di tutte le parti sociali o, come qualcuno preferisce esprimersi, di mediazione.

Questo problema, se a livello di contrattazione collettiva nazionale riveste una valenza politica rimessa al giudizio dell’opinione pubblica e dell’elettorato, a livello di contrattazione decentrata integrativa assume specifiche connotazioni deontologiche, per cui fondamentale è la correttezza etica delle parti nel gestire concretamente il sistema dei rapporti periferici in un margine già precisamente tracciato dagli accordi istituzionali a livello centrale.

Un arguto giurista nostrano ha chiaramente individuato lo spirito della giurisprudenza in tema di relazioni sindacali, estrapolando un concetto fondamentale:<<nella logica delle trattative sindacali non è sanzionabile il conflitto, bensì la negazione del conflitto>>. Posto che il legislatore ha eretto il confronto a metodo sistematico della sinergia contrattuale fra soggetti i quali, per ragioni storico-sociali, sono su posizioni contraddittorie, l’atteggiamento di uno dei soggetti che venga ad alterare il meccanismo di un corretto e trasparente confronto è di per sé censurabile.

Il principio della correttezza negoziale, costantemente ricorrente nelle fonti contrattuali generali nonché in quelle specifiche settoriali, rappresenta infatti lo spirito informatore e suggestivo delle modalità procedimentali afferenti alle trattative fra Sindacati e P.A.. Il dettame, riguardante tutti i comparti negoziali e non solo il pubblico impiego, trova tuttavia in quest’ultimo delle connotazioni specifiche imposte dalle maggiori responsabiltà a carattere pubblicistico del datore di lavoro pubblica amministrazione, la cui organizzazione deve inderogabilmente perseguire un andamento buono e imparziale, principio cardine di tutta l’azione amministrativa sancito in primis dall’art. 97 della Costituzione.

Al di là dei metodi classici di protesta e di agitazione dirette da parte dei lavoratori, nel caso in cui essi ritengano di venire frustrati nelle proprie aspettative, esistono essenzialmente due ordini di rimedio, avverso la mancanza di correttezza delle parti nelle trattative decentrate integrative, afferenti agli antagonisti contrattuali. Se l’elusione del confronto è ascrivibile alla Pubblica Amministrazione, è prevista dall’arcinoto art. 28 dello Statuto dei Lavoratori del 1970 la possibilità per il Sindacato di adire la magistratura la quale è, a partire da metà 1998, per materia quella ordinaria anche per il pubblico impiego, al fine di ottenere in tempi strettissimi un decreto con l’ordine di rimozione della condotta antisindacale del datore di lavoro, avente efficacia immediata. Qualora invece l’indifferenza alla necessità del confronto minimo necessario provenga da uno o più Sindacati, è evincibile dall’analisi del corpus lavoristico come le altre parti siano libere di procedere nelle determinazioni organizzative aziendali anche in carenza di una precisa intesa, sempre e comunque rispettando gli obblighi di piena e trasparente informazione dei Sindacati, secondo modalità idonee a garantire la possibilità di un’effettiva partecipazione nell’interesse dei lavoratori.

Il concetto primario per la lettura del moderno sistema di relazioni sindacali è, per quanto sancito e recepito dalla contrattazione collettiva, la partecipazione effettiva. Il Sindacato partecipa ai processi decisori di organizzazione delle forze lavoro presenti nell’apparato istituzionale, assicura il corretto impiego delle attitudini professionali dei dipendenti, salvaguardandone la crescita e garantendo così anche il massimo risultato nei processi produttivi, i quali per le pubbliche amministrazioni trovano il naturale bacino di utenza nei destinatari individuali ed esponenziali dell’azione amministrativa ovvero in tutti i soggetti di diritto. Il percorso naturale è, allora, la valorizzazione di un rapporto relazionale proficuo, tendente al naturale incremento delle risorse, obiettivo realmente di interesse comune per tutte le parti.

E’ evidente come un’epoca sia volta al termine per il pubblico impiego e un’altra si affermi, lentamente ma inesorabilmente. Non poteva verificarsi altrimenti, giacchè l’economia è cambiata e si misura in un’arena sovranazionale, mentre l’apparato amministrativo diventa più trasparente per un verso e sempre più manageriale per un altro. La società stessa è cambiata e la chiave interpretativa dell’attuale rapporto di pubblico impiego non può non essere la considerazione per cui i mattoni dell’apparato amministrativo a tutti i livelli sono proprio i suoi lavoratori, gli impiegati, i quali sono i soggetti principalmente deputati ad assicurare la regolarità dell’erogazione dei pubblici servizi e dell’azione amministrativa.